venerdì 30 agosto 2024

Un dialogo poetico

 

UN DIALOGO POETICO


A mo' di una tenzone duecentesca


DINO VILLATICO e ALESSANDRO LIBURDI


Dino Villatico


SANT'ALFREDO


Ad Alessandro Liburdi


Mon Dieu, mon Dieu, la vie est là
Simple et tranquille.
Cette paisible rumeur-là
Vient de la ville1.


Paul Verlaine


Che angoscia! ma che angoscia! tra me stesso

mi grido, mi sospiro sopra un letto

con le gambe distese mentre l'aria

nessun fiato la smuove sulla testa.

Che trionfo quest'io che si contempla!

Quanto è facile dentro il mio cervello

ispezionare il mio disagio, farmi

un'indagine di stati di coscienza,

dirmi speciale, perché mi racconto,

con questa storytelling da trattato

divulgativo di sociologia,

la faccia e controfaccia di una scheda

che so scartabellare con perizia

e dirla con dovizia di scrittura.


Ma l'io, quest'io che accampa posizione

di comando, che sa, che vede, tranne

sé stesso? Fortunato il mio Verlaine

che giustamente dalla sua finestra

guardava la città: la vita è là,

tra i comignoli e i tetti di Parigi.

È qui, nel mio giardino, tra gli olivi,

e la siepe di teucrium, tra le foglie

del bosso, tra gli sterpi, nel canneto,

nel mirto che ormai sfida la tettoia

del capanno, e s'innalza fino al cielo,

mentre all'interno s'agita la pompa

del pozzo, e fa rumore. Tra le foglie,

volano vespe e calabroni, un tocco

di colore tra il verde delle siepi,

strisciano in terra biacchi e coronelle,

e sguiscia la lucertola tra sterpi,

saltano più nascosti i rospi, i ratti,

e volano tra i rami degli ulivi

upupe, gazze, corvi e pettirossi.


Io che ci faccio qui, con il mio io,

saturo di disperazione? Troppo

non è lontano il Tevere. Il Soratte

mi guarda con lo sguardo indottrinato

da centinaia di milioni di anni,

indifferente al mio dolore,

silenzioso ai lamenti della gente.

Se il mio pensiero corre, come deve,

oltre i confini di quest'io minuto,

in terre che non sono poi lontane,

terre del nord, altre più calde a Gaza,

vi ascolto spari, missili fuggenti,

grida di uccisi, spasimi di rabbia

e di dolore, e l'eco inascoltata

del pianto assiduo dei sopravvissuti.


Non è per questo altrove sconosciuta

la gioia, strimpellata l'allegria,

si accumula la folla sulle spiagge,

strombazza la gazzarra per le strade

e per le piazze di villaggi e borghi,

per discoteche, cinema, teatri.

Il mondo di qua ride, di là piange,

ed è dovunque vano il riso, il pianto:

da secoli e millenni li si ascolta.


Ma quale angoscia? Il mondo ha più diritto

di te, di dirsi mesto e disperato.

Perché nessuno sembra dare peso

al pianto, interessarsi al riso. Passa

presto il olore, come passa il riso.

Guardalo, e taci. Quest'angoscia lieve

che ti tormenta, non è, sai, nemmeno l'ombra

dell'angoscia in cui oggi muore il mondo,

quella parte di mondo a nord che soffre

gli insulti di una guerra, e l'altra parte,

in oriente, che ne subisce inerte

la distruzione. Il riso e il pianto

sono dovunque un atto d'impotenza.


Festeggia pure Sant'Alfredo, il nome

che ti fu dato il giorno che nascesti.

Il consiglio degli elfi2, da quel punto,

sarebbe stato guardare il mondo,

e non di lamentarti di te stesso.

L'indifferenza della storia segno

fu sempre della nostra indifferenza

al riso al pianto, al vano e breve affanno

che accolse in ogni tempo la miseria

con cui l'insipiens traccia il suo cammino,

senza guardarsi indietro, senza un occhio

che misuri il cammino che gli resta:

il deserto alle spalle, di sconfitti,

e davanti il deserto di chi vince.


