sabato 10 settembre 2016

Beethoven, strategie compositive



DINO VILLATICO

APPUNTI PER UN’ANALISI DELLE STRATEGIE COMPOSITIVE DI BEETHOVEN








Beethoven è nel contempo intransigente e transigente. Deve essere così, ma si dà pane e acqua al prigioniero. Non si può più comporre come Beethoven, ma si deve pensare nel modo in cui egli componeva”.

Adorno, Beethoven[1]

“La musica parla il linguaggio dell’arcaismo, dei bambini, dei selvaggi e di Dio ma non quello dell’individuo. Tutte le categorie dell’ultimo Beethoven sono sfide all’idealismo - quasi allo ‘spirito’. Non esiste più autonomia”.

Adorno, Beethoven[2]


La percezione della musica di Beethoven, ancora prima che si possa parlare della sua comprensione, è oggi deformata, distorta, deviata da una serie incalcolabile di miti, di leggende, di pre-giudizi teorici, soprattutto riguardo alle forme, e di pigrizie interpretative. Per Beethoven, come del resto per tutti i grandi compositori (ma anche per gli scrittori, i pittori, ecc., in genere per tutti gli artisti e - perché no? - per i filosofi, gli storici, ecc.) è necessaria, anzi indispensabile, un’operazione di pulitura, di rifondazione metodologica dell’impatto d’ascolto, prima ancora che dell’indagine conoscitiva.
Cominciamo subito col mettere in campo e in discussione il significato di un termine che proprio per la sua musica si dà invece per scontato: il tema. Si dà, cioè, per scontato che un tema sia il profilo melodico che percepisce l’ascoltatore. Ora, se questo può essere in parte (ma solo in parte) valido per i musicisti romantici, a esclusione di Schubert, che comunque avvia la trasformazione del nucleo tematico tardosettecentesco (classico) in tema melodico, non regge all’analisi di qualsiasi composizione non solo di Beethoven, ma anche di Haydn e di Mozart. In Haydn, come poi in Beethoven, e in maniera più articolata in Mozart, il tema non è una melodia, ma un complesso intreccio di forze in azione: campo armonico, impulso ritmico, cellule tematiche e motivi, sia principali che secondari, spesso del resto presentati simultaneamente, giocano un gioco assolutamente complementare di suggerimenti, di interazioni, di stimolo, di sorpresa in cui si configurano il piano di partenza dell’opera e il destino del suo percorso. Il profilo melodico, tanto dell’idea principale che del suo accompagnamento, è sottoposto a tutti i procedimenti dell’elaborazione contrappuntistica. Il ritmo s’impone subito come principio caratterizzante del tema, al punto che talora, soprattutto in Haydn e in Beethoven, ma non è raro nemmeno in Mozart, un motivo diverso, magari nuovo, che se ne appropri, viene percepito non già come un tema diverso, bensì come una variante del tema, e questo perché nel ritmo è determinata l’individuazione tematica del motivo. Anche il ritmo, tuttavia, può risultare non già da un’unica cellula che s’imponga uguale a tutte le voci, ma dalla combinazione di due o più cellule ritmiche differenti, come, per esempio, nell’attacco della Sinfonia in sol minore K. 550 di Mozart (per questo è un crimine ridurre il bellissimo tema, la cui tensione nasce proprio dai ritmi contrastanti della melodia e del suo accompagnamento, al solo profilo della melodia superiore, come si ode fare perfino nelle suonerie di certi telefoni cellulari e come decenni fa faceva il mai troppo deprecato Valdo de los Rios). Quanto alla tonalità che si fa udire per prima nell’attacco del pezzo, essa imposta il campo tonale di riferimento rispetto al quale le altre tonalità si presentano più che come contrapposte, come dissonanti. E’ infatti la dissonanza, e la sua risoluzione, che governa l’andamento di un pezzo del tardo settecento e del primo ottocento (Rossini compreso: e ciò spiega la sua affinità con Haydn e Mozart). Ciò implica che le figure dell’accompagnamento, o piuttosto del cosiddetto accompagnamento, non sono affatto figure secondarie, ma formano parte integrante del tema, al punto che talora, perfino nel Mozart giovanile, prima che il tema vero e proprio si affermi, soprattutto negli adagi, ma non solo, riesce difficile capire se la configurazione melodica ascoltata sia l’inizio di un tema o l’accompagnamento (meglio sarebbe dire il controsoggetto) del tema. Esemplare al riguardo (ma è il Mozart maturo ad offrircene il modello) l’attacco dell’ouverture delle Nozze di Figaro. La musica sembra colta a metà del suo percorso, come se l’ascoltatore fosse entrato in ritardo a teatro, e l’ouverture fosse già cominciata da un pezzo. Ebbene, quella figura ritmica d’attacco è sì una figura complementare della melodia del tema, ma è parte integrante del tema stesso, nel senso che il tema non è la melodia che si ode nel registro acuto, ma quella melodia insieme alla figura ritmica complementare. Questo procedimento viene da Beethoven radicalizzato, proseguendo e sviluppando una sollecitazione già presente in maniera addirittura prepotente in Haydn. Questo, tra l’altro, fa piazza pulita della corbelleria che ancora si sente dire e, ahimè! si vede scrivere, sull’opera giovanile di Beethoven, che imiterebbe Haydn e Mozart. Si dà il caso che per Beethoven Haydn e Mozart non fossero affatto compositori precedenti, ma assolutamente contemporanei (quando Mozart muore, Beethoven ha 21 anni e quando muore Haydn ne ha 39!). Non solo: ma i più moderni tra i contemporanei. E il provinciale renano coglie immediatamente questa modernità. Accusarlo dunque d’imitare Haydn sarebbe come rimproverare a un giovane compositore degli anni 70 del secolo scorso di tenere presenti i modelli formali di Boulez e di Stockhausen. Tra l’altro, Beethoven già fin dalle sue prime opere dimostra una spericolata e sperimentale autonomia, per esempio nella ricerca, che sarà la tortura della sua vita, di un’alternativa tonale all’obbligo della dominante per la parte dell’esposizione contrapposta (dissonante) alla tonica di partenza. Alternativa che già individua nella mediante e nella sottomediante (non gli sarà stato estraneo, può darsi, l’influsso della Fantasia in do minore di Mozart, nella quale il tema contrapposto appare in re maggiore). Vari i motivi di questa ricerca. In Mozart è determinata dal cromatismo accentuato del tema d’attacco, il che farebbe apparire banale l’apparizione della tonalità della dominante, ma per Beethoven, che ha un