Scampia è un quartiere di
Napoli troppo noto e discusso - esaltato oltraggiato vituperato
inneggiato (be’, sì, anche!) - e ormai noto credo non solo in
Italia ma nel mondo. Un esempio, forse, di come non si fa
architettura, di come non si fa urbanistica. In Italia non è il
solo, anche se il più parlato. Vogliamo guardare Corviale a Roma? Lo
Zen a Palermo? Ma Scampia ha un segno – non solo urbanistico -
tutto suo, per il solo fatto di trovarsi a Napoli. Scampia è anche
teatro. Tra l’opera buffa, che è sempre stata teatro
contemporaneo, e la sceneggiata, teatro dell’oggi, del provvisorio
permanente. Scritto senza dispregio. Penso, infatti, a una commedia
come Persone naturali e strafottenti di Giuseppe Patroni Griffi. O
all’Opera Buffa del Giovedì Santo di Roberto De Simone. Il sublime
e io sconcio a braccetto. Non voglio avventurarmi fino all’Iguana
di Anna Maria Ortese. Anche perché non è teatro, ma un romanzo –
a Napoli la differenza è però inafferrabile – ma, citando Il mare
non bagna Napoli, sempre dell’Ortese, potrei scrivere: “Fate
come volete, per me è una vera pazzia”. E penso a Beppe Barra che
dal proscenio guarda il pubblico, una fila di lampioncini, sotto i
suoi piedi, sul bordo della scena, figura i lumini di Poggioreale e
Barra, muovendo in cerchio il braccio rivolto verso la platea,
esclama: “Ma questi qua, sono tutti morti?” (Opera buffa del
giovedì santo: poco prima si era sentita Luigia Sanfelice tuonare
contro l’aristocrazia e inneggiare alla vittoria della borghesia
gridando “Libertà! Libertà! Libertà!”, un “pezzente” la
guarda e dice “Ma quale borghesia? Qua, a Napule, nun ce stanno
borghesi! Qua simme tutti o nobbili o pezzenti”.
Il
teatro napoletano è la vita che recita sé stessa. Scampia è una
scena vuota sulla quale la piccola borghesia corrotta del paese ha
voluto inscenare un ascensore sociale, ma di fatto ha solo
rappresentato la propria inadeguatezza a capire il mondo di cui si è
impadronita. La fantasmagoria architettonica di mezze calzette che
scimmiottano – deturpandola - l’utopia socialista di un Le
Corbusier e del Karl-Marx-Hof di Vienna suggerito da Otto Wagner e
realizzato da Karl Ehn. L’utopia diventa, a Napoli, una smorfia.
Edifici che s’innalzano tra il vuoto di spazi inutilizzati e il
niente delle relazioni sociali. Un luogo pericoloso più per chi
prova o è costretto a viverci che per chi s’addentra a visitarlo.
Una scena maestosa dell’incompetenza politica che affligge l’Italia
postfascista. In qualche modo, però, l’altra faccia della
medaglia, il negativo depurato della fotografia fascista, la
mastodontica esibizione del non ce la faccio ma fingo di farcela. A
Napoli si manifesta, si apparecchia alla luce del sole ciò che nel
resto del paese, sopratutto al nord, l’educazione piccolo borghese
tace, nasconde, ammanta di buone maniere. A Napoli anche l’ipocrisia
– soprattutto quella sociale - fa piazzate. La morale non c’entra.
Non è mai stato un problema italiano. E tanto meno napoletano. Ma
solo a Napoli si osa dirlo che non è un problema. E allora, ecco,
questa piazzata si fa arte. In letteratura, nella canzone, a teatro,
al cinema. E prima ancora nella pittura: Luca Giordano ne dipinge il
monumento alle pareti dei palazzi e anche nei monasteri (perdute,
ahinoi! le pitture di Montecassino, e una volta tanto non per la
nostra incuria, ma per le bombe americane).
Ma
già prima, con più ferocia, con più disperazione, Caravaggio, il
milanese Caravaggio, ne aveva colto la tragica interrogazione, e
dipinge le Sette opere di misericordia. Perché l’arte non
rappresenta, ma interroga, o meglio: rappresenta un’interrogazione.
Da sempre. Solo gli artisti neoclassici – e apparentemente, ma non
sul serio – sembrano invocare un modello di bellezza. Quando poi
veramente sembrano realizzarlo – come fa Canova con le Tre Grazie,
o Foscolo con il progettato, ma incompiuto e frammentario poemetto
dedicato anch’esso alle Grazie – la rappresentazione del bello
ideale diventa per contrappasso un rimprovero, una denuncia del
brutto reale. Basta leggersi l’Ifigenia di Goethe per rendersene
conto, soprattutto quando la sorella di Oreste rimprovera al fratello
e ai maschi del genere umano di essere capaci di provocare solo il
pianto di madri orbate, di vedove, di sorelle alle quali è stato
ucciso il fratello. Come per la Elena di Euripide, anche per
l’Ifigenia goethiana gli uomini, i maschi della specie, non
inseguono altro che il fantasma della lotta, della guerra,
dell’assassinio, che chiamano gloria.
