venerdì 20 gennaio 2017

Rafael Chirbes, Paris-Austerlitz.



Rafael Chirbes, Paris-Austerlitz, Barcelona, Anagrama, 2016, pagg. 156, € 15,90

E’ l’ultimo romanzo di Rafael[1] Chirbes. Finito a pochi mesi dalla morte.  Ma trascinato per anni, dal 1996 al 2015, prima di trovare una stesura definitiva. Credo tuttavia che questa non sia la stesura definitiva, se non per l’editore, che lo ha pubblicato postumo. Chirbes ci avrebbe sicuramente lavorato ancora, lo avrebbe ulteriormente prosciugato, avrebbe eliminato qualche ridondanza, qualche ripetizione.  Ma anche così è un capolavoro. Duro, disperato, senza illusioni sull’infelicità dell’uomo. Un giovane spagnolo dell’alta borghesia di Madrid, genitori ricchi e “illuminati”, ostentatamente di sinistra, lascia la famiglia e si piazza a Parigi, senza il becco di un quattrino., inseguendo il miraggio di una mostra dei suoi quadri. Scoprirà alla fine di essere stato imbrogliato e derubato dal gallerista. La narrazione non segue l’ordine degli eventi, ma va su e giù, sull’onda dei ricordi. E’ il giovane stesso a raccontare gli avvenimenti, in prima persona. Cacciato dall’appartamento che condivideva con alcuni amici, perché da mesi non paga la sua parte dell’affitto, il giovane decide di spendere gli ultimi soldi in un ristorante. Il ristorante è pieno e lo fanno sedere allo stesso tavolo di un anziano operaio, Michel, un uomo robusto, muscoloso, e ancora prestante. Normanno, di famiglia contadina, sulle mani i segni del suo lavoro, le unghie con i bordi neri. I due dividono il dessert, perché l’ultimo rimasto: l’île flottante. E cominciano a parlare. Escono insieme per bere qualcosa in un bar. Michel invita il giovane a casa sua. Nasce così la loro storia. Ma raccontata dalla fine, quando è finita, e quando Michel è morto in ospedale di cancro. I temi si ammucchiano, si sovrappongono, la fragilità del sentimento amoroso, il suo logoramento, il disagio, l’angoscia, quando finisce in uno, ma non nell’altro. E il ricatto oggettivo della malattia, di cui Michel fa un’arma per trattenere il giovane. Il commiato finale è straziante, Michel è stato trasferito dall’ospedale di Vincennes a quello di Rouen, avvolge il collo del giovane con le braccia: non lasciarmi qui solo. Ma il giovane torna a Madrid. E’ una storia come ce ne possono essere tante, anche tra un uomo e una donna. Ma qui sono due uomini, e questo crea problemi nelle loro famiglie. Soprattutto in quella del giovane spagnolo. La madre, bella, ricca, “progressista”, all’idea, però, di un figlio che convive con un altro uomo e per di più di classe sociale inferiore, crolla. La disuguaglianza sociale pesa anche nel rapporto tra il giovane e Michel. Michel glielo rinfaccia, il giovane protesta, ma riconosce che è così. Conduce l’operaio alle mostre, nei musei. Ma si accorge che è un mondo che non gli appartiene. I due mondi, quello intellettuale del giovane e quello contadino e operaio di Michel non s’incontrano. Finita la furia del desiderio, l’amore si spegne. Ma nel giovane, non nel vecchio operaio. Michel guarda il giovane mentre si fa la doccia: come sei bello! Il giovane, finanziato dai suoi, affitta un appartamento, dal quale può vedere quello di Michel. Ma è l’inizio della separazione. Il lettore è condotto via via a scontrarsi con la durezza di questa separazione pagina per pagina, attraverso gli atti quotidiani del giovane e dell’operaio. E’ una storia comune, come tante, ma proprio per questo il dolore dell’inevitabile è raccontato con intensità quasi insopportabile. Perfino l’uso del preservativo diventa per Michel un segno del fatto che il giovane non gli si abbandona: si può scopare solo per chiedere aiuto. Non è necessario amarsi. Ecco la pagina iniziale e quella finale del romanzo.

Bromeaba, le tomaba el pelo, me reía mientras caminábamos por el sendero de grava. Se prestaba al juego. Colaboraba buscando alguna anécdota divertida que hubiéramos compartido. Se le animaban los cortos pasos de viejo. Las tardes en que me acerqué a verlo al Hôpital Saint-Louis parecía que cicatrizaba la herida que habían dejado nuestros desencuentros (maintenant, on s’aime comme des bons amis), y que incluso quedaba en suspenso la enfermedad. Un halo inocuo flotaba entre los rayos del sol de invierno del que habíamos disfrutado sentados en un banco del jardín. Pero cuando llegaba el momento de la despedida, se plantaba inmóvil ante la puerta y fijaba en el vacío aquellos ojos amarillentos que se le encharcaban, los dos sabíamos que la tregua había concluido: ni el mal renunciaba a su trabajo, ni mis visitas le producían consuelo. Lo decía su amiga Jeanine: sufre cuando te ve, le traes los recuerdos, echas sal en la llaga. Me marchaba de allí sin volver la cabeza y buscaba alguno de los bares de République para tomarme un par de calvados.