orecchio essenzialmente diatonico, come Haydn, il che non vuol dire povero armonicamente, anzi! l’impulso è avviato dal fatto che la contrapposizione tonica-dominante è già attuata dalla prima apparizione del tema, ne costituisce anzi il nucleo armonico tematico, si confronti l’attacco del Terzo Concerto per pianoforte, con l’attacco simile del Concerto mozartiano nella stessa tonalità, che costituisce indubbiamente il modello del concerto beethoveniano, ma mentre Mozart devia il percorso sul sesto grado, toccando il quinto solo come grado di passaggio, Beethoven insiste sul ribattere V-I, V-I, quasi in forma di cadenza, e non gli basta, il pianoforte, quando entra, espone aggressivo per tre ottave l’intera scala di do minore. Dopo di che si possono spalancare le porte a tutte le avventure armoniche, che non mancano, compreso il prediletto ricorso alla sesta napoletana. Sulla tonalità, inoltre, c’è da dire che non sempre il pezzo attacca con la tonica: talora il compositore devia astutamente il percorso della triade, come fa appunto Mozart, nel citato concerto in do minore o attacca con un altro grado, per esempio la mediante, come fa Beethoven nell’adagio dell’op. 106, trattandosi in entrambi i casi di un’enunciazione omofona, l’accordo spezzato mozartiano sembrerebbe il primo rivolto di la bemolle maggiore, e solo l’intonazione della dominante sol con la sua sensibile fa diesis ci fa sentire do minore, quello beethoveniano, una successione la do diesis, farebbe pensare a un la maggiore, ma subito il fa diesis propone la vera tonica. Non è escluso che qui Beethoven tragga profitto dalla lezione mozartiana. Del resto l’ultimo Beethoven sembra spesso riflettere su certi procedimenti di Mozart, sulla leggerezza di suggerire, deviare, introdurre a poco a poco: vedi l’attacco della Sonata in sol maggiore  op. 96 per violino e pianoforte. A distinguerlo però da Mozart sta quasi sempre l’affermazione di un impulso ritmico singolare, insolito, anche se semplicissimo: un anapesto nell’op. 96 e un giambo nella Nona.
Ciò che caratterizza da subito, infatti, l’opera di Beethoven è l’individuazione ritmica del tema, o piuttosto la scansione ritmica di un campo armonico, che funge da cellula generatrice del tema e da funzione propulsiva della forma. Se l’esempio della Quinta Sinfonia o quello dell’Allegretto della Settima possono apparire abusati (ma e la Seconda e la bellissima Quarta?), impressionante è la singolarità della Nona, sia per l’estrema povertà dei mezzi impiegati (una quinta vuota e un giambo) che per la quasi insostenibile tensione che con questi ascetici mezzi la musica raggiunge. Ma partiamo da un’opera giovanile, proprio per mettere in risalto il fatto che il procedimento non riguarda solo il Beethoven maturo e tardo, bensì l’intera opera. Il Primo Concerto op.l5 per pianoforte, sotto molti punti di vista, è già un’opera esemplare. Il ritmo dattilico di attacco è il modello dell’intera costruzione tematica del concerto, con una essenzialità, una scarna coerenza, che ritroviamo per esempio nel maturissimo, e perfetto, Concerto op. 61 per violino, in questo caso un ritmo di cinque semiminime percosse dai timpani soli all’inizio (interessante la somiglianza o piuttosto l’identità con la cellula tematica del Quartetto in fa maggiore op. 59 n.1, segno che Beethoven, come Haydn e Mozart, del resto, lavora su poche cellule ritmiche, armoniche e melodiche di base, sbalorditive in tal senso le affinità tematiche degli ultimi quartetti) o nell’ouverture del Coriolano op. 62, un trocheo, con la prima durata aumentata, e la sua inversione giambica (al riguardo c’è da osservare che Beethoven tratta contrappuntisticamente anche i ritmi, sottoponendoli a processi di variazione, inversione o retrogradazione - ritmicamente sono la stessa cosa -, come farà poi Stravinsky, ma Beethoven lo impara da Haydn). Tra l’altro il ritmo dattilico del primo tempo del concerto, con la variante dell’aggiunta spondaica nella battuta successiva, al posto dell’arresto sul primo quarto (come anche nel Concerto per violino), e pertanto dattilo + spondeo, sarà anche il ritmo base dell’Allegretto della Settima. Ma osserva bene Adorno, negli appunti per il libro mai scritto su Beethoven, che è tipico di Beethoven lavorare su elementi semplici, quasi convenzionali, quando non addirittura pure formule tradizionali: l’individuazione, e la caratterizzazione singola non sono dati dall’invenzione tematica, bensì dalle funzioni che per associazione o per contrasto i temi sviluppano tra loro e con se stessi, al punto che talvolta, e sempre più spesso nelle opere tarde, la riapparizione del tema nella ripresa illumina di una luce del tutto nuovo la sua prima enunciazione che allora si rivela non già come l’enunciazione completa del tema, bensì come la sua proposta e il tema appare finalmente integrale, evidente, solo all’atto della riproposta. A ciò spesso si accompagna, nella sezione dello sviluppo, e dunque in una sezione precedente, l’apparire di un tema nuovo o che sembra nuovo (1° tempo dell’Eroica e della Sonata op. 10. n. 1, dunque in un’opera giovanile!), ma che poi l’analisi rivela provenire da elementi esposti precedentemente, magari non proprio dalle figure  tematiche, ma dalle figure secondarie dei ponti modulanti o delle transizioni (anche se in  Beethoven risulta difficile, e nelle opere tarde difficilissimo, individuare zone secondarie o di transizione, non perché manchino, ma perché svolgono una funzione importante, anzi decisiva, nell’individuazione dei contrasti tematici, costituendo spesso o l’anticipazione di ciò che viene dopo o la conferma di ciò che si è udito o la sua brutale negazione per opposizione o la digressione spiazzante - in quest’ultimo caso, un po’ come il divertimento nella fuga e del resto l’elaborazione perpetua alla quale Beethoven sottopone le idee musicali nasce da una concezione contrappuntistica dell’esposizione tematica, anche se contrappunto non vuol dire per Beethoven necessariamente polifonia: di fatto è concepita contrappuntisticamente anche la monodia, nel senso che è strutturata in modo da potersi prestare a elaborazioni contrappuntistiche).
Esaminiamo per ordine alcune opere, dalla cui analisi si ricaveranno indicazioni sul pensiero musicale di Beethoven, in particole sulle strategie compositive.

