Ferrara è la città di
Ludovico Ariosto, di Torquato Tasso, di Giovanni Battista Guarini. Di
pittori come Cosmè Tura, Francesco del Cossa, Ercole de’ Roberti,
Dosso Dossi e Giovanni Boldini. Nel novecento D’Annunzio la cantò
come città del silenzio. Ma fu anche la città di Bassani, Vancini e
Antonioni. Bassani testimoniò la lunga partecipazione ebraica alla
vita della città. Vancini, nella Lunga notte del ‘43, ne celebrò
lo spirito antifascista. Antonioni trasferisce nella solitudine dei
suoi personaggi la solitudine del paesaggio ferrarese, quella che
D’Annunziao, appunto, raffigura come paesaggio del silenzio. De
Chirico la trasfigura in emblema metafisico. Una interminabile
storia. E interminata. Sciolta nel delta padano la mai avvenuta
fondazione romana è un fantasma anche l’eredità bizantina.
Nonostante la vicina capitale dell’esarcato, Ravenna. Ed è la
città di Roberto Pazzi. Vuol dire qualcosa? Il legame di uno
scrittore, e per di più anche poeta, con il luogo in cui vive (Pazzi
è nato in luoghi danteschi, ad Ameglia), è insieme segreto e
inafferrabile, anche qualora il poeta, come fece per esempio Pascoli
– che però è romagnolo, non troppo lontano da qui, ma lontano,
diverso - lo esplicitasse, lo descrivesse e addirittura lo nominasse.
Il mare natio, di cui pure ha paura, la vastità della pianura sulle
rive calme del fiume, sono probabilmente i luoghi della mente che
spingono la fantasia di Pazzi a scorrazzare per paesaggi immaginari,
anche quando s’abbarbicano a zolle definite, a luoghi della storia.
E’ una delle qualità che più colpiscono il lettore, questa del
viaggio della fantasia verso paesaggi – anche umorali – lontani,
pur partendo dalla geografia precisa di una campagna, di una casa, di
un borgo.
Oggi
è tutta mia
questa
città del silenzio,
alta,
sui banchi di neve alle finestre,
Ferrara
è la mia camera da letto.
Ma
Pazzi è nato ad Ameglia, in Liguria, e della Val di Magra Dante
scrive:
Tragge
Marte vapor di Val di Magra
ch’è
di torbidi nuvoli involuto …
(Inferno,
XXIV, 145-6)
E
le foschie liguri della natia Ameglia s’innestano così nelle
nebbie padane. Tra i bagni estivi:
tutti
volevano baciare,
mai
nessuno scrivere
la
lettera e sott’acqua
ci
si lasciava toccare
con
uno strano sentimento.
Oppure:
Settembre
era un mese di peccati
non
ammessi dal segno della vergine …
Paesaggio,
luoghi, visioni sono solo simboli di qualcos’altro. I nomi contano
quasi più delle cose denominate:
Metteva
nome Stanley a fiumi
che
nessuno conosceva …
E
i nomi sono anche quelli che ci circoscrivono nel tempo e in uno
spazio definiti:
Mi
confonde la storia
molti
morti nel sonno
mi
somigliano ed io ne abito
le
lettere dei nomi
come
il tre sta nel ventisette.
E
allora, con il passare degli anni, il tempo in questo “vecchio
ancora ragazzo”, finisce con assomigliare a una rassegna di
scomparsi, amici, amanti, sconosciuti, che ci lasciano in bocca
l’amaro – o forse il rimorso – di esser loro sopravvissuti. Due
nomi colpiscono: conosciuti da tutti, ma proprio perciò più
dolorosamente vissuti come un proprio scacco, più che per una
propria colpa, per la difformità morale di un paese al quale volenti
o nolenti si appartiene.
Sereni
Ora
la mia mano mi ricorda
la
tua.
…
Se
qualche regno patisce violenza
è
quello dove tu sei passato,
caduta
l’ansia di curare
che
tutti, proprio tutti,
fossimo
passati.
