“Fillus de anima.
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“Nel suo profilo sottile lui riconobbe qualcosa di compiuto che gli
era familiare, e sorrise. Insieme come erano arrivati, tornarono a
casa fianco a fianco, del tutto incuranti di dare alle bocche di
Soreni l’ennesima occasione di parlare di niente”.
Sono l’attacco e le righe finali del romanzo. Come un cerchio che
racchiude il segreto di essere sardi. Attribuire all’emozione
l’intensità della chiarezza intellettuale: senza distinzione tra
ciò ch’è razionale e ciò che non lo è. Convenzioni del
Continente, la distinzione. Ci sono cose che si fanno e cose che non
si fanno. Il bene e il male non c’entrano. La morale non è
qualcosa che riguardi la loro vita. Lo sa perfino il prete: “Don
Franziscu chiese se doveva venire per l’estrema unzione, e da come
Maria rispose che glielo avrebbe fatto sapere al momento opportuno,
il prete capì che il momento opportuno non sarebbe mai giunto, ma
ebbe il pudore di nascondere il sollievo”. La religione, se ne
hanno una, di questa gente non ha niente a che vedere con Cristo. E
per molti versi la durezza della loro vita conosce comprensioni e
tenerezze che Cristo, ma soprattutto il il Continente ignorano. Ma
anche ossessioni, rabbie, ferocie che non cessano, da cui non si
guarisce. Può essere anche l’appropriazione illegale, spostando i
muretti di confine, di pochi metri di terreno. La morte, che si
piange anche quando del morto non importa niente, solo perché una
morte, comunque, fa piangere, e quando una morte si presenta
all’appuntamento si deve piangere. La morte, anche la più
terribile, la più lunga, è riconosciuta come un sollievo, una
liberazione, perché, diversamente dal Continente, non ci si nasconde
che la vita può essere peggio. E c’è dunque chi, amorosamente, a
quel peggio mette fine: l’accabadora, dallo spagnolo acabar,
finire, colei che aiuta a finire la vita.
Queste righe non sono una recensione. Ma riflessioni buttate giù,
dopo avere letto il romanzo. E letto solo adesso, dopo nove anni
dalla sua pubblicazione. Mi sono sempre lamentato della sciatteria
dei nuovi scrittori italiani, soprattutto di quelli che vincono lo
Strega o il Campiello o il Viareggio. Poi ho scoperto invecen che,
nascosti, esistono alcuni giovani scrittori fuori dal coro, che non
cercano di abbindolare il lettore, sono duri, impietosi,la realtà
che raccontano è la catastrofe dell’Italia di oggi. Fanno
esattamente il contrario, dunque, di quello che fanno gli scrittori
affermati. Michela Murgia possiamo dirla, però, già affermata, e
pubblica con un editore importante. Ma è lo stesso una voce fuori
del coro. Gli scrittori affermati seducono il lettore scrivendo
quello che il lettore si aspetta di leggere. Questi scrittori fuori
del coro, invece, raccontano una realtà ancora più brutta, ancora
più dura, di come il lettore italiano medio se l’aspetta
raccontata in un libro. A cominciare dai titoli: Dalle rovine
(Luciano Funetta), Gli indecenti (Paolo Marati), De
peccatis nostris (Massimiliano Felli). Ci aiutano a capirla,
questa realtà, proprio perché non illudono che se ne possa dare un
ritratto più benevolo. Non vogliono infondere consolazione, ma
suscitare consapevolezza. Sono pochissimo noti. Ma scrittori per
davvero. Una prosa essenziale, mai sciatta, che non cede ai lenocinii
della scrittura pubblicitaria odierna. Sono il contrario di un Volo,
di un Moccia. Ma ritorniamo a Michela Murgia.
Potrebbe venire in mente il nome di Grazia Deledda. E c’è chi l’ha
fatto. Ma è troppo ovvio. Poiché è una scrittrice sarda. In
qualche modo, una straniera, per gli italiani del Continente. Ma come
lo furono, a loro modo, anche Svevo e Pirandello, e più indietro
ancora, Ippolito Nievo. Ma il mondo di Michela Murgia è un altro, e
non solo perché è un mondo a noi contemporaneo. E’ altro il suo
sguardo sul mondo, non solo sulla Sardegna, ma anche su Torino. Mai
lo sguardo della scrittrice, sempre quello del personaggio. Si pensa
a Flaubert, a Zola. Ma sarebbe fuorviante, perché il naturalismo, il
realismo non c’entrano. E tanto meno la versione italiana del
verismo. Lo scrittore, anzi la scrittrice è assente, ma si fa
visibile con la scrittura. La prosa è scarna, va diritto all’osso.
Sorprendenti e originali i paragoni, sembrano provenire da un’antica
tradizione di cantastorie – Omero era uno di questi – ma in
realtà sono cavati fuori da esperienze vissute. Hanno tuttavia il
sapore di una memoria collettiva. La storia è lineare, semplice,
priva di colpi di scena, ma non di tensione. Potrebbe sembrare
perfino un racconto di formazione, e in parte lo è. Non di qualche
privilegiato pupillo di una borghesia intellettuale, ma della figlia,
rifiutata, di una madre contadina che non può mantenerla e perciò
la cede a una donna sterile, come fill’e anima.Ma man mano che si
snoda la vicenda accade che a maturare consapevolezza non sono solo i
personaggi, bensì anche il lettore. Il racconto è pieno di fatti,
eppure sono narrati come se a filtrarli fosse la coscienza dei
personaggi. Niente monologo interiore, oppure tutto il romanzo è un
monologo interiore, ma coniugato alla terza persona, singolare e
plurale. Raramente si sente pronunciare il pronome io. Come se i
confini della persona fossero trasparenti, mobili, si allargassero
alle cose, agli altri personaggi. Più che attraverso le parole, i
personaggi s’intendono con gli sguardi, i silenzi, i gesti. Quando
s’intendono. E la cosa più terribile, Maria, la fill’e anima, la
intende tardi. Che la madre adottiva è un’accabadora. Maria
rifiuta di accettarla. “Non dire mai: di quest’acqua io non ne
bevo”, l’ammonisce l’accabadora. La formazione consiste proprio
in questo: che alla fine capirà, accetterà, berrà quell’acqua.
Ma non per necessità. Bensì, per pietà, per amore. Perché
assistere a una sofferenza di cui non si prevede la fine è
sofferenza maggiore di porre volontariamente fine a quella
sofferenza. La vita continua. Nel villaggio si continuerà a “parlare
di niente”. Viene in mente la conclusione di un altro grandissimo
romanzo, dove, anche lì, la sofferenza deve cedere il passo alla
vita che continua, sempre uguale. “Tornò a guardare il mare, che
s’era fatto amaranto, tutto seminato di barhe che avevano
cominciato la loro giornata anche loro, riprese la sua sporta e
disse: - Ora è tempo d’andarsene, perché fra poco comincerà a
passar gente. Ma il primo di tutti a cominciar la sua giornata è
stato Rocco Spatu”. Verga, I Malavoglia.
Michela Murgia, Accabadora, Torino, Einaudi, 2009, pagg. 166,
€ 11.00
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