domenica 7 ottobre 2018

Roma, Teatro di VillaTorlonia: Il ritorno di Ulisse in patria di Claudio Monteverdi







REATE FESTIVAL

Claudio Monteverdi
Il ritorno di Ulisse in patria
Libretto di Giacomo Badoero

(Prima rappresentazione a Roma e a Rieti)

Enrico Torre Humana Fragilità, Pisandro, Feace
Piero Facci Tempo, Nettuno,
Vittoria Giacobazzi Fortuna, Giunone
Sabrina Cortese Amore, Minerva
Gianluca Bocchino Giove
Mauro Borgioni Ulisse
Lucia Napoli Penelope
Roberto Manuel Zangari Telemaco
Giacomo Nanni Antinoo, Feace
Luca Cervoni Anfinomo, Feace
Antonio Sapio Eurimaco
Michela Guarrera Melanto
Andrés Montilla-Acurero Eumete
Alessio Tosi Iro
Tonia Lucariello Ericlea
Attori Alessio Arzilli
Alessandro Meringolo
Andrea Sorrentino

Direttore Alessandro Quarta
Regia Cesare Scarton
Scene Michele Della Cioppa
Costumi Anna Biagiotti
Luci Andrea Tocchio

Reate Festival Baroque Ensemble

Sopratitoli a cura di Prescott Studio, Firenze

In collaborazione con Fondazione Alberto Sordi per i giovani, Accademia Filarmonica Romana, Teatro dell’Opera di Roma.

Roma, Teatro di Villa Torlonia: 5, 6, 7 ottobre 2018
Rieti, Teatro Flavio Vespasiano: 10 ottobre 2018


Strano, inaudito, ma è la prima volta che a Roma si rappresenta Il ritorno di Ulisse in patria di Claudio Monteverdi. A Venezia c’è voluta l’impresa di Eliot Gardiner per portarle sulla scena della Fenice tutte e tre le opere di Monteverdi che ci sono rimaste, La favola di Orfeo, Il ritorno di Ulisse in patria e L’incoronazione di Poppea. Alla Scala sono state messe in scena una alla volta, una per anno, dirette da Rinaldo Alessandrini, con la regia di Robert Wilson, La favola d’Orfeo nel 2009, Il ritorno di Ulisse in patria nel 2011, e L’incoronazione di Poppea nel 2015. Altrove, in Europa, in molti teatri sono di repertorio. Eppure Claudio Monteverdi è il più grande compositore e drammaturgo di tutta la nostra storia musicale e teatrale. E’, in qualche modo, il nostro Shakespeare: il teatro tragico che, fino all’Alfieri, l’Italia non è mai riuscita a portare sulle scene con un respiro che eguagli il teatro elisabettiano, spagnolo del “siglo de oro” e francese classico. Salvo, appunto, Monteverdi. E Francesco Cavalli, suo allievo e successore a Venezia, sia nella Cappella Ducale che in teatro. Proust scriveva che l’Italia è il paese più inestetico del mondo, perché un paese estetico non è un paese con tante opere d’arte, ma un paese che sa preservarle, custodirle e valorizzarle. E in quest’ultimo affare noi siamo un vero disastro. Opportunamente, dunque, il festival di Rieti, Reate Festival, che però s’inaugura al Teatro di Villa Torlonia di Roma, ha sfidato l’insipienza e la scellerataggine di una tradizione votata allo scempio del nostro patrimonio artistico e culturale, e ha messo in scena proprio la meno fortunata, la meno nota, e famosa, delle tre opere monteverdiane, ma non certo la meno bella, perché sono tre insuperati capolavori. Alla nobile impresa hanno collaborato, oltre al festival reatino, la Fondazione Alberto Sordi, l’Accademia Filarmonica Romana e il Teatro dell’Opera di Roma. Impresa da far tremare le vene e i polsi. Il trionfo e il diffondersi del melodramma romantico, infatti, e poi di quello cosiddetto veristico, ha fatto perdere la consapevolezza di che tipo di teatro e di canto fosse quello del melodramma italiano seicentesco. Teatro, appunto, prima ancora che canto. Non a caso ho sopra citato Shakespeare. 