Fiano Romano, 14 - 16 agosto 2024, S. Alfredo


Alessandro Liburdi

SCIARADA AGOSTANA

All'amico Dino Villatico, giocando di specchio e di nomi

Per il giorno di Sant'Alessandro, per chi ci crede e chi no


Una scenetta di vita litoranea, due vacanzieri vicini di ombrellone:

- Ehi, oggi è il tuo onomastico: auguri!

- Chi, io? Il mio che?

- Onomastico!

- Oh, no! Mastico appena 

il succo di un giorno 

ed ecco mi scopro

il giorno di un santo

il culto del nome che porto:

nome da papa[1], da eroe di calcio e campione[2],

prima ancora di gran condottiero

dalla Grecia partito e giunto

dopo la Persia, a sconfinare il mondo

al cospetto di un incognito mistero.

E io, con questo mio nome, erede 

di una storia ben più lieve,

poco responsabile, resto qui

alla frontiera del mare, ritratto

sul mio veliero di pensieri,

l'argano spezzato, zero voglia di ripararlo.

Dovevo essere Protettore di uomini[3]:

ho finito per capire che prima di farlo

dovevo proteggere me stesso

dalle malie funeste del capitale,

in questo gorgo insensibile, marsupiale

di gente che è amica del profitto 

e ignora la bellezza, la fiamma antica

su questa casa comune dove

a scavare con due sole dita

trovi terra fertile, acqua buona, amori forti

e non petrolio, denari ignobili, effimeri piaceri.

Eccoti, dunque, una spiegazione del mio nome:

il nome, quest’unica eredità sicura 

che i genitori trasmettono ai figli,

patente di carta stropicciata

che portiamo in giro col nostro stare al mondo, 

prima che in un secondo

arrivi a spezzarsi la catena.

D'altro canto, me lo sussurrò

un grande avvistato di notte

a fari spenti, in un sogno,

il giorno in cui son nato

il giorno in cui nascesti tu

siamo diventati in automatico

infinitesimi immortali:

lasceremo traccia anche noi

di questa vita, a questo mondo,

ci è bastato, ci sta bastando

vivere, amare, credere in qualcosa,

lavorarci per tirarlo su, crescere

al cospetto delle nuvole e sentire

che siamo nomadi in terra amica,

monadi vaganti per l'eterno.

E ora scusa se mi siedo,

se mi godo questo sole sul trampolino,

il fecondo silenzio delle onde:

questo nome scagliato nella spuma

è come mi chiamano gli altri,

un nome che ancora non sa chi è.



Il vacanziere 1, quello che aveva fatto gli auguri, se ne va via, basito, la testa ciondolante e perplessa:

- Volevo solo fargli dei banalissimi auguri, e che cavolo…

Il vacanziere 2 se ne resta a contemplare il mare, raccoglie due ciottoli, li lancia in acqua e si tuffa:

- Mah, forse questi discorsi l’avranno turbato

figuriamoci, come hanno turbato me.


[1] Papa Alessandro III, in onore del quale Alessandria è stata così battezzata. E lì in Piemonte ci ho vissuto una manciata d’anni...

[2] Alessandro Del Piero: campione della mia infanzia e della mia adolescenza, esempio dentro e fuori dal campo.

[3] L’etimologia di Alessandro è proprio quella: Ὰλέξανδρος (Alexandros), composto dai termini αλεξω (alexo, "difendere", "aiutare") e ανηρ (aner, genitivo ανδρος, andros, "uomo"): “protettore di uomini”


Dino Villatico


Una sciarada oracolare


Nihil est in intellectu quod prius non fuerit in sensu, nisi ipse intellectus3.


Principio della filosofia scolastica, da Aristotele, integrata da Leibniz, al quale si deve l'aggiunta "nisi ipse intellectus".


Ad Alessandro Liburdi


Amico mio, com'è lontano il senso

delle cose, se un senso hanno le cose

quando noi le guardiamo che non sia

l'intento di guardarle. Mi dichiari,

con elegante e liquido disegno

di un bozzetto marino, un battibecco

sulla spiaggia di voci che beffarde

si scambiano le sillabe straziate,

equivocate, di sciarade intente

a masticare mastici di nomi

figurati, di un Dino, un Alessandro

che chiedono responsi conclusivi

a boschivi elfi4 di Britannia, a numi

che sorseggiano l'acqua tumultuosa

dell'Indo5, e interrogata la trimurti6

si rintanano a casa con le mani

vuote e le orecchie chiuse e sigillate

dal silenzio del mondo, più loquace

di una folla sbraitante nei mercati.

