martedì 9 maggio 2017

Mendelssohn, tutta l'opera pianistica interpretata da Roberto Prosseda

MENDELSSOHN
COMPLETE PIANO WORKS
ROBERTO PROSSEDA
(per le pagine a 4 mani e due pianoforti, anche Alessandra Ammara)

DECCA 481 5297
10 CD

Und wenn der Mensch in seiner Qual verstummt.
Gab mir ein Gott zu sagen was ich leide
Goethe, Elegie1

Roberto Prosseda ha concluso il suo lungo e meraviglioso viaggio attraverso l’opera pianistica di Felix Mendelssohn-Bartholdy. Per le pagine a 4 mani e per i brani per due pianoforte gli si unisce Alessandra Ammara. Di Mendelssohn il grande pubblico conosce poche opere, le Sinfonie terza e quarta (le cosiddette Scozzese e Italiana), le musiche di scena per il Sogno di una notte di mezza estate (soprattutto l’Ouverture) e qualche altra Ouverture, soprattutto La grotta di Fingal. I due bellissimi oratori sono da noi pressoché sconosciuti, eseguiti rarissimamente. Si crede di conoscere meglio la sua musica pianistica, in genere, però, limitata ai Lieder ohne Worte (canzoni senza parole, malamente tradotti Romanze senza parole). Per chi studia pianoforte quasi un tormento. Per chi studia composizione un ostacolo da togliersi subito dalla via. Molti ignorano che esistono anche due bellissimi Concerti per pianoforte e orchestra, due straordinari Trii. E altro, anche tra le composizioni giovanili. Famosissimo tra i suoi contemporanei, Mendelssohn ha sofferto in seguito proprio di questa fama, che parve usurpata. Eppure tutto il romanticismo risulterebbe incomprensibile senza di lui. L’orchestra romantica si può dire inventata da lui, e da una pagina scritta a 17 anni: l’Ouverture per il Sogno di una notte di mezza estate. Le musiche di scena furono composte molto dopo. Così come si devono a lui i modelli di concerto romantico per pianoforte e per violino. Liszt lo capì meglio di altri. E il modello di quartetto romantico. Incredibilmente e saldamente ancorato agli ultimi quartetti di Beethoven, quando questi apparivano ancora ostici perfino a un Brahms. Mendelssohn ne coglie tutta la novità, e bisognerà aspettare Schoenberg e Bartók per una lettura ugualmente acuta non già dello stile, bensì della costruzione musicale. Ma torniamo alle pagine pianistiche. Consiglio l’ascoltatore di cominciare dalle pagine giovanili (cd 7m 8 e 9). Alcune sono scritte da un bambino di 11 anni. Ma che già coglie i suoi modelli, Bach, Haydn e, solo in parte, Mozart. Ma soprattutto quali siano i suoi contemporanei. Uno, in particolare: Beethoven. Scusate s’è poco. E’ come se nel 1960 un bambino di dieci anni scegliesse a modello la musica di un Boulez o di uno Stockhausen. Già sublime il primo tempo della Sonata in mi minore (1820! Mendelssohn nasce nel 1809). E già colta una caratteristica della propria scrittura: la leggerezza sognante. Ma guai a scambiare questa leggerezza per superficialità, è invece l’increspatura di un’irrequietezza profonda, si direbbe quasi psicotica. C’è già il bisogno di controllo formale, certo, come una richiesta d’aiuto alle forze della Ragione, di mettere ordine nel caos della fantasia. Paradossalmente, proprio questa limpidezza strutturale esalta l’inquietudine alla quale vorebbe mettere il bavaglio. Il soccorso viene dal contrappunto e dalla distribuzione dei rapporti tematici. Musica sapientissima, già questa del bambino. E non ha nulla d’infantile. Proprio questo fa paura e apre un abisso: quello in cui Mendelssohn guarda dentro già dagli anni dell’infanzia. Rubando l’espressione a un famoso, e grande, scrittore ceco, la si direbbe “insostenibile leggerezza dell’essere”. L’orecchio di Mendelssohn percepisce le increspature dell’esistenza, vi s’infila dentro e le racconta, come se fossero la cosa più naturale del mondo: sono invece l’inferno della fugacità, della morte, del nulla, ma scaramanticamente raccontate come gioco, inganno, fuga. Il rapporto quasi incestuoso con la sorella Fanny (come quello di Goethe con la sorella Cornelia) ci dice, sul piano psicologico, quanto intensa, e quanto dolorosa, fosse la percezione dei legami umani. In musica questa percezione si traduce nel gioco aereo di intelaiature musicali sospese sul vuoto, si direbbe sull’abisso della vita. Ma si ascoltino, o si riascoltino, i Lieder