ISTITUZIONE UNIVERSITARIA DEI
CONCERTI
AULA
MAGNA DELL’UNIVERSITA’ DI ROMA “LA SAPIENZA”
HYPERION
di Bruno Maderna
Carmelo
Bene, voce in absentia
Gianni
Trovalusci, flauto, flauto in sol e ottavino
Christian
Schmitt, oboe, musetta, oboe d’amore
Ensemble
Ars Ludi, percussioni
Ready-Made
Ensemble, coro da camera
Giuliano
Mazzini, maestro del coro
Orchestra
Sinfonica Abruzzese
Marcello
Panni, direttore
Lukács
lo chiama “giacobino mascherato”. Sognò, insieme a Hegel e
Schelling, suoi compagni di studio nello Stift di Tubinga, che la
rivoluzione francese si estendesse anche nei paesi tedeschi.
Schelling nel 1793 tradusse in tedesco la Marsigliese. Ma
la distanza tra il sogno e il vissuto era immensa. “Un segno siamo
noi, che non significa niente” scrive Hölderlin
in
Zeichen, il segno, appunto per Mnemosine. E in Hyperion, gli fa dire,
al suo eroe fallito, al greco di una rivoluzione inattuata: “L’uomo
è un dio quando sogna, un mendicante quando s’llude”.
“Io
non ho nulla da dire ch’è mio” sussurra,
spento, Carmelo Bene.
Non
si crede alle date. Tra il 1792 e il 1797. Questo
il periodo della stesura del romanzo. Due
anni prima, nel 1790, Beethoven scrive una cantata per la morte
dell’Imperatore Giuseppe II. Nel 1805 quella musica diventa la
musica che c’introduce nella cisterna dove sta rinchiuso
Florestano. E rimarrà fino all’ultima versione del Fidelio, del
1812. Un fa minore cupo, tombale. Come i versi giovanili di
Hölderlin:
Come
la mia
felicità, il mio canto. Vuoi nel tramonto
Bagnarti
lieto? Già s’è spento, e la terra è fredda,
E
frulla l’uccello della notte
Sinistro
innanzi ai tuoi occhi.
(La
brevità, traduzione, bellissima, di Giorgio Vigolo)
Nel
1964
Bruno Maderna concepisce una sorta di oratorio drammatico, che
chiama Lirica in forma di spettacolo,
intorno alla figura
di Iperione, un
giovane greco esule in Germania, che scrive le sue lettere all’amico
Bellarmino, come Werther poco
più di venti anni prima,
all’amico Guglielmo. L’opera
va in scena al Teatro La Fenice di Venezia per la Biennale Musica il
6 settembre 1964. La messa in scena è di Virginio Puecher, e nella
stessa serata è in scena anche il Don Giovanni di Malipiero. Maderna
infila insieme composizioni già terminate. Poi rimette mani
al progetto per un’edizione da concerto, finché nel 1980, e dunque
40 anni fa, Marcello Panni e Carmelo Bene rimontano
insieme vari pazzi – Maderna era morto nel 1973 – e nasce la
storica
esecuzione dell’Accademia
Nazionale di Santa Cecilia. Ora, Panni rielabora la composizione
proprio di quel concerto, recupera la voce di Carmelo Bene,
“in absentia”, toglie l’aria finale del soprano,
e
ripropone l’opera all’Aula Magna dell’Università di Roma “La
Sapienza” per la stagione concertistica dell’Istituzione
Universitaria dei Concerti.
Chiariamo
subito alcuni punti. Hyperion è da subito, fin dal 1964, un work in
progress. Verrebbe da dire che lo è già il romanzo di Hölderlin,
mai
compiuto. Perché fa ampio uso dell’alea. Sulla quale molto è
stato detto e più scritto, a proposito e a sproposito.
Cominciamo
con lo spiegare la parola. Ecco la definizione che ne dà il
Dizionario Treccani: “àlea
s. f. [dal lat. alea
«gioco di dadi»]. – 1.
ant. Gioco d’azzardo. 2.
Rischio, sorte incerta: correr
l’a.,
affrontare il rischio, tentare la sorte. Nel linguaggio giur., a.
normale
del contratto,
quel grado di incertezza economica che è implicito in tutti i
contratti, in quanto dall’avverarsi di circostanze estrinseche e
future può dipendere il vantaggio dell’una o dell’altra parte”.
