Giovanni Vacca, Gli
spazi della canzone. Luoghi e forme della canzone napoletana. Lucca, LIM
editrice, LIBRERIA MUSICALE ITALIANA, 2013. Con il sostegno della Fondazione
Roberto Murolo. Quaderni del Centro Studi Canzone Napoletana 3 – 2013. Con il
contributo del Dipartimento di Discipline Storiche £Ettore Lepore” e
dell’Università degli Studi di Napoli “Federico II”
No, nun ‘e state a sentere ‘e
ccanzone!
Chistu mare è celeste, ‘o cielo è
d’oro
ma stu paese nun è sempe allero.
Nun spunta sempe ‘a luna a mare chiaro
e nun se canta e se fa sempe ammore:
cheste so’ fantasie p’ ‘e furastiere.
Si vuie vulite bene a sto paese
fermateve nu poco dint’ ‘è viche
guardate dint’ ‘è vasce e fore ‘e
chiese!
Venite, assieme a me, p’ ‘e strate
antiche:
invece ‘e camminà vicino ‘o mare,
parlate cu chi soffre e chi fatica.
Quanta malincunia p’’e ccase scure
addo’ nun trase st’aria ‘e primmavera!
Guardate quanta sante attuorno ‘e
mmure!
Sta gente puvarella crede a Dio,
patisce rassignata e pare allera:
e chi è cecato canta: “O sole mio!”
N’hanno chiagnute lacreme ll’artsite:
e quante ne so’ muorte ’nt’o spitale!
Stu paese d’ ’o sole, comm’è triste!
Io veco comm’ a n’ombra a ogne puntone
e penzo ‘a gente ca lle manca ‘o ppane
...
Quanta buscie ca diceno ‘e canzone![1]
Non si potrebbe dire meglio. Sono versi di Paquale Ruocco, scritti nel
1952. E’ cambiata, oggi, la condizione tragica della città di Napoli? No,
forse, nonostante il rifiorire di un’attività intellettuale irrefrenabile, nel
teatro, nella musica, nelle arti, nelle scienze, o, forse proprio per questo,
direi che è peggiorata. Perché più consapevole della propria tragedia. Napoli,
nel bene e nel male, insieme a Milano, è il laboratorio dell’Italia. Anticipa
di decenni il rigoglio delle attività economiche e intellettuali, ma prepara anche
le catastrofi, fa manifesto il loro inabissamento. E’ una realtà che non può
essere aggirata o nascosta, ma va guardata in faccia: operazione sgradita,
certo, ai più degli italiani, e agli stessi napoletani, che amano le illusioni,
le fantasmagorie, preferiscono piuttosto riempirsi la bocca di scomparse glorie
del passato, e chi sa se anche nel passato, poi, erano tanto gloriose e
soprattutto gioiose come si racconta. Eppure quel passato c’è, e c’è la sua
storia. Uno dei primi documenti della lingua che si parla a Napoli (una lingua,
non un dialetto, e una ricchissima letteratura) è stato scritto da uno dei
massimi scrittori italiani, che napoletano non era: Giovanni Boccaccio, che in
una lettera a Franceschino dei Bardi, del 1339, sperimenta la trascrizione
della lingua che ode parlare nelle strade, nei vicoli della città da lui
amatissima, e così bene raffigurata, per esempio, nella novella di Andreuccio
da Perugia. L’orecchio del Boccaccio è finissimo, coglie già alcune soluzioni
di dittonghi tipici della parlata napoletana: uo, ie (juorno, tiempo) e la
contrazione in i del toscano ue (quello>chillo)[2].
Napoli, dunque, e l’Italia, vanno viste, e studiate, al di là dei miti, dei
narcisistici compiacimenti culturali: il Gran Tour, l’eredità classica, il
Rinascimento, il Barocco, il melodramma, la canzone napoletana, e così via. E
proprio sulla canzone napoletana si concentra la ricerca, lo studio, la
riflessione di Giovanni Vacca in questo bellissimo, indispensabile saggio. Non
si tratta di ribadire la riuscita estetica di un genere che ha avuto e ha
diffusione mondiale. Si tratta di capire com’è nato, alle sollecitazioni di
quale situazione sociale, economica , culturale, ideologica risponde. Non per
stabilire un rapporto causale tra la situazione e la riuscita estetica, ma per
capirne il carattere, comprenderne la forma – sì, la forma, perché quella e non
altra, e quanto essa nasca proprio dalle condizioni sociali di chi la inventa,
la esegue, la diffonde. Tanto per fare un confronto “alto”: dire che la musica
di Chopin nasce nel e per il salotto borghese del primo Ottocento, e in
particolare nel e per il salotto francese, anzi parigino, non significa
limitare la sua riuscita estetica a un fenomeno particolare, ma comprenderne la
natura, analizzarne il carattere, significa anche, per esempio, che la grande
sala moderna da concerto ne snatura proprio quel suo carattere intimo,
discorsivo, aforistico, tipico di una musica pensata per pochi privilegiati
ascoltatori. Al lato opposto oggi l’uso del microfono, da parte dei moderni
cantautori e cantanti, corrisponde a un consumo che non è più di pochi intimi, ma
di una grande massa di ascoltatori. Naturale che ciò finisca per incidere anche
sul carattere della canzone. Si potrebbe, anzi, per paradosso, perfino
sostenere che l’uso del microfono è un mezzo per mantenere alla canzone il suo
carattere d’intimità, di segretezza, di rapporto confidenziale. L’assenza di un
microfono obbligherebbe, infatti, il cantante a strillare per farsi sentire. Ma
resta fermo un punto: la caratterizzazione storica, sociale, della canzone, ne
definisce il carattere, non ne determina né ne certifica la validità estetica.
