venerdì 11 maggio 2018

Petit poème en prose

PETIT POÈME EN PROSE
(souvenir des chats de Baudelaire)

à Fabio et Lidia, souvenir de Salvo

Figaro l’ho trovato una sera sotto una fontana di Villa Sciarra. Uno scricciolo nero che urlava di solitudine e di fame. Più ancora, forse, di abbandono. Lo raccolsi e cominciai ad accarezzargli la nuca. Smise di strillare e cominciò a fare le fusa. “Prendilo con te!” disse l’amica che era con me. Lo portammo a casa. Ma ci fermammo, prima, in una macelleria a comprare un po’ di carne macinata. Era già abbastanza grande per non imporgli la solita ciotolina di latte. Si rivelò, poi, goloso di milza. Gliela scottavo un po’, la mattina. La divorava avidamente, grugnendo di piacere. Gli piacevano anche le alici, ma se non erano più che fresche le rifiutava, grattando con la zampetta destra il pavimento. Il veterinario mi proibì di dargli polmone. Era rachitico. Per un mese gl’infilai così un ago sotto la pelle. Figaro non protestava. Si lasciva fare tutto, da me. Ma guai se ad avvicinarsi fosse stato un altro. Fu sempre diffidente con gli estranei. Quando veniva a trovarmi un amico, mi saltava sulle ginocchia e scrutava l’intruso. Se gli garbava, scendeva dalle mie ginocchia per saltare sulle sue. Altrimenti, restava accucciato sulle mie. E ogni tanto mi guardava, interrogativo: ma quando se ne va? C’era un amico che veniva più spesso, e con lui prese subito confidenza. Quando entrava, gli si strusciava sui pantaloni per farsi carezzare. Quella sera, appena tornato a casa, gli diedi su un piattino la carne macinata. La divorò in un attimo. E, alzando il muso dal piatto pulito e leccato, mi guardò interrogativo: già finita? Non volevo abituarlo a intrufolasi subito tra le coperte. Chiusi, perciò, la porta della camera da letto. Cominciò una lagna peggio che a Villa Sciarra, e dovetti riaprire la porta. Saltò subito sul letto e volle infilarsi sotto le lenzuola. Lo tirai fuori e lo misi ai miei piedi. Ma lui tornò sopra, e si accucciò accanto alla mia faccia sul cuscino. Lo lasciai fare. Avremmo dormito sempre così. A quell’epoca mi alzavo presto, per raggiungere il liceo dove insegnavo italiano e latino. Preparavo la milza, o le sardine, o altro, mi vestivo, e uscivo. Lasciavo aperta la porta del giardino e lui usciva per le sue perlustrazioni. Al ritorno, però, appena rientravo e socchiudevo l’uscio, mi urlava da un vaso accanto alla porta: dove sei stato tutto questo tempo? Abitavo lungo le mura del Vaticano, intorno solo villette e giardini. Aveva dove scorrazzare senza pericolo. O, almeno, così credevo. Ma non avevo fatto i conti con quanto Figaro fosse possessivo, e avesse un’idea molto esclusiva del rapporto tra me e lui. Il sabato e la domenica erano sacre al sonno e mi svegliavo più tardi degli altri giorni. Ma se si faceva troppo tardi, venivo a un certo punto, svegliato dal suo naso umido che strusciava il mio naso e, aprendo gli occhi, vedevo i suoi, sgranati, che mi fissavano. Fui nominato, qualche anno dopo, commissario d’italiano alla maturità in un liceo di Treviso. Condussi Figaro da mia madre, al Castello di Santa Severa. Una festa per lui, con tante gatte a disposizione. L’anno dopo il cortile del Castello era pieno di gatti neri che ruzzolavano tra le pietre. Quando, finiti gli esami, tornai a riprenderlo, mi scorse di lontano, fece un urlo e mi corse incontro, ma appena giunto ai miei piedi, mi fissò, esplose in un miagolio acuto e scappò via. La notte, me lo sentii salire sul letto e accucciarsi sul cuscino, mandando fusa furibonde. Venne poi una sera che avevo ospiti in casa, tanti, avevo organizzato una cena per ringraziare gli amici delle tante che mi erano state offerte. Qualcuno, oggi, non c’è più. E, proprio perché quella sera resta indimenticata, indimenticato è anche il dolore di chi c’era ed è scomparso. Tra costoro, anche Figaro. Rientrò d’un tratto e, quando vide quella ressa di gente, fece un salto, e corse via, nel giardino. Non l’ho più rivisto. Mi restano i dorsi scorticati delle partiture sulle quali si affilava le unghie. Il suo brontolio d’intesa quando saltava sul letto, il pelo caldo sul mio braccio. Le fusa interminabili quando si accucciava sul cuscino. E la lacerazione di quell’assenza improvvisa, inaspettata, del ritorno mancato, della tenerezza che mi penetra il cuore, ricordando, ma che resta inespressa. Era un bellissimo gatto che pesava 8 chili. Ma era un gatto snello, per niente grasso, una pantera. Credo che mi capisse con uno sguardo, come io capivo lui. Non so che cosa darei, per ritornare indietro e chiudere la porta della cucina, appena l’avevo visto rientrare. La tenerezza perduta è una malattia dalla quale non si guarisce. Anche, o soprattutto, la tenerezza di un gatto.

Fiano Romano, 11 maggio 2018

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