La tua sciarada, che mi schiude il nulla,

il nostro nulla di esiliati, almeno

di scacciati dal mondo dei vincenti,

non sai quanto, potrei considerarla

oracolo di Dioniso, o di Sciva7,

un Om8 che muove la perenne ruota

dei desideri: delle cose, penso,

non ha ragione di preoccuparsi,

perché le cose stanno là, fissate

fuori di noi, e noi non conosciamo

nemmeno se ci stanno per davvero,

o se ce le fingiamo. Figurarsi

se possiamo sapere di che cosa

sono fatte. E con questa mia sapienza

d'insipente, di un homo sapiens presto

dagli elfi trasformato in transeunte

bestia insipiens, chiedo venia al senno

del tuo parlarmi, al senso che indovini

nei miei versi, mi prostro al tuo cantarmi,

e anch'io ti canto una canzone nuova,

che si veste di versi regolari,

di pochi endecasillabi studiati.

La regolarità del metro, amico,

dirà la mia costanza di compagno

letterario, e non c'è maggior guadagno,

in un mondo che sperpera le cose,

di questo nostro duraturo sforzo

di mantenere, tra di noi, lo stile

di un'amicizia che rispetta il cuore

ma non trascura il più segreto stigma

che al cuore unisce la comune nostra

virtù di benedire la scrittura.


Fiano Romano, 30 agosto 2024

1Mio Dio, mio Dio, la vita è là / semplice e tranquilla. / Questo pacato rumore là / viene dalla città.

2Questa sarebbe il significato del nome Alfredo: consigliato dagli elfi.

3Niente c'è nell'intelletto che prima non fosse nei sensi, tranne lo stesso intelletto.

4Alfredo, il mio nome, di cui Dino è il diminutivo, etimologicamente significa "consigliato dagli elfi".

5Alessandro Magno toccò le rive dell'Indo.

6I tre dei dell'Olimpo indù: Brahma, Visnù e Sciva.

7Sciva e Dioniso sono probabilmente lo stesso dio. Creatori e insieme distruttori della vita.

8La sillaba dal cui suono, pronunciandola, Brahma crea il mondo, o piuttosto le apparenze che chiamiamo mondo.

Una sciarada oracolare

 

Una sciarada oracolare


Nihil est in intellectu quod prius non fuerit in sensu, nisi ipse intellectus1.


Principio della filosofia scolastica, da Aristotele, integrata da Leibniz, al quale si deve l'aggiunta "nisi ipse intellectus".


Ad Alessandro Liburdi


Amico mio, com'è lontano il senso

delle cose, se un senso hanno le cose

quando noi le guardiamo che non sia

l'intento di guardarle. Mi dichiari,

con elegante e liquido disegno

di un bozzetto marino, un battibecco

sulla spiaggia di voci che beffarde

si scambiano le sillabe straziate,

equivocate, di sciarade intente

a masticare mastici di nomi

figurati, di un Dino, un Alessandro

che chiedono responsi conclusivi

a boschivi elfi2 di Britannia, a numi

che sorseggiano l'acqua tumultuosa

dell'Indo3, e interrogata la trimurti4

si rintanano a casa con le mani

vuote e le orecchie chiuse e sigillate

dal silenzio del mondo, più loquace

di una folla sbraitante nei mercati.

La tua sciarada, che mi schiude il nulla,

il nostro nulla di esiliati, almeno

di scacciati dal mondo dei vincenti,

non sai quanto, potrei considerarla

oracolo di Dioniso, o di Sciva5,

un Om6 che muove la perenne ruota

dei desideri: delle cose, penso,

non ha ragione di preoccuparsi,

perché le cose stanno là, fissate

fuori di noi, e noi non conosciamo

nemmeno se ci stanno per davvero,

o se ce le fingiamo. Figurarsi

se possiamo sapere di che cosa

sono fatte. E con questa mia sapienza

d'insipente, di un homo sapiens presto

dagli elfi trasformato in transeunte

bestia insipiens, chiedo venia al senno

del tuo parlarmi, al senso che indovini

nei miei versi, mi prostro al tuo cantarmi,

e anch'io ti canto una canzone nuova,

che si veste di versi regolari,

di pochi endecasillabi studiati.