Ricordante
Dante? “Quando
si parte il gioco della zara”? E’ l’attacco del sesto canto del
Purgatorio, quello in cui a un certo punto s’impreca sulla “serva
Italia” ridotta a “bordello” (sono passati sette secoli, ma mi
pare che siamo rimasti là). Il gioco dei dadi è l’intervento del
caso nella successione degli avvenimenti, o, più precisamente, come
dice Mallarmé, l’atto “che abolisce il caso”. Il colpo di
dadi, infatti, introduce nella successione delle scelte una
decisione. Che non dipende dal soggetto ma dal dado. Il contrario,
dunque, di ciò che il senso comune pensa: il tiro di dadi non è
l’intrusione del caso, ma l’introduzione di un atto che decide.
Su questa ambiguità gioca – sì, gioca – la teoria musicale
dell’alea.
Nella
musica, una decisione estranea alle intenzioni e alla volontà
dell’autore c’è sempre stata. L’idea dell’individuo creatore
unico dell’opera nasce nel romanticismo ed è un’idea quanto meno
approssimativa del vero lavoro dell’artista e perfino, se si vuole,
dell’opera compiuta. Chi legga una poesia di Leopardi, per quanto
voglia e possa indagare le reali intenzioni del poeta aggiungerà
sempre le proprie emozioni, la propria visione della poesia, la
prospettiva della propria formazione culturale: Croce non legge
Leopardi come lo leggono De Robertis o Timpanaro
o Luporini. In qualunque esecuzione musicale il dosaggio delle
dinamiche è operato dall’interprete. Quale forte rispetto a quale
piano? Sulla carta non c’è scritto.
Ora,
Cage ebbe l’idea di organizzarla questa intrusione di un intervento
esterno nella costruzione dell’opera. E ne fece uno dei “formanti
dell’opera stessa. Maderna va ancora oltre. Nessuno degli esecutori
suona una sola nota che non sia
scritta sul pentagramma, compresi i cluster, e i punti in cui la
zona, il registro d’emissione sono suggeriti in maniera
indeterminata. In questo modo l’opera non conosce mai una versione
definitiva. Ogni esecuzione è una nuova e diversa versione
dell’opera. Se io
l’ascolto registrata, sarà la versione registrata, ma non l’opera
definitiva. Marcello
Panni, anche lui compositore, questo meccanismo non solo lo conosce,
ma lo ha vissuto sulla propria pelle, nella propria testa e nella
pratica musicale. Ed è per questo che ieri sera, all’Aula Magna
dell’Università, guardando l’affresco di Sironi e ascoltando la
nuova versione che Panni ci ha offerto dell’Hyperion, mi sono
commosso.
Mi
sono sentito riprecipitato a quaranta anni fa, quando, sia pure con
altri interpreti e in altra forma, l’avevo ascoltato
a Santa Cecilia, un
Hyperion di Maderna.
Filo di connessione, tra
quello ieri e l’oggi, la
voce di Carmelo Bene, riascoltata “in absentia” dai microfoni.
Gli interpreti della serata, però, sono stati tutti all’altezza
del compito. L’Orchestra Sinfonica Abruzzese, l’Ensemble Ars
Ludi, con lo strepitoso percussionista Antonio Caggiano e i suoi
amici, Gianni Trovalusci ai diversi flauti, struggenti certi
lunghi assoli; Christian Aschmitt all’oboe, alla musetta, acuti
stridenti, lancinanti, e all’oboe d’amore; il Reay-Made Ensemble,
magnifico coro da camera guidato da Giuliano Mazzini, duttilissimo
nel passare dalla dizione al sussurro, dal
canto al grido; e Marcello Panni, la testa, la mano, l’incantatore
che ricrea questo mondo.
Riflettevo:
si continua a rimproverare alle avanguardie del secondo novecento una
loro supposta rigidezza
dogmatica. Ma dove? Ma quando? Non c’è un compositore che
assomiglia a un altro. Ieri, tornando a casa, alla radio, ho sentito
Mauricio Kagel – sì, lui! l’ultravanguardia darmstadtiana –
dirigere le musiche di scena di Beethoven per l’Egmont di Goethe.
Interpretazione intensissima, che scava negl’interstizi delle
strutture musicali per cavarne fuori l’anima più profonda del
dolore libertario di Beethoven. Che
cos’ha in comune la musica di Kagel con quella di Stockhausen,
Boulez, Nono?