Tuttavia un’analisi che prescinda di uno degli aspetti, sarebbe condannata,
sempre, come del resto è avvenuto più volte, a una comprensione parziale del
fenomeno. E tanto per cominciare, una
cosa sarà la canzone cantata nelle strade, un’altra quella destinata ai teatri
e ai salotti. Diverse le forme, ma anche le interpretazioni. Giovanni Vacca
tenta, in questo saggio, di superare proprio la dicotomia, il limite di un
esame o totalmente estetico o esclusivamente storico e sociologico. Un luogo
comune diffuso è che la canzone napoletana sia squisitamente “popolare”, “opera di tutto un popolo”, come
afferma Antonio Grano[3]
. Al che Vacca ribatte: “Si rovesciano i termini del problema: quella che, storicamente, fu un’operazione
partita dall’alto e che riuscì a egemonizzare una forma artistica e ad
espanderla con successo ad un’intera comunità inibendo modi alternativi di espressione,
viene presentata come un processo storico che parte dal basso, sale la scala
sociale e viene raccolto e sviluppato da artisti particolarmente sensibili e
creativi”. L’equivoco di una simile analisi nasce da due atteggiamenti costanti
non solo tra gli ammiratori della canzone napoletana, ma anche tra gli studiosi.
Il primo, “di matrice idealistica”, vede nella canzone il realizzarsi di uno
“spirito” napoletano. E non invece l’esito di un complesso intreccio di
“rapporti sociali”. Il secondo radica invece la canzone napoletana nella
persistente idea di una specifica “napoletanità” , quasi un’identità
“biologica” dei napoletani. Il saggio
racconta così la storia della canzone napoletana fino ad oggi cercando di
evitare accuratamente questi atteggiamenti. E’ una lettura istruttiva. Che ci
confronta con i fatti – le canzoni – e non con l’ideologia che la vuole
specchio fedele, quasi istintivo, “naturale”, di una supposta, permanente e inconfondibile
matrice popolare. Ricordo che anche Roberto De Simone protestava contro questa
lettura storica. Non presentò mai la propria ricerca e ricreazione della
canzone napoletana – splendidamente realizzata dalla sua Nuova Compagnia di
Canto Popolare – come la forma “autentica” della canzone popolare napoletana,
bensì solo come una individuale, fantasiosa reinvenzione moderna, una
ricostruzione di ciò che oggi s’immagina che fosse la canzone napoletana
“popolare”, non un recupero filologico, bensì una sorta di antidoto alla canzone di salotto
ottocentesca e alla canzone festivaliera moderna, compreso il profluvio
invadente dei “neomelodici” . Ma tanto meno, anche, la canzone adorata dai
tenori, napoletani e no. Qualsiasi parafrasi, però, delle ricche e
documentatissime analisi di Vacca ne distruggerebbe l’efficacia. Lascio perciò
al lettore la scoperta, o riscoperta, di un
tesoro musicale restituito alla sua verità storica. Il che non ne
diminuisce affatto il valore, ma ne fa anzi se mai apprezzare con maggiore
aderenza la bellezza, quando c’è, non è affatto rara, anzi sempre rinnovantesi
da secolo a secolo. Basta non costruirci sopra l’ideologia dell’autentica
canzone popolare. Interessantissima la ricca bibliografia, illuminante quasi
quanto le pagine argomentative e descrittive del saggio. Sarebbe interessante smontare con uguale
pertinacia l’idea diffusa di un supposto carattere “popolare” del melodramma
italiano, che nasce invece aristocratico e si sviluppa borghese. La
mistificazione, la falsa coscienza di una certa cultura italiana narcisistica e
compiaciuta sono le stesse, uguali le illusioni di scoprire un’identità
nazionale inesistente, uno spirito italiano immaginario. Che cos’avrebbero in comune
un Rossini e un Verdi, un Donizetti e un Puccini? Lo stesso che gli autori di O sole mio, Giovanni Capurro ed Eduardo Di
Capua nel 1898, da una parte, e di Scalinatella, Enzo Bonagura e Giuseppe Cioffi
nel 1948, dall’altra.
Fiano Romano, 21 febbraio 2017
[1] Pasquale
Ruocco, Nun è overo, da Poeti
Napoletani dal Seicento a Oggi di Ettore De Mura, Napoli, Alberto Marotta
Editore, 1966, pp. 496-7.. Citato da Vacca a pag. 112.
[2] Traggo
le indicazioni da Nicola De Blasi, Storia
linguistica di Napoli, Roma, Carocci, 2012, p.27.
[3] In Trattato di sociologia della canzone
classica napoletana, Campobasso, Palladino, pad. 13. Citato da Vacca,
insieme al commento, a pag. 16.
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