1. Sonata in do minore op. 10 n.1

“Ascoltare e capire la musica è tanto difficile appunto perché tutto è completamente trasformato in musica e bisogna trovare la chiave per penetrarvi”.

Josef Rufer[3]


La programmazione del ritmo e l’organizzazione del profilo melodico dei temi non bastano a far comprendere la complessità delle funzioni messe in atto in una pagina beethoveniana e spesso il riconoscimento delle derivazioni tematiche da una cellula originaria, anche se è un buon principio di analisi, non basta a riconoscere il processo che dà luogo alla generazione di una forma, anche perché le forme in Beethoven sono assai poco schematiche, non ubbidiscono mai a uno schema astratto di forma, ma generano dal proprio interno, di volta in volta, lo schema della propria forma. Pertanto ragionare solo introducendo schemi più o meno adeguati di primo tema, secondo tema, ponti modulanti, tema principale, temi secondari, è fuorviante. Così come risulterebbe una via senza uscita cercare rapporti tonali standardizzati: il percorso tonale di un brano è infatti determinato già dall’articolazione del tema d’attacco, che talora però, soprattutto in Beethoven non è ancora il tema nella sua interezza, ma solo una prima impostazione degli elementi in tensione tra loro o per opposizione o per sviluppo che gli daranno corpo nel corso del brano. Quando poi il brano ha anche un’introduzione più o meno sviluppata, come accade in molte sinfonie di Haydn e di Mozart e in maniera ancora più ampia in alcune di Beethoven, è qui che bisogna cercare quali campi tonali, e in che direzione, il compositore abbia voglia di attivare. Ma non è detto che l’introduzione debba svolgersi in un brano musicale di articolata complessità: può anche consistere di due sole note (come nell’adagio della 106) o nella scansione di due accordi (Eroica).
Come nell’elaborazione letteraria esistono strutture aperte, la prosa, il dramma elisabettiano e barocco, il romanzo, e strutture chiuse, il verso, il sonetto, la canzone, le forme poetiche strofiche (che tuttavia restano aperte quanto al numero di strofe), il dramma classico, così in musica si danno temi in sé conclusi e temi aperti, forme simmetriche (la cosiddetta forma di Lied o l’aria col da capo) e forme asimmetriche, principalmente la forma-sonata, ma anche altre, il poema sinfonico, il rondò, ecc., ma l’opposizione delle strutture non è così radicale come si potrebbe pensare a un primo sommario esame. Per esempio, pur in una struttura essenzialmente aperta come quella del recitativo, le figure cadenzali introducono una scansione formale delimitante. In Verdi la fraseologia tende sempre a chiudere il percorso armonico, anche nel periodo tardo, in Wagner invece la conclusione armonica, soprattutto dopo il Lohengrin è sospesa, rinviata, ciò dà alla sua musica il carattere di una prosa[4]. La conquista tonale da una parte, favorita dalla pratica del basso continuo, e il modello della danza nella musica strumentale, avevano via via introdotto, nel corso del XVII secolo, una strutturazione simmetrica delle frasi musicali, sia dal punto di vista delle figure melodiche che dal punto di vista armonico. Il processo trova la sua massima e definitiva realizzazione nella musica galante e nell’opera buffa. Bach era stato un gigantesco e riuscitissimo sforzo di conciliare il libero svolgersi cromatico e contrappuntistico del discorso musicale e la sua rigida scansione tonale, anche lui però senza mai più recuperare la sovrana libertà di un Monteverdi o di un Frescobaldi, salvo che nei sublimi recitativi delle Passioni, degli Oratori e delle Cantate. La novità della musica di Haydn consisté nel reintrodurre la libertà, la scorrevolezza del contrappunto all’interno di strutture rigidamente simmetriche com’erano quelle della musica galante e dell’opera buffa, da lui adottate come modelli di partenza. Beethoven porta il processo alle estreme conseguenze, soprattutto nel periodo tardo, quando rimedita a fondo la scorrevolezza e la fluidità della musica di Mozart. In musicisti romantici, in tal senso, sembrano fare un passo indietro (sembrano!) e ritornare, almeno in parte, all’andamento simmetrico della canzone e dell’aria. Ma proprio Schubert, poi, offre modelli liederistici di una sovrana libertà. Tuttavia è vero che solo Wagner, e ancora più Mahler (più intricato il caso di Brahms) intuirono e svilupparono le potenzialità discorsive dei procedimenti beethoveniani, la sua capacità di contemperare il rigore deduttivo delle figure tematiche con una apparentemente disordinata libertà armonica e melodica.
Come già osservava Schoenberg, in musica si danno solo due possibilità di organizzazione formale: la ripetizione e la variazione. Beethoven cerca, in tutto il suo percorso di compositore, di attuare una sintesi, una commistione dei due tipi di procedimento. La ripetizione non si presenta quasi mai come pura e semplice ripetizione, nemmeno quando viene riproposto tale e quale un tema, come accade alla fine dell’op.109, in cui il tema, ripetuto dopo sei sconvolgenti (alla lettera: sconvolgono tutto) variazioni, assume, solo per il fatto di succedere a quel cataclisma, un carattere totalmente nuovo, di illusorio ristabilimento dell’ordine: è, questo, tra i momenti più commoventi, più dolorosi e struggenti di Beethoven, di una dolcezza disarmata, come un’accettazione della sconfitta, proprio nel punto in cui invece la maestria del compositore domina tutti i procedimenti, ma li domina appunto per dichiarare che non salvano dal dolore, viene da pensare alla meravigliosa Elegia di Marienbad di Goehte, anche lì la maestria del poeta non cela la sconfitta: “fehlt am Begriff”, manca il concetto. Quanto allo sviluppo e alla variazione, essi rammentano sempre qualche aspetto di ciò che stanno cambiando.
