lunedì 14 maggio 2018

Michela Murgia, Accabadora, una riflessione, dieci anni dopo

“Fillus de anima.
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“Nel suo profilo sottile lui riconobbe qualcosa di compiuto che gli era familiare, e sorrise. Insieme come erano arrivati, tornarono a casa fianco a fianco, del tutto incuranti di dare alle bocche di Soreni l’ennesima occasione di parlare di niente”.

Sono l’attacco e le righe finali del romanzo. Come un cerchio che racchiude il segreto di essere sardi. Attribuire all’emozione l’intensità della chiarezza intellettuale: senza distinzione tra ciò ch’è razionale e ciò che non lo è. Convenzioni del Continente, la distinzione. Ci sono cose che si fanno e cose che non si fanno. Il bene e il male non c’entrano. La morale non è qualcosa che riguardi la loro vita. Lo sa perfino il prete: “Don Franziscu chiese se doveva venire per l’estrema unzione, e da come Maria rispose che glielo avrebbe fatto sapere al momento opportuno, il prete capì che il momento opportuno non sarebbe mai giunto, ma ebbe il pudore di nascondere il sollievo”. La religione, se ne hanno una, di questa gente non ha niente a che vedere con Cristo. E per molti versi la durezza della loro vita conosce comprensioni e tenerezze che Cristo, ma soprattutto il il Continente ignorano. Ma anche ossessioni, rabbie, ferocie che non cessano, da cui non si guarisce. Può essere anche l’appropriazione illegale, spostando i muretti di confine, di pochi metri di terreno. La morte, che si piange anche quando del morto non importa niente, solo perché una morte, comunque, fa piangere, e quando una morte si presenta all’appuntamento si deve piangere. La morte, anche la più terribile, la più lunga, è riconosciuta come un sollievo, una liberazione, perché, diversamente dal Continente, non ci si nasconde che la vita può essere peggio. E c’è dunque chi, amorosamente, a quel peggio mette fine: l’accabadora, dallo spagnolo acabar, finire, colei che aiuta a finire la vita.
Queste righe non sono una recensione. Ma riflessioni buttate giù, dopo avere letto il romanzo. E letto solo adesso, dopo nove anni dalla sua pubblicazione. Mi sono sempre lamentato della sciatteria dei nuovi scrittori italiani, soprattutto di quelli che vincono lo Strega o il Campiello o il Viareggio. Poi ho scoperto invecen che, nascosti, esistono alcuni giovani scrittori fuori dal coro, che non cercano di abbindolare il lettore, sono duri, impietosi,la realtà che raccontano è la catastrofe dell’Italia di oggi. Fanno esattamente il contrario, dunque, di quello che fanno gli scrittori affermati. Michela Murgia possiamo dirla, però, già affermata, e pubblica con un editore importante. Ma è lo stesso una voce fuori del coro. Gli scrittori affermati seducono il lettore scrivendo quello che il lettore si aspetta di leggere. Questi scrittori fuori del coro, invece, raccontano una realtà ancora più brutta, ancora più dura, di come il lettore italiano medio se l’aspetta raccontata in un libro. A cominciare dai titoli: Dalle rovine (Luciano Funetta), Gli indecenti (Paolo Marati), De peccatis nostris (Massimiliano Felli). Ci aiutano a capirla, questa realtà, proprio perché non illudono che se ne possa dare un ritratto più benevolo. Non vogliono infondere consolazione, ma suscitare consapevolezza. Sono pochissimo noti. Ma scrittori per davvero. Una prosa essenziale, mai sciatta, che non cede ai lenocinii della scrittura pubblicitaria odierna. Sono il contrario di un Volo, di un Moccia. Ma ritorniamo a Michela Murgia.
Potrebbe venire in mente il nome di Grazia Deledda. E c’è chi l’ha fatto. Ma è troppo ovvio. Poiché è una scrittrice sarda. In qualche modo, una straniera, per gli italiani del Continente. Ma come lo furono, a loro modo, anche Svevo e Pirandello, e più indietro ancora, Ippolito Nievo. Ma il mondo di Michela Murgia è un altro, e non solo perché è un mondo a noi contemporaneo. E’ altro il suo sguardo sul mondo, non solo sulla Sardegna, ma anche su Torino. Mai lo sguardo della scrittrice, sempre quello del personaggio. Si pensa a Flaubert, a Zola. Ma sarebbe fuorviante, perché il naturalismo, il realismo non c’entrano. E tanto meno la versione italiana del verismo. Lo scrittore, anzi la scrittrice è assente, ma si fa visibile con la scrittura. La prosa è scarna, va diritto all’osso. Sorprendenti e originali i paragoni, sembrano provenire da un’antica tradizione di cantastorie – Omero era uno di questi – ma in realtà sono cavati fuori da esperienze vissute. Hanno tuttavia il sapore di una memoria collettiva. La storia è lineare, semplice, priva di colpi di scena, ma non di tensione. Potrebbe sembrare perfino un racconto di formazione, e in parte lo è. Non di qualche privilegiato pupillo di una borghesia intellettuale, ma della figlia, rifiutata, di una madre contadina che non può mantenerla e perciò la cede a una donna sterile, come fill’e anima.Ma man mano che si snoda la vicenda accade che a maturare consapevolezza non sono solo i personaggi, bensì anche il lettore. Il racconto è pieno di fatti, eppure sono narrati come se a filtrarli fosse la coscienza dei personaggi. Niente monologo interiore, oppure tutto il romanzo è un monologo interiore, ma coniugato alla terza persona, singolare e plurale. Raramente si sente pronunciare il pronome io. Come se i confini della persona fossero trasparenti, mobili, si allargassero alle cose, agli altri personaggi. Più che attraverso le parole, i personaggi s’intendono con gli sguardi, i silenzi, i gesti. Quando s’intendono. E la cosa più terribile, Maria, la fill’e anima, la intende tardi. Che la madre adottiva è un’accabadora. Maria rifiuta di accettarla. “Non dire mai: di quest’acqua io non ne bevo”, l’ammonisce l’accabadora. La formazione consiste proprio in questo: che alla fine capirà, accetterà, berrà quell’acqua. Ma non per necessità. Bensì, per pietà, per amore. Perché assistere a una sofferenza di cui non si prevede la fine è sofferenza maggiore di porre volontariamente fine a quella sofferenza. La vita continua. Nel villaggio si continuerà a “parlare di niente”. Viene in mente la conclusione di un altro grandissimo romanzo, dove, anche lì, la sofferenza deve cedere il passo alla vita che continua, sempre uguale. “Tornò a guardare il mare, che s’era fatto amaranto, tutto seminato di barhe che avevano cominciato la loro giornata anche loro, riprese la sua sporta e disse: - Ora è tempo d’andarsene, perché fra poco comincerà a passar gente. Ma il primo di tutti a cominciar la sua giornata è stato Rocco Spatu”. Verga, I Malavoglia.

Michela Murgia, Accabadora, Torino, Einaudi, 2009, pagg. 166, € 11.00

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