TEATRO
DELL’OPERA DI ROMA. FAST FORWARD FESTIVAL. TEATRO NAZIONALE. PROSERPINA,
monodramma di Johann Wolfgang Goethe, musica di Wolfgang Rihm.
Proserpina Moica
Erdmann
Direttore Walter
Kobéra
Regia Valentina
Carrasco
Scene Carles
Berga
ispirate alle opere di Clay
Apenouvon
Orchestra e Coro del Teatro dell’Opera di Roma
Maestro del Coro Roberto
Gabbiani
Prima rappresentazione: 7 giugno 2016
Replica: 9 giugno 2016
Il “monodramma” [1]Proserpina di Goethe ricorda i grandi
inni degli anni della giovinezza, soprattutto il Prometeo, del 1774, lo stesso anno dei Dolori del giovane Werther.
Goethe ha 25 anni, quando scrive il romanzo, dal quale si può fare
cominciare il romanzo moderno, anzi contemporaneo. Si spiega così da una parte,
nel romanzo, l’impetuosità dell’invenzione, ma sorprende, anche, in esso, la
lucidità dell’analisi psicologica e sociale, e d’altra parte ci meraviglia
ancora l’audacia dell’impostazione filosofica degli inni, una poesia che può
già far pensare a Rilke, a Benn, a Celan. Si capisce che Benedetto Croce
trovasse qualche difficoltà a separare in Goethe la poesia dalla non poesia,
l’impulso creativo, l’immaginazione, dalla riflessione razionale e perfino
scientifica con cui è affrontato il confronto con la realtà. Un romanzo come Le affinità elettive doveva risultargli
del tutto incomprensibile. Proserpina fu scritto di getto nel 1777, in prosa. Nel
1786 lo rielaborò in versi liberi. Nel 1815, infine, lo mise in scena a
Weimar. Goethe non è interessato a
mostrare il succedersi di azioni. Il dramma comincia quando Proserpina è già
stata rapita e condotta negli inferi da Plutone. L’azione del dramma è dunque
il suo prendere coscienza della sua nuova condizione di “regina” dei morti,
dominatrice, solo per nome, di una schiera innumerevole d’infelici, di cui,
però, non può mutare il destino, lei stessa anzi la più infelice di tutti,
perché, pur essendo una dea immortale, è sottratta alla luce del giorno, e
costretta a condividere le tenebre dei morti. Il lungo, straordinario monologo
comincia con la dizione di una consonante aspirata, l’acca, che in tedesco è
molto forte: ”Halte! Halt einmal, Unselige!” (Fermati! Fermati una volta,
infelice!) L’affanno della caduta, il singulto della disperazione. E si chiude
con un’altra serie di aspirazioni, haß, ich, dich, nicht, cui si contrappone il
suono sibilante fricativo di sch (l’italiano sc di scena), scheu, schik: “Wie haß ich dich,
/ Abscheu und Gemahl, / O
Pluto! Pluto! /Gib mir das Schicksal
deiner Verdammten! /Nenn es nicht
Liebe!“ (Come ti odio! / Repulsione e marito, /
o Plutone! Plutone! / Dammi il destino dei tuoi dannati! / Non chiamarlo amore!)
Rihm affronta questo folgorante, bellissimo testo come un testo aperto.
Proserpina è l’infelice vittima di una violenza che la condanna a una
condizione non voluta. Nella conferenza
di presentazione, al Teatro dell’Opera di Roma, Rimh ha affermato di sentirsi
figlio delle avanguardie del secondo Novecento, di Boulez e di Nono. Di
entrambi era strettissimo amico. Da Nono coglie la suggestione di entrare
dentro il corpo del suono. Da Boulez l’idea di progettare una partitura come un
teorema matematico. Ma l’effetto è dirompente. Come in Beethoven: l’esasperata
costruzione intellettuale della musica non inficia, anzi accresce l’impatto
emotivo che la musica produce. E come Lenz,
o Hamletmaschine, questa Proserpina è un capolavoro del teatro
musicale contemporaneo. La scena all’inizio è grigia. I colori sono
nell’orchestra. E sono i sentimenti di Proserpina. Orrore, sgomento di trovarsi
in un luogo così desolato, e infine disperazione senza uscita: è proprio il
regno dei morti: “Ach! Tochter
(altre aspirazioni) du des Jupiters, / Wie tief bist du verloren! (Ah!