Riassumendo, e schematizzando, nel costruire i propri temi il compositore può procedere in tre modi, e tutti e tre consistono nella congiunzione di una figura fondamentale con la sua ripetizione variata:
a) in maniera fraseologica, vale a dire sviluppando e variando l’idea di partenza senza mai ripeterla esattamente come la prima volta;
b) in maniera periodica, e cioè la figura iniziale si congiunge nell’antecedente con una sua variante o variazione per poi riproporsi tale e quale nel conseguente[5]. Si tratta dunque di una forma simmetrica, come del resto la seguente;
c) il Lied tripartito (forma A B A). La differenza con la forma precedente consiste nel fatto che la parte intermedia è contrastante rispetto alle parti estreme.
Quest’ultima è, per quanto riguarda la strutturazione di un intero brano, la forma preferita da Schubert per i suoi Improvvisi e da Chopin per i suoi Studi. Ciò che s’è detto, dunque, per la struttura della frase, vale anche per la struttura della forma.
La Sonata in do minore op 10 n. 1, composta tra il 1796 e il 1798 (Beethoven ha 26 e poi 28 anni), appartiene al periodo giovanile, a quello che si è soliti chiamare primo stile. Ma in realtà mostra già tutti i caratteri non già del suo stile tardo o terzo stile, bensì del suo modo di pensare la composizione, che rimane lo stesso dall’inizio alla fine, come già del resto riconosceva Liszt, furibondo per l’invenzione che il Lenz avanzò di dividere l’opera beethoveniana in tre periodi distinti, Vincent D’Indy parlerà addirittura di apprendistato, transizione e maturità: la Patetica apprendistato! e l’Appassionata o la Pastorale transizione!
Intanto sono già calcolate con precisione le proporzioni tra i tempi e tra le parti di un tempo al suo interno. L’esposizione comprende 105 battute, che vanno raddoppiate a 210, perché alla fine ci sono i puntini di replica. Il tema principale è esposto fino alla battuta 22, poi abbiamo una transizione o ponte modulante diviso in due parti, una prima, battute 23-31, che liquida il tema principale, una seconda, battute 32-55, che prepara il secondo tema, il quale copre le battute 56-76. Dalla battuta 77 alla battuta 105 si liquida il secondo tema e una coda, in cui riappare un inciso del primo tema, chiude l’esposizione. Come si può osservare i due temi hanno dimensioni pressoché uguali, 22 battute il primo, 21 il secondo. La transizione è più ampia: 34 battute, suddivise però in una prima parte di 10 battute e in una seconda di 24. La prima parte è però all’ascolto intesa come conclusione del primo tema e la seconda, per il suo carattere spiccatamente melodico, come avvio del secondo tema, che si tratti invece di una transizione ce lo fa intendere l’irrequietezza armonica. Di fatto, la transizione, con le sue 34 battute si propone come una sezione che controbilancia il peso dei due temi. La sua seconda sezione, inoltre, sembra suggerire l’apparire di un nuovo tema: è solo la fluidità armonica ad avvertirci che il vero e proprio secondo tema deve ancora arrivare. L’ambiguità non è casuale, né vuole depistare l’ascoltatore, che anzi lo prepara al carattere mobile, perpetuamente variabile e variato, di tutto il tempo. Ma qui si rivela subito un carattere tipico del procedere di Beethoven: le parti secondarie, o di transizione, non sono affatto secondarie nel senso scolastico del termine (lo sono invece quanto alla loro dipendenza dalle idee musicali precedenti che sviluppano o seguenti che introducono), ma presentano già aspetti della variazione, dell’elaborazione tematica, che costituiranno il nucleo dello sviluppo o si riascolteranno con altra funzione nello sviluppo o addirittura genereranno all’interno dello sviluppo idee, si starebbe per dire veri e propri temi nuovi, mai ascoltati prima (come accade nello sviluppo del primo tempo dell’Eroica). Questo modo di procedere verrà da Beethoven adottato via via con sempre maggiore frequenza, fino a condurlo a modellare un tema sempre in maniera diversa, con un processo di variazione perpetua o di successione di varianti dell’idea di partenza. Negli ultimi quartetti il procedimento si estende addirittura da un quartetto all’altro, quasi che i cinque quartetti, dall’op.127 all’op.135 formassero un unico gigantesco monumento musicale (ma non è così per l’Arte della Fuga o per l’Offerta musicale?). Ma che un simile modo di scrivere lo si riscontri già in un’opera relativamente giovanile è sintomatico dell’unità di pensiero che innerva tutta l’opera di Beethoven.
La figura principale del primo tema è composta da due motivi contrastanti, di lunghezza disuguale: 3 battute, la prima, 1 battuta la seconda. Tale figura viene presentata due volte, la prima alla tonica, la seconda alla dominante. Qui si chiuderebbe l’antecedente del primo tema, ma il conseguente entra con una cesura assai brusca, riproponendo di nuovo la tonica con una figurazione che sembra nuova, ma è derivata dalla battuta singola dell’antecedente, solo che qui si dispiega in un largo movimento cantabile che prosegue per otto battute, alle quali succedono quattro battute assai contrastanti, aggressive, di chiusura, e comincia la transizione, ma riproponendo la figura iniziale del tema e riaffermando decisamente la tonica. Pertanto il tema è composto di due sezioni contrastanti a loro volta divise in due segmenti anch’essi contrastanti. L’articolazione non potrebbe essere più capillare. Non solo: ma la figura d’apertura spazia nell’ambito di una decima, do mi bemolle, e dunque propone la terza minore che caratterizza la triade di do minore. Nel