Nell’intenzione dei compositori romani Giulio Caccini e Jacopo Peri, ai quali per primi venne l’idea e, sostenuti dalla fiorentina camerata de’ Bardi, ne sperimentarono l’impostazione musicale a Firenze nel 1600, doveva essere una restaurazione dell’antico teatro tragico greco. Poeta del gruppo, il fiorentino Ottavio Rinuccini. L’opera messa in scena s’intitolò Euridice. E, fino a Monteverdi, vissero nell’equivoco di avere risuscitato la tragedia greca. Ma un vero e proprio teatro musicale, nel senso moderno del termine, nasce solo sette anni dopo, nel 1607. con la rappresentazione a Mantova della Favola di Orfeo: Alessandro Striggio ne scrive il testo, Monteverdi la musica. E alla Musica, che si presenta come Personaggio nel Prologo, è affidata l’esposizione della nuova concezione teatrale, in cui la musica si fa carico di rappresentare gli affetti – oggi diremmo le passioni, i sentimenti – del dramma. Ma sempre di dramma si tratta. Che si fonda su due presupposti. Il fondamentale, esposto con l’affermazione che la musica debba essere “serva dell’orazione”, vale a dire della parola, significa che la musica può servirsi dell’arte retorica così come se ne servono l’oratoria, la poesia e il teatro. E ciò perché – e qui entra l’altro presupposto – perché musica e poesia si servono della stessa materia: il suono. Il che non vuol dire dunque, come da molte parti si continua a sostenere, che la musica debba seguire fedelmente i concetti e le immagini del testo, ma più profondamente che deve organizzarsi in forme retoriche riconoscibili allo stesso modo della poesia, trarre cioè dalle parole quella musica che esse già contengono. Il pensiero corre subito all’idea del “levare” di Michelangelo, alla scultura, come forma della statua già contenuta nel marmo da cui lo scultore la scolpisce. C’è molto neoplatonismo in questa idea. E del resto L’Orfeo è un dramma profondamente neoplatonico, sia nel testo che nella musica. Il potere che ha la musica di ammansire gli dei inferi è dovuto alla sua capacità di estrarre dalla parola l’idea che la fa significare: la parola è solo la forma esteriore dell’idea che la musica estrae dalla sua forma, come la noce dal suo guscio. C’è in ciò anche un influsso cabalistico: il cuore della noce è il nodo in cui si contatta il divino. Questa concezione del rapporto tra la parola e la musica determina profondamente il tipo di canto, che nasce dunque dalla dizione del testo, la melodia è cioè già insita nelle parole, non sovrapposta ad esse. Il musicista non fa che estrarla, manifestarla, renderla evidente, e in tal modo potrà anche distribuirne le successioni, le combinazioni, l’organizzazione generale del percorso musicale, così come la retorica organizza un discorso, predispone e dispone l’ordine delle parti. Una tale concezione arriva fino a Bach, che anch’egli sostiene di organizzare le parti musicali come le parti di un discorso. E’ una nuova concezione della forma musicale, che solo superficialmente sembra dipendere dal testo, mentre in realtà costruisce architetture che corrispondono analogicamente alle architetture del discorso retorico. In pratica, questo canto deve rendere udibile il suono significante delle parole, partire dalla dizione, e non invece, come sarà pratica successiva, imporre una melodia al testo: il cantante non è cantante, ma attore. Per l’Arianna, opera di cui ci è rimasto solo il Lamento, morta la Romanina, la giovanissima cantate romana che Monteverdi aveva educato al suo tipo di “parlar cantando” (e non “recitar cantando”, come per i fiorentini), il compositore rifiutò l’offerta della cantante Giulia Caccini, figlia di Giulio, e ingaggiò un’attrice, Virginia Andreini. Questo dovrebbe far capire in che direzione si muovesse la drammaturgia musicale di Monteverdi. Ebbene, di tutti gli interpreti di questa rappresentazione romana il solo Mauro Borgioni, nel ruolo di Ulisse, sembra aver capito fino in fondo una tale drammaturgia musicale. La sua dizione ha reso comprensibile il testo sempre, e sempre, cosa più importante, il senso della sua intonazione musicale. Mirabile, la recitazione, intensa, veramente drammatica. Splendida la scena del riconoscimento di Telemaco, suo figlio. 