Il
dolore libertario di Beethoven è
lo
stesso di Hölderlin: l’utopia di una libertà che non riesce a
prendere corpo sulla terra. E anche la libertà musicale è immagine
di questa utopia. Si ascolti il Canto del Destino per oboe d’amore
e orchestra (il testo è lo stesso intonato da Brahms, e con lo
stesso struggimento): l’oboe, strumento assai caro a Maderna, che
inventa il genere dell’Aulodia, musica per oboe e strumenti, eco o
riflesso moderno dell’antico aulós greco, che è appunto un oboe e
non un flauto. E la musica si distende nei millenni, a cantare
sempre, di nuovo, il lamento dell’uomo, infelice, separato dalla
beatitudine degli dei. La demenza caló su Hölderlin a salvarlo
dalla disperazione del presente, perché
“gli uomini preferiscono ciò ch’è presente”.
Penso
agli uomini di questo presente.
Hyperion
è il romanzo dell’inadeguatezza. Ed ecco questa musica che sembra
cercare, indagare, penetrare la materia del suono prima che essa
sia organizzata, e allora quando interviene l’organizzazione, essa
è così precisa, così capillare da produrre la sensazione del caos,
un’entropia, una freccia del tempo che coglie come bersaglio sé
stessa, come se si arrotolasse in un fulminare d’istanti che
aboliscono il tempo. Filosofia? Può darsi. Ma è dal tempo di Bach
che la musica ci ha abituati a pensare, ci ha abituati anzi a pensare
che la musica stessa è pensiero. O addirittura prima, dall’Ars
Nova francese del Trecento, quando Machaut scrive, nel suo
bellissimo francese antico, che “musique est une science / qui veut
qu’on rie, chante et dence”, musica è una scienza-arte / che fa
ridere, cantare e danzare. Non c’era ancora la separazione tra arte
e scienza. E del resto già Pitagora immaginava che la musica
terrestre fosse specchio di una musica degli astri.
Ma
qui fermiamoci. Ripercorriamo
dentro di noi il percorso di questo Hölderlin Maderna, o Maderna
iperionizzato. Il fallimento di una rivoluzione diventa esso steso la
rivoluzione. Perché nell’atto con cui la rievoco e la invoco, la
sto provocando, se non altro nella testa di chi ascolta. Era questo
il messaggio delle
avanguardie novecentesche. Hanno fallito il bersaglio? Sono fallite
esse stesse? Sembrerebbe di sì, se si guarda la desolazione del
presente, l’irrigidimento del pensiero in pochi slogan che non
significano niente, l’illibertà di chi non ammette altra forma
d’arte di quella immediatamente comprensibile, immediatamente
fruibile. Che allora si tengano Sanremo, ma non proibiscano a chi
vuole altro, anche l’incomprensibile, di attuarlo. L’avventura
delle avanguardie era l’avventura del molteplice. Quella di oggi
sembra l’avventura dell’univoco. Certo che c’erano
intolleranze, arbitrii, violenze. Perché, oggi no? L’intolleranza
che oggi condanna tutto ciò che anche minimamente possa assomigliare
a una
riproposta
di avanguardia non è poi tanto diversa, anzi mi pare più radicale,
di quella imputata alle avanguardie di non sopportare altre forme
d’arte che le proprie. Berio ha pur composto i Folk songs. Boulez
ha chiamato Frank Zappa a suonare a Parigi. Quanti,
oggi, sono disposti a fare lo stesso con chi non è del coro?
Il
discorso è assai più complesso, lo so. E certi ostracismi di allora
bruciano ancora. Ma perché vendicarsi con ostracismi di segno
opposto? Possibile che non si riesca a interrompere l’insopportabile
ciclo di figli che uccidono i padri, perché i padri, prima, avevano
tentato loro di uccidere questi figli?
Un
poeta, un grande poeta degli anni novanta, allora ai margini della
poesia in voga, perché
anche lui non apparteneva al coro, scrive
un verso memorabile, lancinante, che potrebbe essere il manifesto
della nostra situazione di sopravvissuti alla catastrofe che ha
azzerato tutti i linguaggi: “non
ho vita che per tenerti in vita” (Ferruccio Benzoni).
Un testo ricchissimo: grazie!
RispondiElimina