primo movimento la terza non è un intervallo caratterizzante, costruito com’è, tematicamente, piuttosto sulla dissonanza dell’appoggiatura suggerita dalla figura di una battuta del tema principale (battuta 4), un intervallo di seconda minore. La terza, però, gioca un ruolo preponderante nell’adagio successivo, e nella strutturazione armonica generale della sonata, perciò Beethoven sembra anticiparlo già nelle battute di apertura. Ma la terza gioca, tuttavia, un ruolo anche nel primo tempo, e nella distribuzione dei piani armonici della sonata, un ruolo non propriamente tematico, bensì, come si è detto, armonico (tuttavia anche le relazioni armoniche tra i temi e tra i tempi della sonata hanno un valore tematico). Dato che il ruolo della dominante è liquidato ad abundantiam già nell’esposizione del primo tema, Beethoven ricorre, per il secondo tema, ad una tonalità alternativa, e non va molto lontano, perché ricorre al relativo maggiore di do minore, mi bemolle, e dunque resta nel campo d’azione di do minore, in più è proprio il mi bemolle ascoltato all’inizio e che configura l’intervallo di terza minore con il do dell’attacco: anche il tempo lento non va lontano, ma propone, secondo la tradizione, una sottodominante, come spesso in Haydn e quasi sempre in Mozart, ma non la sottodominante di do, fa, bensì quella di mi bemolle, la bemolle, la sottodominate, cioè, del relarivo maggiore di do minore, mi bemolle, che è anche la tonalità del secondo tema. Si viene a giocare così ancora una volta l’intervallo di terza: la triade la bemolle do mi bemolle viene udita, nella successione dei temi e dei tempi bella successione di do mi bemolle do (1° tempo) la bemolle (2° tempo) do (3° tempo), la terza è pertanto l’intervallo generatore sia dell’impianto tematico che di quello armonico di tutta la sonata. L’interesse, infatti, sta nel fatto che la tonalità di mi bemolle maggiore sembra configurata, e anticipata, già nella configurazione del tema, non come tonalità, ma come l’intervallo di terza minore, sia pure presentato nell’aspetto di decima, che è anche l’intervallo della modulazione da do minore a mi bemolle maggiore, come se a Beethoven interessasse preannunciare nel movimento melodico del tema il movimento armonico dell’esposizione, equiparando di fatto la struttura lineare melodica a quella verticale armonica del brano. Ma poi, passando da un tempo all’altro, la discesa di una terza, questa volta maggiore, da do a la bemolle, impianta la sottodominante di mi bemolle, la bemolle, che è la tonalità dell’adagio, e un nuovo salto di terza maggiore, da la bemolle a do, riconduce alla tonica di do minore, ch’è la tonalità dell’ultimo tempo. Tutto questo è azionato più di un secolo prima di Schoenberg. Ma non si vuole affermare, qui, che Beethoven anticipi Schoenberg:  questa storia delle anticipazioni è una sciocchezza, nessuno anticipa nessuno, più semplicemente quelli che vengono dopo utilizzano le idee di quelli che sono venuti prima, non è vero che Haydn in certe sonate e in certi trii sembra anticipare Schubert, è Schubert che sviluppa e rielabora procedimenti che trova in Haydn. Dobbiamo però correggere, o piuttosto aggiustare, un’affermazione avanzata poco sopra sul ruolo secondario dell’intervallo di terza minore, nella costruzione del primo tempo. Come s’è visto, esso anticipa fin dall’inizio il percorso tonale del tempo, ed è un’altra prova della complessità di funzioni che Beethoven affida alla configurazione tematica (e s’insiste che ciò avviene già nell’op. 10!). In tal senso la terza, se non appare come intervallo caratterizzante dell’invenzione tematica (ma non fa parte del tema anche la sua individuazione tonale e l’intervallo di terza minore, do mi bemolle, non assolve forse la funzione di delimitare il campo tonale di do minore?), certamente, però, alla luce di un’analisi dettagliata del primo, come degli altri due tempi, la terza sembra svolgere il ruolo di cellula generatrice, di matrice, tanto dell’invenzione tematica che della condotta armonica: l’intervallo dissonante di seconda, minore e maggiore, che pare invece caratterizzare i profili melodici delle figure tematiche, soprattutto nella sezione di transizione e nella coda, risulterebbe così generato per opposizione proprio dalla consonanza della triade. Insomma, Beethoven imposta uno spazio tonale definito dalla terza minore sulla tonica di do minore, e poi v’inserisce all’interno una successione di seconde che nel conseguente del primo tema copre tutti i gradi della quinta discendente sol do, sotto forma di una scala che scandisce, aumentato con valori raddoppiati e poi quadruplicati l’impulso ritmico dell’inizio, sul modello della figura ritmica della battuta 4.  Ma non basta. L’intervallo di terza delimita anche i rapporti tonali tra i tre tempi della sonata, in quanto se l’adagio va alla sottodominante di mi bemolle, la bemolle, ciò appariva già non solo prevedibile, ma auspicabile dall’affermazione della tonalità di mi bemolle maggiore alla fine dell’esposizione del primo tempo, dominante di la bemolle. Ora il mi bemolle, che già tanta parte ha svolto nella costruzione del primo tema, viene poi evocato nella chiusa del tempo dal rientro alla terza inferiore do, come grado mediano della successione tonale di tutto il tempo, che dunque percorre la successione do mi bemolle do, di nuovo la terza proposta all’inizio del tempo, rispetto alla quale l’alternanza I-V si presenta come un’articolazione interna sia del primo che del secondo tema. E’  per questo che Beethoven evita poi di riproporla nel contrasto tra i  temi. Allora diventa del tutto plausibile che il rientro di do minore, nell’ultimo tempo, si offra come l’ascensione alla terza superiore da la bemolle, tonica della dominante mi bemolle, così come l’apparire di la bemolle era stato il risultato della discesa di una terza da do, e il circolo si chiude. Ma ritorniamo all’esposizione del primo tempo.
