PETIT
POÈME
EN PROSE
(souvenir
des chats de Baudelaire)
à
Fabio et
Lidia,
souvenir de Salvo
Figaro
l’ho trovato una
sera
sotto una fontana di Villa Sciarra. Uno scricciolo nero che urlava di
solitudine e di fame. Più ancora, forse, di abbandono. Lo raccolsi e
cominciai ad accarezzargli la nuca. Smise di strillare e cominciò a
fare le fusa. “Prendilo con te!” disse l’amica
che era con me.
Lo portammo a casa. Ma ci fermammo, prima, in una macelleria a
comprare un po’ di carne macinata. Era già abbastanza grande per
non imporgli la solita
ciotolina di latte. Si rivelò, poi, goloso di milza. Gliela
scottavo un po’, la mattina. La divorava avidamente, grugnendo di
piacere. Gli piacevano anche le alici, ma se non erano più che
fresche le rifiutava, grattando con la zampetta destra il pavimento.
Il
veterinario mi proibì di dargli polmone. Era rachitico. Per un mese
gl’infilai così
un
ago sotto la pelle. Figaro non protestava. Si lasciva fare tutto, da
me. Ma guai se ad avvicinarsi fosse stato un altro. Fu sempre
diffidente con gli estranei. Quando veniva a trovarmi un amico, mi
saltava sulle ginocchia e scrutava l’intruso. Se gli garbava,
scendeva dalle mie ginocchia per saltare sulle sue. Altrimenti,
restava accucciato sulle mie. E ogni tanto mi guardava,
interrogativo: ma quando se ne va? C’era un amico che veniva più
spesso, e con lui prese subito confidenza. Quando entrava, gli si
strusciava sui pantaloni per farsi carezzare. Quella sera, appena
tornato a casa, gli diedi su un piattino la carne macinata. La divorò
in un attimo. E, alzando il muso dal piatto pulito e leccato, mi
guardò interrogativo: già finita? Non volevo abituarlo a
intrufolasi subito tra le coperte. Chiusi,
perciò,
la porta della camera da letto. Cominciò una lagna peggio che a
Villa Sciarra, e dovetti riaprire
la porta. Saltò subito sul letto e volle infilarsi sotto le
lenzuola. Lo tirai fuori e lo misi ai miei piedi. Ma lui tornò
sopra, e si accucciò accanto alla mia faccia sul cuscino. Lo lasciai
fare. Avremmo dormito sempre così. A quell’epoca mi alzavo presto,
per raggiungere il liceo dove insegnavo italiano e latino. Preparavo
la milza, o le sardine, o altro, mi vestivo, e uscivo. Lasciavo
aperta la porta del giardino e lui usciva per le sue perlustrazioni.
Al ritorno, però, appena rientravo e socchiudevo l’uscio, mi
urlava da un vaso accanto alla porta: dove sei stato tutto questo
tempo? Abitavo
lungo le mura del Vaticano, intorno solo villette e giardini. Aveva
dove scorrazzare senza pericolo. O, almeno, così credevo. Ma non
avevo fatto i conti con quanto Figaro fosse possessivo, e avesse
un’idea molto esclusiva del rapporto tra me e lui. Il sabato e la
domenica erano sacre al sonno e mi svegliavo più tardi degli
altri giorni.
Ma se si faceva troppo tardi, venivo a
un certo punto,
svegliato dal suo naso umido che strusciava il mio naso e, aprendo
gli occhi, vedevo i suoi, sgranati, che mi fissavano. Fui nominato,
qualche
anno dopo,
commissario d’italiano alla maturità in un liceo di Treviso.
Condussi Figaro da mia madre, al Castello di Santa Severa. Una festa
per lui, con tante gatte a disposizione. L’anno dopo il cortile del
Castello era pieno di gatti neri che ruzzolavano tra le pietre.
Quando, finiti gli esami, tornai a riprenderlo, mi scorse di lontano,
fece un urlo e mi corse incontro, ma appena giunto ai miei piedi, mi
fissò, esplose in un miagolio acuto e scappò via. La notte, me lo
sentii salire sul letto e accucciarsi sul cuscino, mandando fusa
furibonde. Venne poi una sera che avevo ospiti in casa, tanti, avevo
organizzato una cena per
ringraziare gli
amici
delle tante che mi erano state offerte. Qualcuno, oggi, non c’è
più. E, proprio perché quella sera resta indimenticata,
indimenticato è anche il dolore di chi c’era ed è scomparso. Tra
costoro, anche Figaro. Rientrò d’un tratto e, quando vide quella
ressa di gente, fece un salto, e corse via, nel giardino. Non l’ho
più rivisto. Mi restano i dorsi scorticati delle partiture sulle
quali si affilava le unghie. Il suo brontolio
d’intesa quando saltava sul letto, il pelo caldo sul mio braccio.
Le fusa interminabili quando si accucciava sul cuscino. E la
lacerazione di quell’assenza improvvisa, inaspettata, del ritorno
mancato, della tenerezza che mi penetra il cuore, ricordando, ma che
resta inespressa. Era un bellissimo gatto che pesava 8 chili. Ma era
un gatto snello,
per
niente
grasso, una pantera. Credo che mi capisse con uno sguardo, come io
capivo lui. Non so che cosa darei, per ritornare indietro e chiudere
la porta della cucina, appena l’avevo visto rientrare. La tenerezza
perduta è una malattia dalla quale non si guarisce. Anche, o
soprattutto,
la tenerezza di un gatto.
Fiano
Romano, 11 maggio 2018
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