lunedì 6 marzo 2017

Roma, Teatro Palladium, Il Pellicano di Strindberg



TEATRO PALLADIUM
UNIVERSITA’ DEGLI STUDI ROMA TRE
Il Pellicano di August Strindberg

La madre                                Micaaela Esdra
Il figlio                                    Giacomo Vigentini
La figlia                                  Dalila Reas
Il genero                                 Fabrizio Amicucci
La serva                                  Luisa Novario

Regia                                      Walter Pagliaro
Scene e costumi                     Luigi Perego
Teatro Stabile d’Abruzzo
Associazione Culturale Gianni Santuccio

Il teatro da camera di Strindberg apre una stagione nuova, o meglio, una prospettiva inaudita nel teatro europeo. Rovescia sulla scena senza pudore le più sconce e tortuose ossessioni, quasi una vivisezione dell’inconscio, e In qualche modo sembra perfino prefigurare il cinema, alla sua capacità di rispecchiare l’inconfessato dello spettatore. La durata, la densità dei dialoghi, la drammaturgia scarna, quasi ascetica lo accostano a certi esiti di Murnau (Nosferatu), del primo Dreyer (La moglie del Pastore, Vampyr). Strindberg vi riversa, concentrate, tutte le proprie ossessioni di maschio succube, sconfitto, insieme sadico e masochista. A Roma Il pellicano non si rappresentava da 30 anni. L’ossessione misogina di Strindberg è, per lo spettaore di oggi, imbarazzante. La catteveria della madre, nel Pellicano, ci sembra quasi ridicola, più che malvagia: scremare il latte per mangiarsi la crema e lasciare ai figl il latte scremato, non fornire legna e alle stufe e far morire i figli di freddo. L’allusione alla leggenda – falsa - che il pellicano nutrirebbe i figli con le proprie viscere è rovesciata, e con sarcasmo (non c’è ironia nei ritratti di Strindberg): qui è la madre che si nutre delle viscere dei figli. I quali, alla fine, scopriranno che il vero pellicano, invece, era stato il padre, anche lui una vittima della maligna donna. Il conflitto tra i sessi non è mai stato portato sulla scena con tanta durezza e violenza, con così furioso eccesso, con tale esasperata rabbia. I dialoghi tra la figlia e la madre potrebbero uscire dall’Oresteia di Eschillo o dal Lutto si addice ad Elettra di O’Neill. E’ una violenza primordiale, feroce, mitica, appunto, quella alla quale assistiamo. Come se a regolare le esistenze fosse una inceppata legge dell’evoluzione, la madre che ferma il processo, che blocca la riproduzione, e destina la specie umana alla scomparsa. Se ci fosse solo questo, il teatro di Strindberg non c’interesserebbe. Sono scene che ritraggono una patologia. Io non sono malato. Che ho a che fare con questo teatro? La realtà, fuori del teatro, è un’altra, io sono un altro. Ma ne siamo sicuri? Le cronache sembrerebbero smentire questa ingenua fiducia nella continuità della specie, nella rousseauiana bontà e generosità dell’uomo. Ogni tanto, infatti, c’è qualche figlio che ammazza la madre. Qualche madre che ammazza il figlio. Qualche padre che abusa della figlia e l’ammazza, o lo sequestra, la richiude in cantina, per continuare ad abusarne, oppire qualcun altro, anche lui padre, patrigno, zio, fratello, che sequestra, il figlio, la sorella, l’altro fratello, e ne abusa, ne gode a lungo e alla fine li uccide. Può accadere anche che invece sia una madre che ammazza il figlio o che ne abusa, una sorella.  La madre, nel Pellicano, a un certo punto, afferma che tutte le famiglie sono come questa e come la sua di quando era bambina. En passant: quanti sanno che Elisabetta I d’Inghilterra, la Regina Vergine, fu da bambina abusata dallo zio? Che il trauma le provocò una repulsione invincibile per il sesso? Esagera, dunque, la madre del Pllicano? Tutte, certo, no. mi dirà qualcuno. Non tutte le famiglie sono un inferno. Ma forse, chi sa, qualcuna? molte? Ecco: Strindberg ci obbliga a guardare in questi inferni. Non importa quanti, uno, tanti, infiniti, tutti. Fosse anche solo uno, basterebbe a rendere inospite la Terra. E ne restiamo turbati, sconvolti, scopriamo che quell’inferno ci appartiene, forse ci siamo perfino vissuti dentro, o qualcun altro ci è vissuto. Oppure l’inferno non è sempre così estremo, ma resta comunque inferno. Il criminale, l’assassino, lo stupratore, il torturatore non è uno diverso da noi, ma uno come noi, il vicino di casa, l’uomo che incotriamo dal giornaliao. Nessuno porta scitto sulla fronte: io sono un assassino, ho ucciso mia moglie, ho violato mia figlia, mio figlio, mia sorella. Questo teatro ci butta addosso ciò che non vogliamo vedere, ciò che non vogliamo sapere. E qui arriva la catarsi. Aristotele ha ragione: conoscere il male, esserne terrorizzati, ce ne libera. Sapere che non viviamo in un paese di balocchi ci aiuta a sentire il male, a prevederlo, a prevenirlo, e, forse, ad arrestarlo. C’è un momento – sublime! – nell’Elettra di Euripide. I due fratell9i hanno ammazzato la madre. Sono storditi. Non sanno che cosa fare, che cosa dire. Oreste fissa in faccia la sorella ed esclama: Elettra, che abbiamo fatto? abbiamo ucciso nostra madre? Strindberg, per vie tortuose, recupera questa coscienza del male. E ce la fa vedere. Ce la fa toccare. Ci obbliga a interrogarci se per caso non ne siamo complici, o addiritturia non siamo anche noi stessi, in maniera forse meno grava, e tuttavia reale, a compierlo quel male che ci spaventa. Ingmar Bergman, un altro svedese, ce lo dice in un film bellissimo: Sinfonia d’autunno. Walter Pagliaro conferisce immagie concreta a questi deliri, a queste fantasie, a queste allucinazioni. E quando, alla fine, la casa brucia e i due fratelli accolgono il fuoco come una liberazione, e attratti l’uno dall’altro, si baciano sulla bocca, ripetono essi stessi la storia di quell’inferno che li ha oppressi. La storia ricomincia. Oppure – e qui Strindberg sembra preludere a viaggi mistici – si ricomincia altrove, in un mondo diverso, dopo la vita. Ibsen, un norvegese, direbbe: Quando noi, morti, ci ridestiamo.  Mizaela Esdra è una madre esemplarmente malvagia, dalle infinite sfumature di parlato, talora perfino suadente, accattivante.  Se ne ha quasi pena quando confessa la sua infanzIa infelice. ll sordido genero, Fabrizio Amicucci, raffigura perfino nella sua deformità di sciancato la propria inadeguatezza umana, e nella voce stridula di corvo che uccide con un solo colpo di becco. I due figli, Giacomo Vigentini e Dalila Reas incarnano con sbalordimento, rancore, inguaribile dolore, lo smarrimento, il disorientamento delle vittime, e poi invece alla fine la sicurezza incestuosa ed omicida dei carnefici. Completa l’ottimo casto Luisa Novorio nel ruolo della serva, tagiente, quasi una voce del coro, a giudicare il male della casa. infernali, cupissime scene e laidi costumi, com’era giusto, di Luigi Perego. Pubblico folto che applaude. Ma aspetta un po’: chi sa, esterrefatto da ciò che ha visto e sentito. Spettacoli simil andrebbero proposti più spesso ai distratti italiani di oggi.

Fiano Romano, 6 marzo 2017

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