Nel secondo tema la configurazione del primo è evocata da una parte dalla spinta ascensionale, là arpeggi, qui scale, ma anche dalla scansione ritmica degli arpeggi, che, aumentata, scandisce la testa del secondo tema, nell’antecedente, e dall’altra allusa dalla percussione giambica del conseguente, che è ricavata dalla percussione della terza, mi bemolle, nella prima figura del primo tema, terzo quarto della seconda battuta e primo della terza.. L’affinità tra la figura ascensionale degli arpeggi e delle scale è poi alla fine evidenziata, nella riesposizione, dall trsformarsi delle scale in arpeggi. Inoltre anche nel secondo tema, la figura ritmica è un mi bemolle, che ora, però non è più la mediante, bensì la tonica. Da osservare poi che già nel primo tema la figura percussiva di due semiminime veniva ampliata nella figura di semiminima + minima della quarta battuta. Una ricapitolazione della testa del primo tema cui succede la sovrapposizione di una figura derivata dalla quarta battuta con un basso che riecheggia la seconda sezione della transizione tra i due temi conclude l’esposizione svanendo p e riposandosi sulla tonica mi bemolle, di modo che i suoni di do e di mi bemolle, che costituisco l’inizio e la fine della prima figura dell’antecedente del primo tema (battute 1-3) aprono e chiudono anche l’intera esposizione: nel campo di questa terza, che è poi il campo tonale di do minore, si espandono e si contrastano, come s’è visto, le tensioni dissonanti derivate dall’appoggiatura della quarta battuta..
Qualche parola ancora sullo sviluppo, e poi si lascia al lettore il piacere di proseguire l’analisi, magari facendosi anche guidare dalle pagine che il Rufer dedica a questa sonata, rielaborando una lezione di Schoenberg[6]. Lo sviluppo si apre riproponendo in do maggiore il primo tema, alternando I e V, do e sol, come nell’esposizione. Alla battuta 118 (senza contare la replica dell’esposizione), dopo due battute, che riprendono lo scatto ritmico delle battute 28-30 che concludevano la prima sezione della transizione, compare in fa minore (sottodominante di do) un nuovo tema assai cantabile. Esso dura per ben 16 battute, per dissolversi poi via via (battute 134-167), combinando la figurazione melodica con quella ritmica percussiva, alternando melodia e accordi tra le due mani, per risolversi infine, per 10 battute, in due serie di accordi discendenti che su un pedale di dominante riconducono alla tonica di do minore, e da qui comincia la riesposizione. La figura della duplice serie di accordi è ricavata dalla figura delle battute 13-16 e sono un bellissimo esempio di variante ampliata, così tipica di Beethoven. Ma il tema che appare nuovo non è nuovo affatto, anche se appare piuttosto insolito l’ampio respiro melodico, all’interno di una sezione, come quella dello sviluppo, che dovrebbe apparire invece spezzettata e armonicamente instabile. Il tema in realtà deriva dalle battute 33-36 della transizione dell’esposizione, qui trasformate nelle battute 118-122, e dalle battute 56-59 del secondo tema, qui sviluppate nelle battute 122-125. Come mai quest’improvvisa apertura cantabile all’interno dello sviluppo? L’analisi dell’intero tempo e del carattere dei suoi temi ce lo spiega chiaramente: Beethoven ha voluto aprire una sorta di finestra (sì, proprio come nei computer) all’interno di una sezione aperta (e dunque un’altra finestra) dello sviluppo e ciò per contrapporre un momento di dispiegamento a voce piena del canto alle frastagliatissime sezioni dell’esposizione e della riesposizione. Qualcosa di analogo ritorna nell’Andante della Quinta: ma ingigantito. La forma del tempo è assunta da Haydn: due temi di cui il secondo è già una variazione o una variante del primo, si alternano in due serie parallele di variazioni. Ed è solo all’ultima variazione che il primo, bellissimo, tema acquista tutta quanta la sua aperta, meravigliosa vocalità, intonato dall’intera orchestra, è come se tutto ciò che si era ascoltato prima fosse la preparazione di questo sfogo, e ora che l’orchestra esplode finalmente si udisse la vera e definitiva configurazione del tema.
Che cosa imparare da tutto ciò?
Intanto che la ricchezza, la fantasia dell’invenzione tematica beethoveniana riposano su un paziente, continuo, faticoso esame degli elementi costitutivi del tema, dall’analisi delle sue possibilità, dalla sfida di condurlo a esiti impreveduti, inauditi, eppure in realtà coerentissimi. Dall’altra parte che, come Mozart per le sue spericolate avventure armoniche parte da campi tonali assai semplici, raramente con più di tre accidenti in chiave, così Beethoven fa scattare la propria invenzione partendo da cellule tematiche semplici, un impulso ritmico elementare, un intervallo tutt’altro che desueto, spesso i gradi della triade (Appassionata, Terzo Concerto). La fantasia sta nell’arte di combinare, di complicare con una consumata disciplina contrappuntistica ciò che sembrerebbe il più semplice dei moduli omofonici. Nei quartetti, da questo contrasto sa trarre spunti e sviluppi straordinari, talora umoristici. Soprattutto negli ultimi quartetti, infatti, Beethoven alterna assai spesso passi di assoluta omofonia a passi di elaborato e intricato contrappunto e quasi sempre il contrappunto rielabora una melodia che si era sentita enunciare dai quattro strumenti all’unisono e pareva restia a qualsiasi rielaborazione contrappuntistica.