(Scherzavo, lo prendevo in giro, mi sorrideva mentre camminavamo per il sentiero di ghiaia. Si prestava al gioco. Collaborava cercando qualche aneddoto divertente che avessimo condiviso. Gli si animavano i passi corti di vecchio. I pomeriggi in cui mi spinsi a vederlo all’Hôpital Saint-Louis sembrava che si cicatrizzasse la ferita che avevano lasciato i nostri mancati incontri (maintenant, on s’aime comme des bons amis), e che restasse perfino in sospeso la malattia. Un alone innocuo galleggiava tra i raggi del sole invernale di cui avevamo approfittato seduti su una panca del giardino. Ma quando arrivava il momento del commiato, si piantava immobile davanti alla porta e puntava nel vuoto quegli occhi giallognoli che gli si allagavano, tutti e due sapevamo che la tregua si era conclusa: né il male rinunciava al suo lavoro, né le mie visite gli producevano conforto. Lo diceva la sua amica Jeanine: soffre quando ti vede, gli porti ricordi, butti sale sulla piaga. Me ne andavo via di lì senza voltare il capo e cercavo qualcuno dei bar di République per scolarmi un paio di calvados)[2].

No me dejes, suplicaba. Ma hacía daño, me clavaba las uñas en la espalda. Voy a perder el último tren, insistí. Y, para librarme, me vi obligado a separar con cierta violencia los dedos que había hundido en los hombros y a tirar con fuerza de sus brazos hacia arriba. Tengo que irme, repetí varias veces con una voz suave que pretendía excusar la brusquedad del gesto con que lo había apartado. Insistí: volveré y encontraremos el modo de que te vengas conmigo a España para reposar durante algún tiempo. Lo haremos así. Se agitaron un istante sus brazos y piernas, descarnados como patas de insecto; luego se quedó inmóvil, dejó caer la cabeza sobre la almohada y emepzó a sollozar de manera entrecortada, con un gran pesar; y los sollozos se convirtieron en pocos segundos en un lamento initerrumpido que fue creciendo de volumen, ocupó la habitación y me siguió por los pasillos del hospital mientras me dirigía hacia la perta de salida.
(Non lasciarmi, supplicava. Mi faceva male, mi ficcava le unghie nella spalla. Perderò l’ultimo treno, insistei.  E, per liberarmi, mi vidi costretto a separare con una certa violenza le dita che aveva affondato negli omeri e a tirare sopra con forza dalle sue braccia. Devo andarmene, ripetei più volte con una voce soave che pretendeva scusare l’asprezza del gesto con cui l’avevo scostato. Insistei: tornerò e troveremo il modo di farti venire con me in Spagna per riposare un certo tempo. Faremo così. Si agitarono un istante le sue braccia e le sue gambe, scarnificate come zampe d’insetto; poi rimase immobile, lasciò cadere la testa sul cuscino e cominciò a singhiozzare in modo convulso, con grande fatica; e i singhiozzi si convertirono in pochi secondi in un lamento ininterrotto che andò crescendo di volume, occupò la stanza e mi seguì per i corridoi dell’ospedale mentre mi dirigevo verso la porta d’uscita)[3].

Quella “porta d’uscita” è insieme la fine dell’amore, della vita di Michel, del romanzo. Questa densità metaforica della scrittura è tipica di Chirbes. Ho cercato di rendere nella traduzione la secchezza dell’originale. Resta l’amaro in bocca dell’insignificanza dei nostri gesti quotidiani, e tuttavia anche la consapevolezza che in ciascuno di quei gesti sta racchiuso il senso del nostro destino, del percorso della nostra vita, che trae significato proprio dall’accumularsi di tanti gesti e di tante azioni a prima vista senza significato. O con un di più di significato, che il tempo si preoccupa presto di dissolvere, di sciogliere nell’aria. In margine: talune descrizioni, soprattutto notturne, di Parigi, sono mirabili. Chi conosce la città, leggendo, è assalito da una nostalgica emozione. Chi non la conosce, prova voglia di andarci, se non altro per confermare o smentire l’affermazione del giovane spagnolo che Parigi è la città più bella del mondo. Quanto a me, comfermo. Mi auguro che qualche editore italiano si accorga di quest’ultimo libro di Chirbes. Chi, perché conosce lo spagnolo, legga il romanzo nella lingua in cui è stato scritto.
Fiano Romano, 20 gennaio 2017


[1] L’accento cade sulla e: Rafaél.
[2] Questo inizio è stato già da me citato nel blog Lo stile. L’attacco di due recenti romanzi spagnoli: Henández e Chirbes, del 16 gennaio scorso. E alle pagine 7 e 8 del romanzo.
[3] Pagg. 152-153.

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