Qualche riflessione su Quasi
leggera morte. Ottave,
di
Osip
Mandel’štam.
A cura di Serena Vitale, Milano, Adelphi, 2017
Sto leggendo l’ultima fatica di quella straordinaria lettrice di
poesia che è Serena Vitale: Osip Mandel’štam,
“Quasi leggera morte. Ottave”. Premetto che non conosco la
lingua russa. E’ un mio grande rammarico. Se esiste la
reincarnazione, in un’altra vita voglio impararla: se non altro per
leggere alcuni dei più grandi poeti dell’Occidente, a cominciare
da Puškin.
Ma: e Blok, e Majakovskij, e Achmatova, e Cvetaeva e Pasternak?
Guerra e pace l’ho letto che avevo 16 anni e non mi è mai più
uscito dalla mente e dal cuore. L’Idiota, uno o due anni dopo. Lo
stesso. Lessi Memorie dal sottosuolo mentre avevo cominciato la
lettura di Kafka. Sono punti di riferimento1
alla Boulez: vale a dire pilastri della mia consapevolezza. Ma devo
arrendermi allo scoglio della lingua (per fortuna, non per Kafka).
Per uno che ama la poesia come me, e che sente l’intimo legame tra
lingua e poesia, non è uno scoglio da poco. E’ anzi un ostacolo
insormontabile. Tanto più che la poesia russa, come quella di altre
lingue slave, e come la poesia tedesca e inglese, ha conservato la
percezione della quantità, la stessa che ammiriamo nella poesia
classica greca e latina. Mandel’štam
scrive trimetri,
tetrametri, pentametri giambici. Una sorta d’incunabolo della
metrica indoeuropea. La ritroviamo in Sofocle come in Shakespeare
come in Goethe. Ma con Sofocle, Shakespeare e Goethe mi trovo in una
terra conosciuta. Nella terra di Puškin
e di Mandel’štam, sunt leones. Eppure ne respiro una certa
familiarità fin dall’adolescenza, quando in famiglia è entrata la
moglie croata di mio zio. Frasi elementari croate so ancora
pronunciarle. Ma soprattutto mi è familiare (alla lettera!) il suono
della lingua, il suo consonantismo, la percezione della durata delle
vocali, quello che oggi fa impazzire tanti italiani che leggono
l’accento delle lingue slave che usano l’alfabeto latino come se
fossero accenti tonici e sono invece indicatori della durata delle
vocali. Gli italiani dicono Ianàcek e dovrebbero invece dire
Iànaacek, per il compositore ceco Janáček.
Per non parlare di Dvořák, che quasi tutti dicono Dvorgiàk ed è,
invece, più o meno, Dvórgiaak. Da mia zia ho imparato il valore
semivocalico della r e della l. Morte
in croato e in russo si dice smrt. L’accento tonico cade sulla r.
Trieste in croato è Trst. Anche qui l’accento tonico cade sulla r.
Mi è servito poi quando
ho cominciato a studiare il sanscrito. Ma torniamo al bellissimo
volumetto curato dalla Vitale. Ci tornerò su quando ne avrò
completato la lettura, fittissima, intensa, che richiede una costante
attenzione. Ecco qua la prima ottava, nella traduzione della Vitale:
Amo l’apparizione del tessuto
quando una, due, più volte
manca il fiato e infine arriva
il sospiro che risana.
E tracciando verdi forme,
quasi archi di vele in regata
gioca lo spazio assonnato,
bambino ignaro della culla.