figlia di Giove, / come profondamente sei tu perduta!) La memoria le fa
affiorare la visione del mondo abbandonato, dei suoi colori, dei suoi profumi,
i giochi con le altre ragazze. Ne approfittano le Parche. Le propongo la vista
di un ramoscello striminzito, su cui ammicca un fiore, attrae un frutto. Proserpina,
impietosita da quella vita stentata e insieme affascinata dal colore ardente
della melagrana, coglie il frutto, lo morde. Prova un piacere sottile,
penetrane, che si trasforma però subito in sofferenza, in dolore implacabile,
come un morso nelle viscere. “Warum sind Früchte schön, / Wenn sie verdammen?”
(Perché i frutti sono belli / se danno la dannazione?) La sgomento si tramuta
in rabbia, odio. “Warum?”Perché? “O
wäre der Tartarus nicht eure Wohnung, / Dass ich euch hin verwünschen könnte! /
O wäre der Cocyt nicht euer ewig Bad, / Dass ich für euch / Noch Flammen übrig
hätte! / Ich Königin, /
Und kann euch nicht vernichten! / In ewigen Hass
sei ich mit euch verbunden!“ (O fosse il Tartaro non la vostra dimora, /
ch’io potessi là confinarvi! / O fosse il Cocito non il vostro eterno bagno, / che
io per voi / ancora fiamme pronte avessi! / Io regina, / e non posso
annientarvi! / In eterno odio io sia con voi avvinta!) Il vincolo è
indissolubile. Non chiamarlo amore, ha detto. E aggiunge: “Wirf mich
mit diesen Armen / In die zerstörende Qual!” (Gettami con questi
miseri / nel tormento che distrugge). La
musica si acqueta. Piano piano la scena si oscura. Proserpina scompare per
sempre nelle tenebre. Rihm ha immaginato una voce lirica, capace di mille
fioriture, per la fanciulla rapita e sommersa. Una parte di difficoltà
tremende. Ma Moica Erdmann le intona con precisione infallibile, ed è un’
intensa, tenera e insieme tumultuosa, straordinaria Proserpina. Walter Kobéra legge lucidamente e con grande
sensibilità timbrica la partitura, gli rispondono egregiamente l’Orchestra e il
Coro del Teatro dell’Opera. Valentina Carrasco cura la messa in scena, che
forse si desidererebbe più scarna. Troppi movimenti intralciano il nodo
dell’azione, che si pensa tutta dentro la mente di Proserpina. Del resto anche
Goethe aveva immaginato intorno all’attrice movimenti di danza. Tuttavia una
maggiore sobrietà avrebbe giovato all’esito della rappresentazione. Le scene
sono di Carles Berga, ispirate alle opere di Clay Apenouvon. Impressionante
l’immobilizzazione di Proserpina con fasce nere sul letto nuziale, in attesa
dell’odiato, ripugnante amplesso del dio dei morti. Lo spettacolo è stato
giustamente applauditissimo. In margine, un’osservazione. Si fa tanto parlare,
oggi, in Italia, della necessità che a teatro, al cinema, il pubblico assista
allo svolgersi di un’azione. E magari di un’azione comprensibile. Ma è azione
solo il compulsare di gesti frenetici, lo scalmanarsi dei personaggi? Allora
siamo messi male. Perché nel teatro greco antico non succede niente, tutto
avviene fuori della scena e l’azione è affidata alle parole degli attori. Lo
stesso accade nel teatro francese classico. Nel teatro moderno, in Beckett. Ma
anche in altri. Goethe, e con lui Lessing, avevano già colto la capacità
teatrale, drammaturgica della sola parola. Capacità rivendicata anche da Eliot
e da Pasolini. Il loro sarebbe cattivo teatro o addirittura non teatro? Con
Wagner sarà la musica. E ancora si sente dire da noi che nei drammi di Wagner
“non succede niente”. Come se il delirio verso l’annientamento che percorre
tutto il secondo atto del Tristano,
anzi tutto il Tristano, fosse niente.
