Alexander Loquich,
Schumann-Burgmüller
Colibri
Ensemble
Odradek
ODRCD355
1
cd
Alexander
Lonquich, nato nel 1960, vinse nel 1976 il concorso pianistico di Terni
“Alessandro Casagrande”. Aveva dunque 16 anni. Interpretò, tra
altre pagine, nel concerto che diede dopo la premiazione, la sonata
di Alban Berg. Era una premonizione. Perché Berg è inspiegabile
senza Schumann, anzi tutta la musica tedesca – e una parte di
quella italiana, per esempio Martucci – sviluppano, evolvono idee
già presenti nella musica di Schumann. Perfino quella che sembrò un
fallimento, la Genoveva – ma che Harnoncourt giudicava, chi
sa se esagerando, l’opera più bella dell’Ottocento – nel suo
rigore liederistico – in parte come Schubert – è una proposta di
rapporto tra parola e intonazione della parola che possiamo
riconoscere in molte altre opere composte dopo, butto qualche titolo
a caso: Samson et Dalila, Esclarmonde, Wozzeck,
e in fondo lo stesso, e unico, Pelléas et Mélisande. Modello
ancora più prosciugato, le Scene dal Faust o il
Pellegrinaggio della rosa.
Ascoltai,
anni fa, una conversazione di Lonquich sui Kreisleriana
all’Università la Sapienza, era stato invitato da Antonio
Rostagno, di cui avevo appena letto il prezioso saggio sulla pagina
schumanniana. La familiarità di Lonquich non solo con la musica di
Schumann, ma con la cultura, l’animo, da cui nasce la musica di
Schumann, mi apparve ancora più profonda di come avessi potuto
intuire dall’ascolto delle sue interpretazioni schumanniane.
L’ostacolo maggiore che un interprete può vedersi innalzare
davanti a sé affrontando la musica di Schumann – e non solo il
pianista, o il violoncellista, il violinista, ma anche il cantante,
il direttore d’orchestra – è la grande mutevolezza della
scrittura che si trova a dover decifrare (alla lettera, la musica di
Schumann ha molto a che vedere con la decodificazione di codici
segreti): si potrebbe pensare a una costruzione basata
sull’improvvisazione, che muta continuamente i canoni formali e i
caratteri espressivi, ma sarebbe un pensiero limitante, perché
l’improvvisazione schumanniana non ha nulla di ciò che possiamo
trovare in un Mozart, in un Beethoven, e ancor più in uno Chopin –
il suo adorato Chopin – e in un Liszt, ma unisce ciò che
apparentemente non sembra combinabile, è cioè una sorta di ossimoro
musicale, un calcolo capillare della nota unito alla spontaneità
dell’improvvisazione, accosta passi di umore contrastante, il cui
contrasto però è previsto nell’organizzazione della forma.
Insomma, banalizzando, istinto quasi selvaggio e razionalità
estrema, al limite del razionalismo, dell’intellettualismo,
convivono nella stessa pagina.
Lo
psicologo, per non dire lo psichiatra – uno di essi, Uwe Henrik
Peters (nome, labirinti semiologici, anche di una casa editrice
musicale), ha scritto due saggi sulla pazzia di Schumann, negandola,
Robert Schumann – 13 Tage bis Endenich, Köln, 2009 e
Gefangen im Irrenhaus – Robert Schumann, Köln 2011, il
primo tradotto anche in italiano da Spirali con il titolo Robert
Schumann e i tredici giorni prima del manicomio, traduzione di
Francesco Saba Sardi - ma anche solo lo studioso del comportamento
umano, potrebbe insinuare un disturbo psicotico. E’ tuttavia molto
rischioso azzardare ipotesi cliniche, in questi casi. Ogni artista –
come sa benissimo l’antico redattore del Problema XXX arrivatoci
con l’attribuzione ad Aristotele – è tale proprio perché
disponibile a immaginare, e perfino a vivere, situazioni diverse,
anche contrastanti, a figurarsi nelle persone più eterogenee, e
intuirne, viverne i pensieri, i drammi, i sentimenti. La letteratura,
da sempre, vive di questo. E allora che cosa hanno di anomalo
Florestano, Eusebio, Maestro Raro, gli eteronimi di Schumann,
rispetto a quelli del contemporaneo Kirkegaard o del novecentesco
Pessoa? Ecco, questi eteronimi dobbiamo immaginarli convivere anche
nella musica di Schumann. Non a caso i suoi scrittori preferiti erano
Hoffmann (e dalle suggestioni di un suo racconto nascono i
Kreisleriana) e Jean-Paul.