La regolarità del metro, amico,

dirà la mia costanza di compagno

letterario, e non c'è maggior guadagno,

in un mondo che sperpera le cose,

di questo nostro duraturo sforzo

di mantenere, tra di noi, lo stile

di un'amicizia che rispetta il cuore

ma non trascura il più segreto stigma

che al cuore unisce la comune nostra

virtù di benedire la scrittura.


Fiano Romano, 30 agosto 2024

1Niente c'è nell'intelletto che prima non fosse nei sensi, tranne lo stesso intelletto.

2Alfredo, il mio nome, di cui Dino è il diminutivo, etimologicamente significa "consigliato dagli elfi".

3Alessandro Magno toccò le rive dell'Indo.

4I tre dei dell'Olimpo indù: Brahma, Visnù e Sciva.

5Sciva e Dioniso sono probabilmente lo stesso dio. Creatori e insieme distruttori della vita.

6La sillaba dal cui suono, pronunciandola, Brahma crea il mondo, o piuttosto le apparenze che chiamiamo mondo.



Alessandro Liburdi


Corrono strade per l’erba e lumiere

appaiono qua e là, paludi e piante:

aride cose spente, o vive e fiere.


A che son esse fatte? A che di tante

non una all’altra eguale? E il riso dopo

le lacrime, e il pallore del sembiante?


A che ci giova il tutto, e questo giuoco

eterno, noi pur grandi e sempre a tondo

erranti, e soli sempre e senza scopo?


E tante cose simili nel mondo?…

Eppur chi dice “sera” una parola

dice onde un senso doloroso e fondo,


come da favo un grave miele, cola.


Hugo Von Hofmannsthal, Ballata della vita eterna


Per Dino


Altre sciarade (ed è già settembre)


Amico mio, ai piedi del Soratte millenario,

riguarda un attimo quella dedica in alto:

non l’eterno, irraggiungibile Loris1

insomma... asburgico,

ma quel Per Dino...

ma sai che, a ripeterlo forte,

quel complemento di fine

(che poi è anche un moto per luogo

attraverso il non luogo della virtualità che ci unisce

e di questa distanza geografica che ci separa)

dico, lo sai che se lo ripeto

pare quasi una bestemmia,

o un’interiezione colorita?...

Anche quello, uno smontaggio di parole,

gioco enigmistico da ombrellone

da spiaggia ritirato in secca

ora che finalmente il caldo che assorda

abbacinante delle città afose

delle campagne riarse

lascia spazio alle elegie di settembre.

E tornando al dio che pure appare

da qualche parte in quel tuo nome d’elfo

ci sono dei, quegli dei che nomini

che certo non temono qualche blasfemia:

lì da qualche parte, a Oriente,

lì dove non andrò mai dal vivo,

accontentandomi spietatamente

della forza di certi sogni aperti come gli occhi

spennellando la ringhiera, grattando

la terra del mio orto, leggendo qualche libro nuovo:

sognando quel tempo, mai stato forse, ma passato,

che i poeti vivevano tranquilli,

magari al giogo di qualche signore, ma bastanti

a sé stessi e verso la gloria eterna.

E invece ora, tu lo sai, io lo so,

che ci tocca vivere: lo spettacolo indecente

della pornocrazia, la ferocia delle lingue

prima ancora delle guerre, e

da qualche parte, forse, il sogno di una pace.

Di certo siamo condannati,

come modesti urobori da cortile,

a dire e ridirci la nostra ignoranza circolare

in mezzo a gente che si illude di saper tutto,

quelli sì esecrabili condannati

a un’insipienza leggera e martellante,

vita da becchime, superficiale:

loro e gli accapo di chi non ci capisce niente

e vive, sopra-vive solamente;

a noi altro, ci ha dato in fortuna la sorte:

confidarci per fortuna amici,

urlare la nostra umiltà a parole,

sublimare coi versi il nostro, l'universale, dolore.


1 Le sue prime prove, Hofmannsthal, le presentò con quello pseudonimo, un nome che richiama Laurento, la città dell’alloro: la città dei poeti,


Ceccano, 2 settembre 2024