2. Terza Sinfonia in mi bemolle maggiore op. 55, “Eroica”


“Le battute 3-6 | del 1° tempo | , insomma, non sono né un tema per quanto riguarda la sostanza, né un’esposizione[7] per quanto riguarda la funzione. Alla base del movimento non sta un tema, bensì - secondo la nuova maniera di Beethoven - una configurazione tematica. Nell’Eroica essa consta del contrasto tra l’arpeggio della triade del motivo principale e il movimento cromatico di semitono in cui devia, sorprendentemente, il motivo principale alle battute 6-7: un contrasto che da un lato è altrettanto elementare r d’altro lato altrettanto brusco di quello tra triade e movimento per scale dell’op. 31 n.2”.

Carl Dahlhaus[8]





L’analisi della Terza Sinfonia “Eroica” prenderà in esame quasi soltanto la costruzione ritmica del primo tempo e di parte del terzo. Del secondo e del quarto indagherà invece gli aspetti armonici e tematici (variazione, variante).
Fin dall’inizio Beethoven imposta un contrasto tra scansione ternaria e binaria del tempo. Due accordi di mi bemolle maggiore intonati da tutta l’orchestra, compresi i timpani, avviano la musica. Essi occupano ciascuno il primo quarto di una battuta ¾. Ma poiché non si ode altro, l’ascoltatore è portato a percepire la scansione di un tempo binario. Alla terza battuta, però, il ritmo ternario s’impone chiaramente, con il tema enunciato dai violocelli, scandito sui gradi della triade di mi bemolle maggiore. Il tema è curiosamente simile a quello dell’ouverture di Bastien und Bastienne di Mozart, che Beethoven però non poteva conoscere, perché non era stata ancora pubblicata la partitura. Ma sui gradi di una triade non è difficile che i temi si assomiglino. L’orginilatà tematica non era sentita ancora come un compito, come lo sarà per i compositori romantici, che privilegiano il profilo melodico del tema. In Beethoven l’elaborazione, la combinazione, lo sviluppo, insomma tutto il lavoro del comporre, contano assai più della riconoscibile originalità del profilo melodico di un tema. Anche se proprio con Beethoven il tema comincia ad acquistare una individualità che poi sarà ricercata, talora ossessivamente, dai romantici. Ma l’individualità del tema beethoveniano, s’è detto, non sta tanto nel suo profilo melodico (anche), quanto nella tensione delle forze che agiscono al suo interno: possono bastare cinque colpi di timpano sulla tonica, a orchestra muta, a generare uno stato spasmodico di attesa (Concerto per violino). Il carattere così individuale del tema dell’Inno alla gioia è dovuto più alla sua scansione ritmica, che alla configurazione melodica. Tra l’altro Beethoven ha inseguito per 30 anni l’individuazione del tema della gioia, e l’enunciazione definitiva è la più scarna, la più semplice.
Il primo tempo dell’Eroica, insieme al primo tempo dell’op. 106, è tra i più vasti concepiti da Beethoven. Ma è anche tra i più organici. Qualsiasi compositore, dopo un tale raggiungimento, si sarebbe riposato sugli allori. Invece Beethoven, dopo la Terza, volta pagina. E in maniera addirittura rischiosa, inoltrandosi in territori per lui nuovi. L’elenco è sbalorditivo: Quarto Concerto per pianoforte op. 58, Quartetti op. 59, Sinfonie Quarta, Quinta e Sesta, rispettivamente op. 60, 67 e 68, Concerto per violino op. 61, l’ouverture Coriolano op. 62, Sonata per violoncello e pianoforte op.69. Il tutto nel giro di quattro anni, dal 1805, l’anno della prima versione del Fidelio, al 1808. E non sbalordisce tanto l’accumulo di capolavori, quanto la diversità di ciascuna opera dalle altre. Che cos’ha in comunque l’op. 59 con l’op. 62 o la Quinta Sinfonia con la Pastorale? Oltretutto il sistema di lavorare simultaneamente a più composizioni fa supporre una disponibilità quasi demoniaca a cambiare di punto in bianco registro. Ciò va detto per quanti ancora si ostinano a ricercare corrispondenze biografiche nelle opera di Beethoven. Certamente, ci sono. Ma non sono dirette e in ogni caso all’atto di tradurre in musica le diverse sollecitazioni intellettuali ed emotive, Beethoven le trasferisce su un piano puramente musicale. E’ l’invenzione tematica, la condotta delle parti, la strumentazione (anche sul pianoforte) a guidargli la mano, e non la ricerca di una corrispondenza extramusicale. Intendiamoci, le allusioni o il rinvio a contenuti non musicali nella musica di Beethoven ci sono, qualcuno è documentato, qualcun altro perfino confessato (ma diffidiamo di certe semplificazioni, strappate dall’ottusa insistenza del povero Schindler), ma molte corrispondenze biografiche o magari addirittura ideologiche, sono pervicacemente taciute. E’ tuttavia caratteristico di Beethoven che l’intento per così dire programmatico non gli prenda la mano, non gli faccia perdere il senso della forma, quasi sempre infallibile, e là dove l’impostazione formale può invece apparire contraddittoria, irrisolta (primo tempo del Terzo Concerto per pianoforte, Missa Solemnis, forse perfino il Finale della Nona) ciò è dovuto alla ricerca di trovare nuovi assetti formali, costruzioni non ancora tentate, piuttosto che a mancanza di coerenza musicale[9]. C’è spesso, se non quasi sempre, in Beethoven, un atto della volontà che muove l’atto del comporre, un che di artificiosamente volontaristico - sia detto senza biasimo, anzi! - nella sua sfida a superare i limiti della forma e dello strumento che dovrebbe realizzarla, la voce spinta all’urlo, lo strumento ai margini dei suoi registri abituali, l’orchestra al punto di rottura, come avverrà un secolo dopo con Mahler o con un certo Bartók (entrambi idolatri di un culto beethoveniano). L’extramusicale, insomma, entra prepotentemente nel mondo musicale di Beethoven, ma passando per il collo della bottiglia dell’elaborazione squisitamente musicale. Perciò anche quando canta le virtù civili, come nel Fidelio, Beethoven non è mai retorico, e quando perora la causa dei sentimenti, come nell’Appassionata, mai enfatico. Il che non significa che non faccia ricorso a codici di persuasione retorica e non utilizzi tutti i mezzi della captatio benevolentiae che  gli offriva una tradizione sedimentata in secoli di codificazione delle formule musicali indicative in un affetto. Ma vi ricorre appunto solo nell’ambito di una tradizione, solo come ricorso a una convenzione accettata. Lontanissima da lui l’idea di un’autonomia assoluta del linguaggio musicale, che sarà se mai un’utopia romantica. Tutto il lavoro dell’ultimo Beethoven è anzi teso a scavare i presupposti delle basi comuni, condivise, del linguaggio musicale. Quanto di sconvolgente, di aspro, d’isolito urta negli ultimi quartetti, nelle ultime sonate, nelle Variazioni Diabelli, è proprio lo scendere alle radici del comporre, al dato oggettivo dei meccanismi da cui nasce la musica. In parole povere, alle radici della musica, così come Hölderlin e Goethe scavano nel linguaggio della poesia fino a scoperchiarne le radici. E’ il carattere umano, collettivo, del linguaggio che viene messo in discussione: l’intervento del soggetto non è inteso a rivelare chi sa quali occulte fantasie