Gli altri interpreti, tutti bravissimi, va detto, e intonatissimi, non sempre però rendevano fedelmente questa impostazione vocale in cui la dizione precede il canto e non viceversa, vale a dire un canto che s’impone al testo. Non ci fossero stati i sopratitoli (ma perché solo in italiano e non almeno anche in inglese, per il pubblico non italiano?), non sempre sarebbe stato facile seguire lo svilupparsi dell’azione. In ogni caso si è comunque ammirata l’intensità espressiva e drammatica della Penelope di Lucia Napoli, il brio e la scioltezza di Michela Guarrera, Melanto, e di Antonio Sapio, Eurimaco, la nobiltà del Telemaco di Roberto Manuel Zangari, la compostezza dell’Ericlea di Tonia Lucariello, l’efficacia comica dell’Iro di Alessio Tosi, e tutti gli altri, tutti giovani, ammirevoli per l’entusiasmo visibile e udibile nella rappresentazione di un’opera così difficile e complessa. Il direttore e concertatore Alessandro Quarta ha condotto con rigore e intelligenza la lettura non semplice di un’opera che ancora oggi sorprende per la sua inaudita modernità. Avrebbe forse potuto concedere maggiore libertà alla recitazione, più fluidità ai ritmi danzanti, ma sarebbe cercare il pelo nell’uovo, e si capisce che invece il mantenersi in ben delimitati confini espressivi ha evitato sbavature e sbandamenti. Una matura compagnia di professionisti non avrebbe potuto agire meglio. L’interpretazione – con la riserva di una non ancora chiarissima e perfetta dizione – è ammirevole, questi giovani sono sulla strada giusta. Lo spettacolo non avrebbe sfigurato anche in un teatro di maggiore richiamo. Nel Prologo, bellissimo, si è ammirata l’Umana Fragilità di Enrico Torre, a cui si contrappongono il Tempo di Piero Facci, la volubile Fortuna di Vittoria Giacobazzi, l’Amore di Sabrina Cortese). La regia di Cesare Scarton, che si serve di scene funzionali, mobili, di Michele Della Cioppa, a raffigurare interni ed esterni di un palazzo miceneo, e dei sontuosi e bei costumi di Anna Biagiotti, ambienta l’azione in epoca indeterminata, abiti di oggi per gli umani, tra Otto e Novecento per gli dei (bravissimi, tutti! e in particolare il Giove di Gianluca Bocchino e Sabrina Cortese che ora impersona Minerva), supponendo il passaggio da un’epoca arcaica, aristocratica, fondata sul dovere, a una più giovane, democratica? fondata sulla ricerca del piacere (i Proci). Plausibile. Già Sofocle nel Filottete imposta un simile contrasto tra morale aristocratica, individualistica, e morale democratica, collettiva, utilitaristica. Ma il discorso qui si fa complesso. Al pubblico, comunque, il messaggio arriva. E i valorosi e coraggiosi interpreti sono tutti applauditi con fervore. Chi può, chi è ancora in tempo, tra Roma e Rieti per vedere lo spettacolo, si precipiti. Ne trarrà non solo godimento, come da qualsiasi cosa bella, ma ne uscirà con la sensazione di avere vissuto un’esperienza importante.



Fiano Romano, 7 ottobre 2018

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