Perché
c’è un punto del mondo
che
tu sapevi non reggere il peso
dell’odio,
un ponte percorribile
solo
da certo peso delle parole
ma
che nessuno della marcia
doveva
temere.
L’evocazione
è certo quella di una bellissima poesia di Vittorio Sereni,
Appuntamento a ora insolita, da Gli strumenti umani:
“Caro
– mi dileggia apertamente – caro,
con
quella faccia di vacanza. E pensi
alla
città socialista?”
Ha
vinto. E già mi sciolgo: “Non
arriverò
a vederla” le rispondo.
(Non
saremo
più
insieme, dovrei dire).
Chi
abbia conosciuto Sereni, o abbia comunque letto con intima
penetrazione i suoi versi, sa che la sua dolcezza mascherava
un’interna sconfitta, un doloroso rimpianto e che la sua poesia
altro non è che il canto di un’illusione perduta, ma non perché
da giovane s’illudesse, e la guerra, la prigionia in Algeria, ne
avessero spento il fuoco, ma perché l’ansia di rinnovamento non
solo di sé stesso, ma di un popolo che usciva demolito da una simile
sconfitta, prometteva esiti diversi.
L’altra
figura è Federico Aldrovandi. E anche questa ci assale come un
rimprovero, come un’accusa per ciò che non abbiamo fatto, che non
siamo riusciti a fare o non abbiamo voluto farlo. Anzi, nel dolore
per l’ingiustizia di quella morte s’innesta anche l’orrore per
una bellezza tradita, ferita, soppressa.
Inutile
è sempre la bellezza,
questo
è il suo incanto
perché
non si consuma mai.
Ma
senza la forza di illuderla
di
occhi nuovi come i tuoi,
pare
solo
un
rimprovero
a
chi resta.
Allora
il luogo, anzi la casa in cui si vive, più che una residenza si fa
spazio di una fuga, fosse pure la fuga per un esilio.
Sto
tra le parole e il nulla,
lavoro
ad abitare la mia mente
ma
la casa è ancora da finire …
Vivo
fuori scena,
il
tempo è tutto mio,
posso
sciuparlo, regalarlo,
scommettere
sulla residua leggerezza,
portarlo
con l’eleganza
di
eroi colti poco prima della fine
a
dir cose lievi e impertinenti,
con
la sprezzatura
di
guerrieri d’una guerra perduta.
Tutto
ciò farebbe pensare a una vita che ha perso il suo centro, il perno
intorno al quale annodarsi – il mondo fuori sesto di Amleto – non
fosse che a dare senso a questo cumulo d’insensatezza ch’è non
solo la propria vita, ma anche quella degli altri, di un popolo,
della storia – e Pazzi non è a caso narratore mirabile di storie
possibili, forse non accadute, o addirittura impossibile che
accadono, anche quando i suoi personaggi sono persone reali, gli
avvenimenti eventi realmente accaduti – non fosse che a dare senso
all’insensato sia la parola, il linguaggio. Aristotele sostiene che
non conosceremmo il mondo se non avessimo il linguaggio, e le
neuroscienze sembrano confermare l’ipotesi aristotelica che la
specie umana sia l’unica specie a parlare. Berwick e Chomsky vi
hanno dedicato un saggio: Perché solo noi? (Bollati Boringhieri,
2016). Cavalli Sforza si sintonizza sulla stessa lunghezza d’onda.
