giovedì 11 ottobre 2018

Roma, Teatro dell'Opera, Il Flauto Magico

ROMA. TEATRO DELL’OPERA. DIE ZAUBERFLÖTE (IL FLAUTO MAGICO) di Wolfgang Amadé Mozart. Libretto di Emanuel Schikaneder.

Pamina                                              Amanda Forsyte
Tamino                                              Juan Francisco Gatell
La Regina della Notte                          Christina Poulitsi
Sarastro                                            Gianluca Buratto
Monostatos                                        Marcello Nardis
Papageno                                          Alessio Arduini
Papagena                                          Julia Giebel
Prima Dama                                       Louise Kwong*
Seconda Dama                                   Irida Dragoti*
Tyerza Dama                                      Sara Rocchi*
L’Oratore                                           Andrij Ganchuk*
Primo Armigero                                  Domingo Pellicola*
Secondo Armigero                              Timofei Baranov*
Primo Genietto                                   Giulia Peverelli**
Secondo Genietto                               Ercole Cortone**
Terzo Genietto                                   Agnese Funari**

Direttore e concertatore Henrik Nánási
Regia Barrie Kosky e Suzanne Andrade

Maestro del Coro Roberto Gabbiani
Video Paul Barrit
Ideazione “1927” (Suzanne Andrade e Paul Barrit)
e Barrie Kosky
Scene e costumi Esther Bialas
Drammaturgia Ulrich Lenz
Luci Diego Leetz

Orchestra e Coro del Teatro dell’Opera di Roma
con la partecipazione della Scuola di Canto Corale del Teatro dell’Opera di Roma

Allestimento della Komische Oper di Berlino

Prima rappresentazione: 9 ottobre 2018
Repliche: 10, 11,12,13,14, 16, 17 ottobre

* Dal progetto "Fabbrica" Young Artist Program del Teatro dell'Opera di Roma
** Scuola di Canto Corale del Teatro dell'Opera di Roma 



Giustamente Ulrich Lenz, il “drammaturgo” dello spettacolo (figura essenziale del teatro tedesco, inesistente sulle nostre scene), nelle note sul programma di sala, smonta la tradizionale ma sbagliata opinione che il libretto del Flauto Magico sia uno scombinato, pasticciato montaggio di suggestioni diverse e contrastanti, e che risulti pertanto lo scombiccherato copione di un teatrante sprovveduto. Piacque invece subito al pubblico, e non solo per la musica, ma proprio per la vicenda così piena di colpi di scena e per i significati ad essa associati, che non sono solo quelli della massoneria, alla quale sia Mozart sia Schikaneder erano affiliati. Piacque immensamente a Goethe, anche lui massone, che ne scrisse quello che oggi diremmo il sequel. Immaginò che la Regina della Notte rapisca il figlio di Tamino e Pamina, che poi è liberato dalle forze del Bene, tra le quali l’Ouroboros, il serpente che si morde la coda, simbolo del ripetersi ciclico delle cose. La casa editrice di Palermo, Novecento, nel 1983 ne ha pubblicato la traduzione italiana, a cura di Maria Teresa Galluzzo. Goethe aveva colto nel segno, perché di fatti Il flauto magico è innanzi tutto una fiaba, e come tutte le fiabe non ambisce alla coerenza narrativa e soprattutto non imposta psicologicamente i personaggi dell’azione. Tamino è l’eroe che deve superare alcune prove per raggiungere l’amata. Lo affianca un socio “comico”, Papageno, come Sancio Panza affianca Don Chisciotte, I simboli, e qui nel caso anche massonici, fanno parte del racconto, di qualunque racconto fiabesco, ne costituiscono anzi, spesso, il nucleo da cui parte la storia, va comunque cercato in essi il significato più profondo della narrazione. Attraverso i simboli sono suscitate in ciascuno, ascoltatore, lettore, spettatore, le associazioni di idee, di fantasie, di sentimenti che giacciono inconsci nell’animo. Da qui la fortuna che fin dalla prima sera arride fino ad oggi all’opera, tra le più rappresentate e preferite dal pubblico di tutto il mondo. Lo spettacolo che si è visto al Teatro dell’Opera di Roma è affascinante, coinvolgente, e viene dalla Komische Oper di Berlino. Paul Barrit e Suzanne Andrade, i registi, sono anche gli ideatori e animatori di “1927”, un’istituzione e insieme un’idea di teatro che riacquisisce tecniche figurative del cinema muto. Il 1927 è l’anno in cui fu girato il primo film sonoro, Il cantante di Jazz, con Al Jolson. Ma nessuno, allora, credette che l’invenzione del cinema sonoro avesse un futuro. Ciò, perché il cinema muto era arrivato a un grado di sperimentazione di sempre nuove tecniche strabiliante. Soprattutto nell’indagare gli abissi del male, della cattiveria: tre capolavori indimenticabili, Il gabinetto del dottor Caligari di Robert Wiene, nel 1920, e nel 1922 Il dottor Mabuse di Fritz Lang e Nosferatu di Friedrich Wilhelm Murnau. Kosky e Andrade rievocano, con mezzi moderni, senza volerne imitare lo stile, ma se mai l’idea, la concezione di un cinema che indaga i lati oscuri dell’uomo, immaginano la scena come uno schermo sul quale si proiettano le figurazioni di un mondo cupo e fantastico. La Regina della Notte è un teschio, uno scheletro in forma di grande Ragno malefico che attira nella sua rete tutti i personaggi che entrano in contatto con lei. Il soprano Christina Poulitsi, impeccabile e precisa, ma piuttosto gelida, e forse così accresce il terrore che incute, appare incapsulata come una crisalide nel fuoco dell’iperbole costituita dalla sua tela di ragno. Solo le zampe si agitano minacciose sul pavimento.