Ecco
dunque che la pubblicazione di un’incisione schumanniana di
Lonquich non poteva non attirarmi. Per di più, in quest’incisione,
il Concerto in la minore per pianoforte di Schumann è
accostato alla Seconda Sinfonia, incompiuta, di Norbert
Burgmüller, coetaneo di
Schumann, morto a 26 anni, annegando nella piscina di un bagno
termale, per un improvviso attacco epilettico, sembra. Schumann ne
restò sconvolto, come, qualche anno prima, per la morte di Schubert.
Orchestrò lo scherzo della sinfonia, compiuto, ma lasciò stare
l’abbozzo del finale, appena 58 battute. E’ una strana,
inquietante partitura. Il tema dell’attacco prefigura di Schumann,
come osserva nelle note all’incisione lo stesso Lonquich, l’adagio
del Concerto
per violino e il l’ultima sua
composizione, quel tema che dice ispiratogli da uno spirito, forse
Schubert, e sul quale costruisce inquiete e cupe
variazioni. Brahms riprenderà quel tema, anche lui, per una serie,
non meno inquieta, di variazioni. Ma ciò che maggiormente colpisce,
e affascina, di questa sinfonia è l’atmosfera sfuggente,
l’imprecisione dei profili tematici, una vaghezza insieme sognante
e visionaria. E’ vero che il tema affidato all’oboe,
nell’Andante,
può evocare un tema affine a quello dell’Andante con moto
dell’ultima sinfonia di Schubert, ma Burgmüller
non poteva conoscerla.
Che
cosa può avere attratto Schumann di questa musica, tanto da
spingerlo a strumentarne lo scherzo? Probabilmente
proprio questa quasi sognante indeterminatezza dei profili tematici e
la leggerezza tutta contrappuntistica della strumentazione. Oltre,
naturalmente, al fascino che doveva suscitare anche
la figura del giovane musicista. Poteva in qualche modo ricordargli
Schubert e più ancora l’altro sventurato musicista morto
giovanissimo, Louis Schunke, con il quale Schumann
aveva addirittura a Lipsia condiviso
la stessa camera
per un anno, e dalla cui amicizia era nata
l’idea del Davidsbund. Lonquich in
questo mondo fantastico d’immagini sonore fluttuanti, mobili e
trascoloranti le une nelle altre ci entra con delicatezza, e ce ne
restituisce il fascino. Strano che di un compositore così notevole
non facciano cenno né Dahlhaus né Rosen nei libri dedicati
all’Ottocento e al Romanticismo.
Ma
veniamo al concerto di
Schumann. Nonostante esso sia stato composto in momenti diversi e non
sia stato
concepito
inizialmente come concerto, è in realtà di una omogeneità, di una
compattezza ammirevoli. Si è giustamente osservato che il primo
tempo, nato come brano autonomo, una sorta di fantasia per pianoforte
e orchestra, sia fondamentalmente monotematico. Ma il fatto è che la
fantasia musicale di Schumann è tutta tendenzialmente monotematica,
elaborazione di una cellula originaria, spesso minima - le sfingi del
Carnaval,
solo tre note - e che la grande varietà di piani espressivi nasce da
un’arte consumatissima e raffinatissima della variazione, in ciò
erede della lezione beethoveniana. Ma c’è in più il senso
parlante, comunicativo, che vuole avere questa musica. Un po’,
cultura del tempo, si pensi ai Lieder ohne Worthe, canti senza
parole, di Mendelssohn, ma
molto, anche, afflato significante che Schumann intende conferire
alla musica. La predilezione per i brevi motivi cantabili, per
l’impasto cameristico dei timbri, per il labirinto
contrappuntistico delle voci – perfino delle voci scritte che non
si suonano – nasce qui. E’ il lato più visionario della musica
di Schumann. Difficile non pensare a Mahler e perfino a Šostakovič.