En passant, i versi di Roberto Pazzi hanno rime interne, assonanze,
un ritmo che evoca metri regolari, endecasillabo, settenario,
ottonario, nel flusso dei versi liberi. In quest’ultima strofa, da
Vivere a Ferrara, l’attacco: scEnA / leggerEzzA // sprezzatUrA /
perdUtA, e tutt’e quattro le parole finiscono per A. La poesia non
è le cose che dice, non è il pensiero che enuncia. Ma la cosa, il
pensiero che si fanno visibili perché sono detti, e detti in quel
modo e non in un altro. Non è qualità molto diffusa nella poesia
italiana di oggi, più attenta a comunicare significati che a
prestare attenzione al significante, cioè alle parole, al ritmo,
alla musica delle parole. “Dolce e chiara è la notte e senza
vento” è quasi un bollettino meteorologico. Ma provate a cambiare
l’ordine delle parole e la poesia andrà distrutta perché verrà
meno la sua musica. Fin da quando frequentavo le elementari e mi
obbligavano a fare le versioni in prosa delle poesie mi ribellavo a
un esercizio che mi pareva assurdo, perché già allora mi sembrava
che stiracchiate in prosa le poesie dicessero un’altra cosa o
addirittura non dicessero più niente. Pazzi una sua musica ce l’ha,
e in tanti anni, anche se sempre riconoscibile, è cambiata. Oggi è
meno evidentemente effusiva, ma ha acquistato una scorrevolezza quasi
di conversazione, un tono confidenziale, un po’ come passare dalla
cabaletta giovanile al gioco da camera maturo, con una sua musica
segreta. Questa raccolta è un’antologia dalle altre raccolte,
dalla prima del 1966 all’ultima del 2013, e delle poesie non ancora
pubblicate dal 2013 al 2019. Quasi dunque un diario poetico del
poeta. E queste mie righe non sono che appunti vaganti su una lettera
che andrebbe continuata, ripetuta, riflettuta. Ho sorvolato su un
tema che ritorna, in queste poesie come nella narrativa di Pazzi (si
pensi a un romanzo come Lazzaro). Dio, la religione, la trascendenza,
un oltre che chi sa se c’è, ma che anche se non c’è, lo
sentiamo incombere, porci domande. Non è religioso solo chi crede in
un messaggio rivelato. Perché altrimenti anche le popolazioni
animistiche non avrebbero religione. E’ religioso già chiederci
che senso abbia il nostro esserci e se un senso ce l’abbia. Anzi
spesso, chi si fa domande è più vicino a un atteggiamento religioso
di chi si affida ciecamente all’autorità di una chiesa.
Faticoso
quaderno
dove
una alla volta
s’annotano
le immagini
mentre
all’occhio di Dio
tutto
è già scritto!
Oppure:
Dio,
oggi non ho nessuna voglia
di
sentirti scorrere nel sangue,
e
mi sforzo di non sentire
come
pulsi nelle orecchie,
vecchio
sangue del mio Dio che s’attempa,
e
si fa sempre più stanco e lento
finché
un giorno cadremo insieme.
Se
nell’afflato della disfatta civile si affacciavano le figure di
Sereni e di Aldrovandi, qui si affacciano San Giovanni della Croce e
Santa Tersa d’Avila. Il Dio dei mistici non è un Dio affermativo,
ingombrante, presente, ma il Dio dell’assenza, del silenzio, la
Notte Oscura, il “muoio perché non muoio”. E’ questa
ossessiva assenza che s’infiltra nei versi di Pazzi. Un’assenza
che si vorrebbe toccare, sentirla presente. Che s’interroga, per
non udire risposte. Non è poi tanto diversa dall’assenza dei corpi
che si abbracciano nell’amplesso amoroso. Qualcosa sfugge, si ha
anzi il sospetto che a sfuggire sia tutto, anche il corpo che ci
s’illude di possedere o da cui si vorrebbe essere posseduti. L’Amor
che move il sole e l’altre stelle di sé fa sentire solo il suo
muoversi, il folgorarci per poi immediatamente svanire. Pazzi solleva
con delicatezza il velo per sbirciarne le fattezze, temendo sempre,
come Psiche, che una goccia del proprio fervore gli bruci la pelle e
lo faccia fuggire.
E
questa voglia antica
che
mai si spegne
col
passare degli anni,
come
farò come farò domani?
Chi
di un vecchio ancora ragazzo
perdonerà
l’antica brama?
Roberto
Pazzi, Un giorno senza sera. Antologia personale di poesia 1966-2019,
Milano, La Nave di Teseo, 2020, pagg. 302, € 18,00.
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