lunedì 17 luglio 2017

Ricordo di Mario Lunetta

Ricordo di Mario Lunetta



Si è artisti solo al prezzo di sentire ciò che tutti i non artisti chiamano “forma” come contenuto, come “la cosa stessa”. Con ciò ci si ritrova certo in un mondo capovolto: perché ormai il contenuto diventa qualcosa di meramente formale – compresa la nostra vita.
Nietzsche, Frammenti Postumi Novembre 1887 – Marzo 1888, 11, 3, Nizza 14 novembre 1887. Traduzione di Sossio Giametta, Milano, Adelphi, 1970.
(Le sottolineature sono di Nietzsche)

... tutti parlano della Grecia
in toni
visibilmente drammatici
quanto meno
preoccupati
e carichi di partecipe angoscia
senza sapere il greco/senza magari aver mai dato/
un'occhiata ai versi di Saffo
o alle tragedie di Euripide
attentissimi invece all'eterno sorriso di Tsipras
e all'andatura palestrata di Varoufakis
mentre
anche nell'istante di un istante fa l'Europa oligarchica
non cessa di disfarsi nel suo nulla
Mario Lunetta, Trascurabile

Conoscevo poco Mario Lunetta, e ancora meno le sue poesie e i suoi lavori teatrali Ne ammiravo, però, lo spirito civile. Rileggendo, ora che ci ha lasciati, taluni suoi versi, mi si stringe un groppo alla gola. Poco fa ho postato un pensiero di Leopardi, tratto dallo Zibaldone, in cui invita gli italiani a vergognarsi del loro presente. Sono passati quasi due secoli, da quando il giovane Conte Giacomo Leopardi scriveva quelle riflessioni di così bruciante attualità (24 marzo 1821). Vuol dire che siamo ancora fermi lì? L’amarezza del poeta recanatese si riflette poi nei versi di Carducci (sì, anche lui!), di Montale, di Sanguineti. E di Lunetta. Per esempio, questi, sopra citati. Ma ciò che colpisce – ferisce? - il lettore di oggi è la persistenza di quest’amarezza, la sensazione, divenuta presto consapevolezza, di essere un esiliato o, peggio, uno straniero nel proprio paese, e di parlare nel deserto. Se si va indietro con la memoria, riflessioni simili si riscontrano già in Dante, in Petrarca e, naturalmente, in Machiavelli. Su su fino Salvemini, Brancati, Pavese (cito a caso). Quasi a riconoscere che l’Italia resta, nei secoli, il paese di un disadattamento: al consesso delle altre nazioni, al confluire dei popoli del mondo e, infine, tutto sommato, a sé stessa, come se stentasse a individuare una tradizione, un ruolo, una funzione, che la collochi, a pari diritto, tra le nazioni dell’Europa e del mondo. Sempre ai margini, petulante, lagnosa, cenciosa ma con manie di grandezza, arrogante, vanitosa, mai consapevole dei propri limiti e delle proprie manchevolezze. Perfino un conservatore come Macron ha appena riconosciuto i torti della Francia verso il mondo. Nessuna protesta di orgoglio offeso tra i francesi. Noi, si stenta a dichiarare pubblicamente i crimini commessi nelle colonie, anzi perseguiamo chi li denuncia (Del Boca), o insceniamo pagliaccesche apologie del fascismo sulle spiagge del paese. Tra l’altro, secondo la Costituzione, quella Costituzione, che la valanga dei No al recente referendum ha voluto mantenere qual è, questo sarebbe un reato punibile a termini di legge: la libertà di pensiero non c’entra, come invece qualcuno ha invocato, perché ogni democrazia condanna e proibisce il pensiero e l’azione che vorrebbero abolirla. Chi sa, forse è destino anche dell’Italia, come lo fu della Russia, di uccidere i propri poeti. Il lamento di Roman Jakobson ci risuona nelle orecchie, non solo dal suo aureo libello, ma dalla sua voce che lo andava proclamano nell’Aula Magna dell’Università di Roma, nei primi anni ‘60, e io, allora neofita del formalismo russo del circolo di Praga e dello strutturalismo, lo ascoltavo rapito. Come quando, poco dopo, Roland Barthes c’ingiunse di “leggere” Racine. E ci parlava di Heine e di Schumann, facendoci ascoltare la voce di un baritono francese. Ecco, “ri-leggere” i versi di Mario Lunetta mi ri-squaderna in faccia quei discorsi, quelle voci, quella funzione del poeta, dello scrittore, del filosofo. Ri-leggo come ri-leggo i versi di Dante che Serena Vitale pone a epigrafe delle Ottave di Mandel’štam:

Nel suo profondo vidi che s’interna
legato con amore in un volume
ciò che per l’universo si squaderna;
sustanze e accidenti e lor costume,
quasi conflati insieme, per tal modo
che ciò ch’i’ dicoè un semplice lume.

E che cos’altro è trascorrere da Saffo, Euripide a Varoufakis? Di nuovo la contrapposizione tra l’amarezza di constatare una mancanza, un’assenza, una disfatta, e la frivola vanità di un presente che non guarda oltre il profilo del proprio naso. Guardiamoci negli occhi: quanti di noi, qui, oggi, vi si riconoscono? Quanti riconoscono il fallimento, la sconfitta? E guardano, inebetiti, il deserto del mondo che si crede un supermarket? Che, anzi, non sa dare di sé altra immagine che quella di un supermarket? Il distico, citato qui sotto, fa pensare anche al finale apocalittico della Coscienza di Zeno. E chi sa che questa Apocalissi, senza che ce ne accorgiamo, non sia già incominciata. A ricondurci all’insensibilità dell’inorganico.

Questo mondo carnivoro costruito dall'uomo per l'uomo
cambierà in meglio solo con la sua scomparsa.
M. Lunetta, Le scarpe, come sempre
(cfr. Svevo, La coscienza di Zeno, “l’occhialuto uomo”)

Ecco il passo dello Zibaldone leopardiano:

Se noi dobbiamo risvegliarci una volta, e riprendere lo spirito di nazione, il primo nostro moto dev’essere, non la superbia né la stima delle nostre cose presenti, ma la vergogna. E questa ci deve spronare a cangiare strada del tutto e rinnovellare ogni cosa. Senza ciò non faremo mai nulla. Commemorare le nostre glorie passate, è stimolo alla virtù, ma mentire e fingere le presenti è conforto all’ignavia, e argomento di rimanersi contenti in questa vilissima condizione. Oltre che questo serve ancora ad alimentare e confermare e manteere quella miseria di giudizio, o piuttosto quella incapacità d’ogni retto giudizio, e mancanza d’ogni arte critica, di cui lagnavasi l’Alfieri nella sua Vita rispetto all’Italia, e che oggidì è così evidente per la continua esperienza sì delle grandi scempiaggini lodate, sì dei pregi (se qualcuno per miracolo ne occorre) o sconosciuti, o trascurati, o negati, o biasimati.


Leopardi, Zibaldone, 24 marzo 1821 (pag. dei quaderni 865).


Fiano Romano, 17 luglio 2017

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