 Tamino, uno straordinario, intenso Juan Francisco Gatell, così come Pamina, una dolcissima Amanda Forsyte, bravissima nel passare dalla gioia al dolore, nel rappresentare, cantando, i mutevoli stati d’animo del personaggio, e Papageno, Alessio Arduini, disinvolto, un clown perfetto, Papagena, Julia Giebel, che gli tiene banda, Sarastro, Gianluca Buratto, solenne ma anche inquietante, ambiguo, sfuggente, il mostruoso Monostatos di Marcello Nardis, con un candido cranio abnorme, e il nero del suo cuore tutto assorbito dall’ampio mantello, e tutti gli altri personaggi, sbucano da fenditure della parete, poggiati su piedistalli aerei, che si muovono come tornelli, e tra di loro le parole delle parti parlate (Il Flauto Magico ha per modello teatrale, anche se lo oltrepassa e stravolge, il Singspiel, alterna cioè parti cantate e parti parlate) i dialoghi, insomma, sono scagliati visivamente in diverse dimensioni e creano quasi un effetto di fumetto, più che di vera e propria didascalia di cinema muto.






 I personaggi cantano, ma quando devono parlare compaiono i fumetti. Si vedono, inoltre, elefanti che volano, lupi che aggrediscono Tamino quando vuole avvicinarsi a Pamina, un simpatico gatto nero che Papageno accarezza sulla testa, un enorme démone che sputa fuoco, durante le prove di Tamino e Pamina, e si fa sorridente quando i due giovani superano la prova. 




Il flauto magico è un folletto, una femmina nuda, una sorta di Campanellino da Peter Pan che circola e svolazza nell’aria. Il glockenspiel, la scatola di campanelli, di Papageno, un pacco di cartone bianco dal quale sbucano, disegnate, le note della musica. E’ tutto un furore d’immagini che sembrano la visualizzazione della musica che si ascolta dall’orchestra. A tenere insieme tutte le complesse e variegate fila musicali della partitura, Mozart passa dal popolare del Volkslied viennese in bocca a Papageno, al sublime da opera serie della Regina della Notte o di Sarastro, di Tamino, o degli Armigeri – in mezzo la vacanza dei tre genietti, il divertissement delle tre Dame, sorta di aerea prefigurazione delle fanciulle fiore del Parsifal – a costruire la cattedrale musicale che dalla buca e dalla scena arriva al pubblico, con mano esperta, con una lettura lucida e intensa, c’è l’ungherese Henrik Nánási.



 Lo assecondano con duttilità ed efficacia tutti gli interpreti. E perciò alla fine esplode entusiastico l’applauso del pubblico. Solo dal loggione si ode qualche sparuto dissenso, qualche timido “buu”. Subito zittito dal fragore degli applausi. Evidentemente non mancano mai in teatro i disinformati illusi che credono tradizione solo ciò che sono abituati a vedere. Il Theater auf der Wieden, dove Il flauto magico di Mozart fu dato per la prima volta, nel 1791, era un teatro famoso per i suoi fantasiosi e surreali effetti di scena. Sono sicuro che a Volfango questo spettacolo sarebbe piaciuto da morire. Perché è un teatro tutto fondato sulla fantasia e sul gioco. In tedesco recitare si dice spielen, giocare. Se ne facciano una ragione gli italiani che storcono il naso appena arriva in Italia uno spettacolo tedesco. Ma ce ne fossero di più! O imparassimo noi a farne di altrettanto fantasiosi e giocosi (in realtà ce ne sono, per fortuna, e non pochi!).

Dino Villatico

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