Lo si dice anche del Fidelio di
Beethoven. Ma, a parte i frenetici primi 20 minuti del secondo atto, davvero
altrove non succede niente? E quando Leonore scioglie le catene di Florestano
non accade niente? O quando Pizzarro si fa avanti per scusarsi e dice al
Ministro: “una parola”, ma viene tacitato dal Ministro con un semplice “sta’
zitto”, non accade niente? Il che non vuol dire che l’azione del dramma debba
sempre essere interiore ai personaggi. Esistono anche i drammi di cappa e
spada, che sono pura azione motoria. O le commedie d’intrigo. Significa più
semplicemente che il dramma prevede diversi tipi di azione. Infine, Proserpina è un dramma mitologico. Ma
per Goethe – e per Rihm, e per il teatro tedesco, aggiungo – il mito greco non
è legato alla configurazione ellenica, è un mitologema universale, il modello
di una tipologia psicologica e narrativa. Dunque il peplo non è necessario.
Come non lo era per il teatro francese, in cui Tito chiama Berenice “Madame” e
le dà del voi. Ma nemmeno la Bibbia, o il Vangelo, o le storie dei Santi sono
vincolati a una raffigurazione storicamente pertinente, per i pittori. L’Annunciazione di Leonardo ci mostra
nella Madonna una gran Dama Fiorentina, ricca ed elegante. Il teatro, e la
pittura, sono sempre stati teatro e pittura contemporanei. Dalla Madonna del parto di Piero della
Francesca all’Antigone di Anouhil. E
alla Proserpina di Goethe e di Rihm.Lo spettacolo conclude il Fast Forward Festival, in cui si
sono viste e ascoltate musiche e rappresentazioni di Goebbels, Bussott (la Passion selon Sade), Jean-Pierre Drouet,
John Cage,il Blank Out di Michel van der
Aa, l’Ars Ludi Ensemble, Sébastien Roux, Francesco Prode ha suonato Miroirs di
Ravel dentro un’ideazione scenica di Andrea Miglio, e a Ravel si accompagnavano
musiche di Alessandro Solbiati, Martino Traversa, Giorgio Colombo Taccani, Riccardo
Panfili e Vittorio Montalti. Per dieci giorni, insomma, il Teatro dell’Opera di
Roma è stato un laboratorio aperto della modernità. Bella l’idea di individuare
in Ravel uno dei padri dell’oggi.
Roma, 10 giugno 2016
Clay Apenouvon, Film noir de Lampedusa Saint Merry
[1] Qualcuno
tenterà d’inserirlo nel genere melodram, in italiano melologo. Ma l’uso del
termine monodramma, da parte di Goethe, vuole mettere in risalto la
rappresentazione – Darstellung – la recitazione di un testo, come centro
primario d’interesse, sulla musica, e sulla scenografia. Anche se poi nel 18i5
sembrerà orientarsi per una sorta di Gesamtkunstwerk, che però non anticipa
affatto la concezione wagneriana. In ogni caso la rappresentazione è concepita,
su suo suggerimento, più come tableau vivant, che come vero e proprio teatro
drammatico. In altri termini: il dramma è già tutto contenuto nel testo
poetico. E allora, in tal senso, questo monodramma anticipa se mai la
concezione della seconda parte del Faust.
Che non a caso, nella Notte classica di Valpurga richiama la figura di
Proserpina, ora chiamata col nome greco di Persefone (ultimi versi della scena
del Peneio inferiore).
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