Ricordo
di Mario Lunetta
Si è artisti
solo al prezzo di sentire ciò che tutti i non artisti chiamano
“forma” come contenuto, come “la cosa stessa”. Con ciò
ci si ritrova certo in un mondo capovolto: perché ormai il
contenuto diventa qualcosa di meramente formale – compresa la
nostra vita.
Nietzsche,
Frammenti Postumi Novembre 1887 – Marzo 1888, 11, 3, Nizza 14
novembre 1887. Traduzione di Sossio Giametta, Milano, Adelphi, 1970.
(Le sottolineature sono di Nietzsche)
...
tutti parlano della Grecia
in
toni
visibilmente
drammatici
quanto
meno
preoccupati
e
carichi di partecipe angoscia
senza
sapere il greco/senza magari aver mai dato/
un'occhiata
ai versi di Saffo
o
alle tragedie di Euripide
attentissimi
invece all'eterno sorriso di Tsipras
e
all'andatura palestrata di Varoufakis
mentre
anche
nell'istante di un istante fa l'Europa oligarchica
non
cessa di disfarsi nel suo nulla
Mario Lunetta,
Trascurabile
Conoscevo poco Mario
Lunetta, e ancora meno le sue poesie e i suoi lavori teatrali Ne
ammiravo, però, lo spirito civile. Rileggendo, ora che ci ha
lasciati, taluni suoi versi, mi si stringe un groppo alla gola. Poco
fa ho postato un pensiero di Leopardi, tratto dallo Zibaldone, in cui
invita gli italiani a vergognarsi del loro presente. Sono passati
quasi due secoli, da quando il giovane Conte Giacomo Leopardi
scriveva quelle riflessioni di così bruciante attualità (24 marzo
1821). Vuol dire che siamo ancora fermi lì? L’amarezza del poeta
recanatese si riflette poi nei versi di Carducci (sì, anche lui!),
di Montale, di Sanguineti. E di Lunetta. Per esempio, questi, sopra
citati. Ma ciò che colpisce – ferisce? - il lettore di oggi è la
persistenza di quest’amarezza, la sensazione, divenuta presto
consapevolezza, di essere un esiliato o, peggio, uno straniero nel
proprio paese, e di parlare nel deserto. Se si va indietro con la
memoria, riflessioni simili si riscontrano già in Dante, in Petrarca
e, naturalmente, in Machiavelli. Su su fino Salvemini, Brancati,
Pavese (cito a caso). Quasi a riconoscere che l’Italia resta, nei
secoli, il paese di un disadattamento: al consesso delle altre
nazioni, al confluire dei popoli del mondo e, infine, tutto sommato,
a sé stessa, come se stentasse a individuare una tradizione, un
ruolo, una funzione, che la collochi, a pari diritto, tra le nazioni
dell’Europa e del mondo. Sempre ai margini, petulante, lagnosa,
cenciosa ma con manie di grandezza, arrogante, vanitosa, mai
consapevole dei propri limiti e delle proprie manchevolezze. Perfino
un conservatore come Macron ha appena riconosciuto i torti della
Francia verso il mondo. Nessuna protesta di orgoglio offeso tra i
francesi. Noi, si stenta a dichiarare pubblicamente i crimini
commessi nelle colonie, anzi perseguiamo chi li denuncia (Del Boca),
o insceniamo pagliaccesche apologie del fascismo sulle spiagge del
paese. Tra l’altro, secondo la Costituzione, quella Costituzione,
che la valanga dei No al recente referendum ha voluto mantenere qual
è, questo sarebbe un reato punibile a termini di legge: la libertà
di pensiero non c’entra, come invece qualcuno ha invocato, perché
ogni democrazia condanna e proibisce il pensiero e l’azione che
vorrebbero abolirla. Chi sa, forse è destino anche dell’Italia,
come lo fu della Russia, di uccidere i propri poeti. Il lamento di
Roman Jakobson ci risuona nelle orecchie, non solo dal suo aureo
libello, ma dalla sua voce che lo andava proclamano nell’Aula Magna
dell’Università di Roma, nei primi anni ‘60, e io, allora
neofita del formalismo russo del circolo di Praga e dello
strutturalismo, lo ascoltavo rapito. Come quando, poco dopo, Roland
Barthes c’ingiunse di “leggere” Racine. E ci parlava di Heine e
di Schumann, facendoci ascoltare la voce di un baritono francese.
Ecco, “ri-leggere” i versi di Mario Lunetta mi ri-squaderna in
faccia quei discorsi, quelle voci, quella funzione del poeta, dello
scrittore, del filosofo. Ri-leggo come ri-leggo i versi di Dante che
Serena Vitale pone a epigrafe delle Ottave di Mandel’štam:
Nel suo profondo vidi che s’interna
legato
con amore in un volume
ciò
che per l’universo si squaderna;
sustanze
e accidenti e lor costume,
quasi
conflati insieme, per tal modo
che
ciò ch’i’ dicoè un semplice lume.
E
che cos’altro è trascorrere da Saffo, Euripide a Varoufakis? Di
nuovo la contrapposizione tra l’amarezza di constatare una
mancanza, un’assenza, una disfatta, e la frivola vanità di un
presente che non guarda oltre il profilo del proprio naso.
Guardiamoci negli occhi: quanti di noi, qui, oggi, vi si riconoscono?
Quanti riconoscono il fallimento, la sconfitta? E guardano,
inebetiti, il deserto del mondo che si crede un supermarket? Che,
anzi, non sa dare di sé altra immagine che quella di un supermarket?
Il distico, citato
qui sotto, fa pensare
anche al finale apocalittico della Coscienza di Zeno. E
chi sa che questa Apocalissi, senza che ce ne accorgiamo, non sia già
incominciata. A ricondurci all’insensibilità dell’inorganico.
Questo mondo
carnivoro costruito dall'uomo per l'uomo
cambierà in meglio
solo con la sua scomparsa.
M.
Lunetta, Le scarpe, come sempre
(cfr. Svevo, La
coscienza di Zeno, “l’occhialuto uomo”)
Ecco il passo dello
Zibaldone leopardiano:
Se
noi dobbiamo risvegliarci una volta, e riprendere lo spirito di
nazione, il primo nostro moto dev’essere, non la superbia né la
stima delle nostre cose presenti, ma la vergogna. E questa ci deve
spronare a cangiare strada del tutto e rinnovellare ogni cosa. Senza
ciò non faremo mai nulla. Commemorare le nostre glorie passate, è
stimolo alla virtù, ma mentire e fingere le presenti è conforto
all’ignavia, e argomento di rimanersi contenti in questa vilissima
condizione. Oltre che questo serve ancora ad alimentare e confermare
e manteere quella miseria di giudizio, o piuttosto quella incapacità
d’ogni retto giudizio, e mancanza d’ogni arte critica, di cui
lagnavasi l’Alfieri nella sua Vita rispetto all’Italia, e che
oggidì è così evidente per la continua esperienza sì delle grandi
scempiaggini lodate, sì dei pregi (se qualcuno per miracolo ne
occorre) o sconosciuti, o trascurati, o negati, o biasimati.
Leopardi,
Zibaldone, 24 marzo 1821 (pag. dei quaderni 865).
Fiano Romano, 17
luglio 2017
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