Ecco,
allora, che a Scampia, o più precisamente nella stazione di
Piscinola, l’ultima della linea 1 della metropolitana, che da
Piazza Garibaldi giunge appunto a Piscinola, nel sottopasso
progettato da Cherubino Gambardella e che si chiama Scambiapassi (il
Cratilo platonico ci costruirebbe sopra una paraetimologia), Gian
Maria Tosatti immagina e realizza un’installazione inquietante,
anche se dall’apparenza dimessa. Sembra quasi un "monumento"
al provvisorio, all'inessenzialità del quotidiano, alla superfluità
dell'essenziale. Come per raffigurare, cioè, lo spreco e la
consumazione, più che della vita, del vivente, del corpo in cui la
vita si manifesta: tutti noi corpi vaganti da un territorio
espropriato a un rifugio saccheggiato. Una camera d'albergo, sembra
l’installazione illuminata a giorno, la camera di uno di quegli
alberghi di periferia o dei caseggiati scrostati e cadenti che
attorniano le stazioni ferroviarie delle metropoli che furono
industriali, esemplificazione potente, oggi, per chi guarda, della
divaricazione in questo paese tra la realtà effettiva in cui si è
confinati e il nostro modo di chiamarla, con l’intenzione di
sublimarla, in effetti per nasconderla, cancellarla alla nostra
percezione: si offre così al passante, in un angolo, la vista di una
stanza vuota come spazio del pellegrinaggio, dell’andare, la sosta
temporanea di un esilio. Un letto, una sedia, una bottiglia d’acqua
mezzo vuota. Alle pareti, infilzati da chiodi sottili, petali secchi di rosa. Fuori, nel quartiere, di questa esibizione di
un’apparenza irreale Le Vele ne sono l'emblema, come a Roma
Corviale, e con "efficienza" nordica, anche a Milano, nella
Capitale Morale, Milano Tre.
Un
filo continuo sembra collegare la nostra storia unitaria: costituito
dalla profonda spaccatura tra la retorica dell'apparenza e la realtà
della miseria, dell'impotenza, anche politica, di un paese ad
affrontare l’indigenza concreta – sia della sua economia sia
della sua cultura – senza resistere all’impulso di fingersi una
grandezza dove invece c’è un degrado o addirittura un immondezzaio
– le Terre dei Fuochi non sono un miraggio nel deserto, anche se
attuate in un deserto. Cattaneo e Mazzini lo avevano capito: non ci
sarebbe stato nessun Risorgimento, nessuna Rivoluzione nazionale se
la lotta per l’indipendenza non fosse stata anche, e soprattutto,
una rivoluzione sociale. Cavour no, o meglio, Cavour ha scelto di
rifiutare la rivoluzione sociale, negarla, per concentrarsi sulla
costruzione politica di un paese che ancora non c’era. La miopia
cavouriana la stiamo ancora scontando. In qualche modo il fascismo
prima, l’avventurismo craxiano poi e i sovranismi e populisni di
oggi ne sono la conseguenza.
Il
resto viene da sé. E viene da sé che una stanza d’albergo invece
che a un rifugio assomigli a un confino, a un carcere. Perché, ora,
tutto questo sembra proprio racchiudersi nella nudità di quella
stanzetta in cui il passaggio umano s'è fossilizzato non in una
memoria, bensì in una assenza. Mancano perfino le lenzuola, manca il
cuscino sul capezzale o i cuscini, sul letto e sulla sedia. C’è lo
strato di cera, materia organica fossilizzata. La bottiglia d'acqua è
mezzo vuota, lasciata lì, per nessuno. Né si prevede un ospite che
stenda le ossa stanche sul letto o che poggi il suo culo sulla sedia.
La porta scrostata, ci si sta male a guardarla, fa immaginare, fuori
di quella stanza, intonaci frantumati, marciapiedi ingombri di
spazzatura. L'ingresso del palazzone, un antro senza portiere,
s’immagina che possa puzzare d'orina di gatti, di topi, d'uomo. Sul
materasso c’è uno strato di cera, come s’è detto, materia
organica fossilizzata. Il sudore, il piscio che si fanno pelle,
copertura. E c’è lo stesso strato gommoso, floscio, sulla sedia,
umori solidificati di corpi, di culi, di pantaloni o gonne unti,
impregnati della sporcizia di muri accidentati, di prati che sono
pattumiere, su quella cera s’immaginano le impronte di brache
raggrumate di merda non trattenuta.