Ma
soprattutto a Berg.
E
torniamo da dove siamo partiti. Si ascoltino le battute 156 – 181
del primo tempo, Allegro affettuoso (già schumanniana l’indicazione
agogica), il dialogo tra pianoforte e clarinetto, variate poi nelle
battute 319
e seguenti,
e più avanti, le battute 267 – 293, il delicatissimo fraseggiare
del pianoforte solo
e poi sulle quintine del pianoforte l’impasto morbido degli archi,
sonata,
quartetto, quintetto? No, concerto per pianoforte e orchestra, ma
l’orchestra è un gruppo da camera. La mirabile cadenza, battute
402-457. da sé un fantasioso, commovente improvviso, riprende le
fila del discorso tematico fin qui proposto (probabile che da qui
Schumann abbia poi tratto l’idea di
conformare al primo tempo gli
altri due tempi del concerto), Lonquich la conduce con senso assoluto
d’intimità, è una melodia che si sussurra a sé stessi in
segreto, senza nessun’altri che l’ascolti se non chi la suona,
abolite le stanghette divisorie delle battute, il fraseggiare scorre
fluido senza interruzione, come un tentare i tasti, saggiarli, per
sentire che cosa ne sortisca, finché il trillo riconduce al tema,
all’orchestra, alla conclusione.
L’Intermezzo
nasce da una figura del tema del primo tempo, che si presenta alla
seconda battuta del tema. Il dialogo con il clarinetto del primo
tempo è qui, poco dopo, rievocato da un dialogo con il violoncello.
Come a rassicurarci che quell’afflato così tenero, così
coinvolgente, dura ancora, non è mai cessato. E non cessa nemmeno
nell’Allegro vivace finale, perché anche il suo tema d’attacco
riprende il tema del primo tempo, ma nella figura che si era
ascoltata nell’Intermezzo. E così alla fine ci si accorge che non
è solo il primo tempo ad essere costruito monotematicamente, ma
l’intero concerto. Il che non genera nessuna monotonia o
uniformità, perché, appunto, consumatissima è l’arte della
variazione, ma imprime a tutta l’opera una coerenza, un’unità
costruttiva che si risolve nella comunicazione di un respiro musicale
ininterrotto, continuo, che s’avventura in alti e bassi, in fughe
verso altezze vertiginose e precipizi nell’intimità più gelosa, e
si ha come risultato forse il più bel concerto per pianoforte e
orchestra di tutto il romanticismo.
Con
in
più questo rischio, questa vena visionaria, che lo lancia nelle
profondità ancora insondate del futuro. E’ questa intimità, unita
a questa consapevolezza di un mondo ossessivamente omogeneo, che
Loquich ci restituisce. Come? Con una lettura lucidissima del
contrappunto sia pianistico sia del pianoforte che si combina con
l’orchestra, attraverso un’estrema varietà del tocco e una non
minore varietà di respiri strumentali in orchestra, e soprattutto
conquistando una libertà di scansione delle frasi che fa parere
naturale, dolce, fluido anche l’artificio, anche il virtuosismo
pianistico e l’espressione degli strumenti dell’orchestra. Tutto,
insomma, sotto il segno della delicatezza e della leggerezza. Il che
non vuol dire che i passi energici, di piglio volitivo, siano
trascurati, ma sono inseriti in questa mirabile scorrevolezza di
tutto l’andamento musicale. Ma
sia i momenti delicati sia quelli più energici sono accomunati dal
segno di un’espressione per così dire parlante della musica: che è
quanto di più schumanniano si possa immaginare.
Il Colibrì
Ensemble è un docile, duttile strumento che asseconda con entusiasmo
la lettura così intima che di questa musica ci offre Alexander
Lonquich.
Grazie. Bellissimo ed estremamente interessante
RispondiEliminaGrazie. Ma è Lonquich che bisogna ringraziare, la sua sensibilità filtrata dalla sua intelligenza. E' una lettura di Schumann che vale un saggio critico.
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