ohne Worte. Già nel titolo sono un manifesto romantico: viene proclamata l’identità di musica e poesia, non nel senso di un significato esterno alla musica, ma in quello che già la musica è significato, ed è significato poetico. Indipendentemente dal fatto che se ne condivida o no la poetica, la forza espressiva di questa musica è straordinaria. Come straordinario è l’istinto infallibile di sintesi, di concentrazione, di rigore deduttivo nell’elaborazione tematica. Ma ogni pagina, anche le minori, quelle di occasione, è un miracolo di eleganza. Che non ha, però, niente di decorativo. E’ come dire con parole leggere il terribile. C’è qualcosa della conversazione dei salotti francesi, modello dei salotti berlinesi, e il salotto Mendelssohn era tra i più raffinati. Il nonno Moses, un filosofo tra i fondatori della moderna filosofia della religione: Lessig lo prese a modello per disegnare la figura dell’ebreo Nathan nel suo dramma Nathan il saggio, che è anche un rtratto terribile dell’antisemitismo cristiano, e tedesco. Il padre di Felix, Abraham Mendelssohn, conoscendo l’amicizia che aveva legato Goethe al padre Moses, andò un giorno a Weimar, da Goethe, per presentargli il figlio Felix. Goethe allora, per evitare gli importuni, poneva molti filtri alle visite. Il maggiordomo gli consegnò il biglietto da visita di Abraham. Goethe corse fuori dello studio, incontro all’ospite, lo abbracciò e chiese: “Mendelssohn,.figlio di Moses?” Abraham rispose: “Lei è il primo tedesco che mi chiede se sono figlio di Moses Mendelssohn e non figlio dell’ebreo Moses Mendelssohn”. L’episodio è raccontato da Eckermann. Felix, da parte sua, appena sedicenne, per il compleanno di Goethe, gli regalò l’Andria di Terenzio tradotta da lui stesso in tedesco. Il salotto berlinese, e la frequentazione della casa di Goethe sono l’ambiente in cui si formò il giovane Felix Mendelssohn. I Mendelssohn abitavano nella zona “bene” di Berlino. Achim von Arnim, lo scrittore, che raccolse in un volume i canti popolari del Wundernhorn (Corno magico), alcuni poi messi in musica da Mahler, vide una volta passargli accanto Felix bambino, lo fissò stizzito ed esclamò: “E tu, brutto bambino ebreo, che ci fai qui tra la gente perbene?” In una lettera tarda Mendelssohn confessa che il ricordo di quell’episodio gli bruciava ancora. Erano questi, forse, una parte degli abissi che il musicista guardava e allontanava da sé con agoscia, ma anche con leggerezza. Non sono mai assenti dalla sua musica. Sta proprio qui la difficoltà dell’interpretazione mendelssohniana. Serbare l’equilibrio e l’eleganza della scrittura, ma far sentire l’irrequietezza che circola sotto. Farne sentire il brivido, anzi, e talora l’orrore. Si pensa all’attacco del Concerto per violino. Roberto Prosseda legge tutto ciò con sovrana intelligenza, con acuta sensibilità. Il tocco passa da un’aerea leggerezza a una selvaggia irruenza, soprattutto nelle pagine giovanili. Ma a sostenere la tenuta della pagina c’è poi la penetrazione profonda dell’intreccio contrappuntistico (Mendelssohn ha scritto un diluvio di fughe, anche quando non le chiama fughe). C’è l’abbandono a una cantabilità aristocratica, mai esibita, tutta interiore. Anche quando in un bellissimo valzer giovanile è imitata la danza popolare. C’è la mutevolezza illimitata del fraseggiare, l’accarezzamento dolcissimo della melodia. Insomma, se quest’interpretazione dell’opera pianistica di Mendelssohn è un vero e proprio viaggio, un’avventura dalla quale forse lo stesso pianista esce arricchito, consapevole di cose che forse prima ignorava, anche per l’ascoltatore il viaggio è pieno di sorprese, l’avventura una scoperta di sé stessi, del lato oscuro di sé stessi, che qui Mendelssohn gli squaderna davanti con prodigiosa arte d’incantatore, quasi un moderno Orfeo che fa cantare alberi e pietre, o un Hermes che disvela i misteri nascosti delle cose.

Fiano Romano, 9 maggio 2017

1E se l‘uomo nel suo strazio ammutolisce, / mi diede un dio di dire ciò che io soffro. Goethe. Elegia (di Marienbad). I versi posti come epigrafe all’elegia sono tratti dal Torquato Tasso. Goethe ha solo personalizzato un “ihr” a lui, in “mir” a me.

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