Si
corre con la fantasia a inferni medievali, a bolge dantesche o
visioni fiamminghe, un campo con le ruote dei condannati, come in un
Calvario di Brueghel, e si coglie qualcosa di ciò che forse
l’artista ha voluto rappresentare. Viene voglia di abbracciarlo,
perché da quella stanza ci sta facendo vedere l’Italia di oggi. La
visione di questa stanza, infatti, fa pensare alla situazione
dell'arte in Italia, l’arte, da Pistoletto a Cattelan, e qui a
Tosatti, come specchio di un degrado che sembra inarrestabile: che in
musica s'inneggi a un Allevi, che si dichiari genio qualunque
strimpellatore, qualunque vociante, che si affacci sul palco di una
discoteca, che si annunzi sul palcoscenico del Teatro Ariston di
Sanremo, fa ricordare gli spazi infrequentabili, ma frequentatissimi,
della Stazione Tiburtina, della Stazione Ostiense, a Roma, gli scarti
urbani delle periferie napoletane, milanesi, torinesi. E la retorica
del grande paese sovrano, il paese inventivo delle "piccole e
medie imprese" (ma perché invece mai una "grande"
impresa internazionale, salvo le mafie?). Questo inguaribile
"nanismo" italiano che s'impalca a gigantismo. Non una sola
catena alberghiera ci è rimasta. Due ne avevamo: Agip e Jolly: sono
diventate spagnole e americane, NH e BestWestern. All’estremo nord,
sul Baltico, il BookInn di Vilnius è un monumento al libro!
L’albergo ha stanze, ampie, comode, accoglienti, e libri
dappertutto, al ricevimento, nei corridoi, nelle stanze, perfino ai
lati delle scale. E noi, culla dell'umanesimo, patria del 60%
dell'arte del mondo (ma come l'hanno misurata?) che però lasciamo
rovinare i nostri monumenti e non abbiamo nemmeno una, che sia una,
collana scientifica di classici antichi (ce l'hanno gli USA, e
formidabile, la LOEB!), e l'unica che tentava di salvare la faccia,
la Lorenzo Valla, da Berlusconi in poi, il governo italiano ha
pensato bene di toglierle gli aiuti finanziari.
Ma
questo è arte? si chiederà qualcuno. E perché no? Intanto tutte le
stazioni della metropolitana di Napoli ci offrono sguardi simili, si
scende, e si attraversano visioni d’arte. L’idea che l’arte sia
solo il bello è relativamente recente. L’arte, invece, da sempre,
è stata un modo d’interrogarsi sul reale, di chiedersi che cosa è,
com’è fatto il mondo in cui mi sento immerso. L’artista non ha
mai risposte, non consola, non offre paradisi artificiali, pone
domande, mostra problemi, presenta conflitti. E le stazioni della
metropolitana di Napoli, forse le più belle d’Europa, senz’altro
d’Italia, quest’interrogazione che l’arte di oggi ci fa
sull’oggi, ce la presenta tutti i giorni, a tutte le ore. Basta
scendere giù, lasciarci trasportare dalle scale mobili, guardarsi
intorno, guardare sopra, passeggiare nei corridoi, raggiungere le
banchine, guardare i binari. E’ arte, è l’arte di oggi.
Scambiapassi
Euripide
dovette scappare da Atene, fuggire un linciaggio, perché nelle
Troiane aveva accusato il pubblico, gli ateniesi, i greci, di essere
loro i “vero barbari” (lo fa dire a Ecuba, a una regina barbara),
perché ordinano stragi, ammazzano bambini: c’era appena stata la
spedizione punitiva degli ateniesi nell’isola di Melo, oggi Milo,
furono uccisi tutti i maschi, anche i bambini, e le donne furono
deportate. Shakespeare racconta la storia dell’Inghilterra come una
successione impunita di crimini. Sono due tra i massimi drammaturghi
di tutti i tempi. Camus scrive che non smettiamo mai di essere
costretti a rivoltarci, che l’esistenza umana è l’esilio di
Sisifo. Aristotele è ancora più amaro: “… chi di noi dunque,
guardando a tutto ciò |al dolore di esistere, al male di vivere|
potrebbe pensare di essere felice e beato? Noi che non appena veniamo
alla luce, per natura, come dicono coloro che pronunciano le forme
misteriche, siamo destinati all’espiazione? Questo infatti
divinamente dicono i più antichi, e cioè che l’anima paga una
pena e che noi viviamo per espiare una grande colpa” (Protreptico,
citato da Giamblico, traduzione di Gabriele Giannantoni). Non c’è
bisogno di pensare a chi sa quali crimini. Basta riflettere alla
necessità di morire. E alla disparità che la fortuna sparge tra gli
uomini.
Possibile
che una stanzetta faccia pensare a tutto ciò? Che l’artista
l’abbia previsto? Ma l’arte non dice mai solo ciò che l’artista
crede di farle dire. Dice anche ciò che gli altri vedono, leggono in
essa. Noi non leggiamo oggi l’Iliade con il cervello di Omero né
vediamo la Gioconda con gli occhi di Leonardo. Eppure tutto ciò che
leggiamo, che vediamo, è contenuto nell’opera che leggiamo e che
vediamo.
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