Il primo impatto farebbe
esclamare: ma è incomprensibile! All’incomprensibilità, tra
l’altro, contribuisce l’ignoranza della lingua. Poi leggi, nel
commento, che nella tradizione russa si trova spesso la metafora del
tessuto come materia della poesia. I versi dunque parlano della
poesia: anzi, della nascita della poesia. Poi
entra in gioco il senso di una costruzione, della visione di una
regata, e sono i versi che sfilano, s’impennano, come vele, nascono
quasi autonomi dalla penna del poeta, come se non ne avesse
consapevolezza, e tuttavia proprio nella costruzione del verso sta la
sua consapevolezza. Tutti coloro che inneggiano alla poesia
immediatamente comprensibile, all’intuizione illuminante, alla
crociana
“espressione del sentimento”, sono qui serviti. “Se un’opera
in versi si rivela riassumibile, lì la poesia non ha mai messo piede
...” dichiara Mandel’štam. Mi sono sentito felice a leggere
quest’affermazione, espressa da un grande poeta. Perché riassume
in una
frase ciò che credo di avere capito fin da bambino, fin da quando
mia madre mi fece leggere La quiete dopo la tempesta, e capii subito
che la tempesta non è solo la tempesta. La poesia nasce dal corto
circuito di pensiero ed emozione, l’uno senza l’altra non produce
poesia, non canta. Quando nel primo canto del Paradiso, mentre il
personaggio Dante e la sua guida Beatrice salgono al cielo della
luna, il poeta Dante (che non è il personaggio!) mette in bocca a
Beatrice un inno all’armonia dell’Universo, per
spiegare il senso di quel volo che apparentemente infrange la legge
della gravità (Dante non la conosceva come tale, ma sapeva che i
corpi scendono, cadono, il fuoco invece sale).
Non cito a caso Dante. E’ un saggio su Dante il testo teorico più
significativo di Mandel’štam. Dante
personaggio aveva chiesto alla sua guida come mai il suo corpo
vincesse la forza di gravità – nella lingua scientifica di Dante:
come mai invece di cadere il suo corpo saliva. Beatrice sente il
bisogno d’inquadrare la spiegazione in un ordine universale delle
cose. Dante non lo conosceva. Ma si pensa a Lucrezio. Lo spirito è
quello: la poesia come febbre della conoscenza. E Beatrice attacca:
… Le cose tutte quante
hanno ordine tra loro e questo è
forma
che l’Universo a Dio fa
simigliante.
Qui veggion l’alte creature
l’orma
dell’etterno valore, il qual è
fine
al quale è fatta la toccata
norma.
Nell’ordine ch’io dico sono
accline
tutte nature, per diverse sorti,
più al principio loro e men
vicine;
onde si muovono a diversi porti
per lo gran mar dell’essere, e
ciascuna
con istinto a lei dato che la
porti.
Se il lettore non sa che “forma”
è il termine tecnico con cui Aristotele, e quindi San Tommaso,
definiscono la struttura delle cose, come capirà questo lettore la
sublime poesia di questo passo? Ecco: anche la poesia richiede
erudizione, conoscenza, studio, applicazione, ostinata insistenza di
comprensione. Chi non vuole affrontare lo sforzo, se ne tenga
lontano. L’idea che un’opera debba riuscire immediatamente,
intuitivamente comprensibile è l’idea di chi vuole semplificare la
realtà, nasconderne la complessità, perché costerebbe fatica
affrontarla. Invece anche
la poesia è fatica, richiede fatica. Al poeta e al lettore. Chiudo
con un bellissimo aforisma di Robert Schumann, che cito spesso, ma
che coglie perfettamente l’abisso tra chi conosce la complessità
della poesia e chi vorrebbe immediatamente gustarla, come un
bicchiere di Coca Cola, un gelato, un giocattolo usa e getta. “Mi
piace, non mi piace, dice la gente. Come se non ci fosse niente di
più importante da fare al mondo che piacere alla gente”. Ha
ragione Schumann. Attenti!
Ascoltate, infatti,
Rimbaud: la poesia non apre necessariamente un paradiso, può invece
essere più spesso un viaggio all’inferno:
ché non
è impresa da pigliare
a gabbo
discriver
fondo a tutto l’Universo,
né da lingua che chiami mamma o
babbo.
Ancora Dante. Lo chiama in causa
anche Serena Vitale, che pone a intestazione del prezioso volumetto
le seguenti terzine del Paradiso:
Nel suo profondo vidi che
s’interna
legato con amore in un volume
ciò che per l’universo si
squaderna;
sustanze e accidenti e lor
costume,
quasi conflati insieme, per tal
modo
che ciò ch’i’ dicoè un
semplice lume.
Mi commenti questi versi chi non
sa niente della Metafisica di Aristotele e della riflessione
teologica
di San Tommaso! C’è
anzi, perfino un pizzico di Duns Scoto!
Di nuovo mi soccorre Dante:
Fatti non foste a viver come
bruti
ma per seguir virtute e
conoscenza.
Versi che Primo Levi cita in Se
questo è un uomo a illuminare l’orrore di Auschwitz. Non
servono commenti.
Fiano Romano, 16 luglio 2017
1Titolo
di una raccolta di saggi.
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