personali, ma anzi a snodare i vincoli che rendono significativo il linguaggio, per Beethoven a denudare le strutture basilari del comporre. In tal senso Beethoven è il primo compositore che compone opere che riflettono sui meccanismi del comporre, che mira sì a rendere espressiva, comunicativa un’opera, con un’insistenza e un’efficacia fino allora inaudite, ma anche e soprattutto a riflettere sugli strumenti tecnici che rendono l’opera espressiva e comunicativa. Insomma se una comunità si riconosce nel fatto di parlare una stessa lingua, che cosa rende comune quella lingua a tutti quelli che la parlano, che cosa la rende adatta ad assumersi la funzione di esplicitare la volontà di comunicare di ogni singolo parlante di quella comunità? Per la musica, che cosa fa riconoscere l’affinità d’intenti tra il compositore e i il suo pubblico? e gli arcaismi della Missa Solemnis, a che linguaggio fanno riferimento? o sono, come voleva Adorno, il sintomo di un’impotenza? vale a dire l’impossibilità, per il moderno, di credere universale la trascendenza di dio, e cioè di credere che il senso della realtà risieda fuori della realtà o, più esattamente, l’impossibilità di comunicare la trascendenza, di parlarne? La grandezza di Beethoven starebbe allora nel fatto che invece di mascherare, come faranno i compositori romantici, con una falsa soggettività l’oggettività collettiva del sentimento religioso, di fatto contrabbandando per espressione del sentimento collettivo la retorica individuale del proprio desiderio di sentimento collettivo, Beethoven invece ne denunci, anche a rischio di mettere a nudo il proprio fallimento, l’inautenticità, l’impraticabilità nel mondo moderno di un comune sentimento religioso, e pertanto ne proclami l’oggettiva impossibilità, o quanto meno l’impossibilità di pronunciarlo con un linguaggio comune, che ricostruisse i presupposti di quello della tradizione polifonica estinta. Il mondo dell’omofonia moderna (del consenso? del conformismo? o, con parola attualissima, della globalizzazione, vale a dire della notte hegeliana in cui tutte le vacche sono nere?) ha estirpato dal proprio seno qualsiasi convenzione che non sia quella autenticata da un soggetto (la privacy?), ma oggi l’unica soggettività ammessa è appunto quella condivisa del Grande Fratello, vale a dire quella dell’apparire. Sembra che Beethoven l’avesse già presentito. Forse perfino sofferto, nella smania di normalità, di conformità alle altrui opinioni che credeva di leggere nel comportamento del nipote[10]. Adorno parlerebbe di condizionamento borghese alla conformità sociale. Ma le cose non sono così semplici. Ogni lettura sociologica della musica finisce quasi sempre per occultare ciò che vorrebbe denudare. Il rapporto tra un capolavoro e la società del tempo in cui nasce non è così visibile da poter essere riconosciuto dall’analisi delle condizioni in cui l’opera è nata e tanto meno dall’analisi della struttura dell’opera: in ogni caso il giudizio di valore è illegittimo, per questa via. La Nona non è un capolavoro perché realizza musicalmente il sogno di libertà e di fratellanza della Rivoluzione Francese, meglio di come di fatto quella rivoluzione lo avesse realizzato, ma perché quel sogno si è fatto musica assoluta, le cui leggi non sono quelle del sogno bensì della musica. Al riguardo potrebbero illuminarci, più che le troppe pagine adorniante sulla dialettica sociale che si riverbera nella dialettica dell’opera d’arte, le scarne, ma densissime pagine che Dahlhaus dedica al poema sinfonico[11]. Di fatto, proprio la grande capacità di astrazione musicale permette a Beethoven di veicolare idee e sentimenti che sembrerebbero condannati a trovare espressione solo in opere di fastidiosa e roboante enfasi, proprio la sua grande sapienza nella distribuzione retorica delle parti gli permette di evitare la banalità della retorica. Si è mai fatto caso che il Fidelio è l’unica opera che inneggiando agli ideali di libertà e di giustizia non risulti né enfatica né noiosamente tribunizia, ma  anzi ci afferri alla gola, ci commuova e ci comunichi la stessa passione di libertà che l’ha generata?
Anche l’Eroica partecipa di questa passione[12]. Del resto Beethoven lavora quasi simultaneamente a tutt’e due le partiture (la prima versione del Fidelio, che s’intitola Leonore, è del 1805, l’Eroica viene eseguita nel 1804). Il carattere “appassionato” della sinfonia si manifesta subito con un’astrazione musicale: con la tensione ritmica generata dalla scansione binaria all’interno di un tempo ternario. Fin dai due accordi di apertura. Coprono entrambi il primo quarto di una battuta di tre quarti, e sono seguiti entrambi da due pause di semiminima. In tal modo l’ascoltatore percepisce una successione netta di due accordi, ma restando per il resto le due battute vuote di qualsiasi indicazione ritmica, la percezione è di due battiti, e l’orecchio si predispone all’ascolto di un tempo binario. Interessante il fatto che Beethoven abbia aggiunto i due accordi iniziali quando la partitura della sinfonia era stata già completata. Come se volesse depistare l’ascoltatore (ci sarebbe da scrivere un libro sull’abilità di Beethoven nel guidare la percezione dell’ascoltatore, con una acribia e una precisione che farebbero pensare a un esperto conoscitore della psicologia della percezione, ma questa disciplina allora non era nemmeno in mente Dei). Qualcosa d’analogo farà più tardi, aggiungendo i due bicordi introduttivi dell’Adagio sostenuto della Sonata op.106. Anche lì un depistaggio, questa volta armonico: la, do diesis, che farebbero prevedere un successivo mi, e dunque la triade di la maggiore, mentre invece si rivelano come i gradi del primo rivolto dell’accordo di fa diesis minore, che è appunto l’accordo intonato subito dopo. Probabile che sia un’eco della suggestione dell’attacco del Concerto per pinoforte in do minore K. 491 di Mozart, che già Beethoven aveva preso a modello del proprio Concerto nella stessa tonalità. Ma mentre nell’opera giovanile Beethoven riafferma, contro il procedere mozartiano, il ruolo consolidante della dominante, ripetendo due volte la cadenza V-I, sol-do, sol-do, qui lo riproduce esattamente: Mozart, do mi bemolle la bemolle; Beethoven, la do diesis fa diesis, ma mentre in Mozart l’attacco parte dalla tonica, facendo prevedere, dopo la terza minore di do minore, deviando sul la bemolle, la tonalità della sopradominante, perché anche il terzo accordo è un bicordo, in Beethoven l’attaco parte dalla mediante (grado da lui prediletto, come poi da Brahms), facendo subito prevedere il relativo maggiore di fa diesis minore, tonalità che invece si rivela con la triade completa al terzo accordo. In ogni caso il la sta in rapporto di terza minore con fa diesis, e la tonalità maggiore evitata si presenta dunque sempre privilegiando il rapporto di terza (ovvio che il relativo maggiore sia in rapporto di terza, ma è particolare il modo con cui Beethoven fa giocare questa terza, come si è visto nel primo tempo dell’op 10). Il do diesis gioca a questo punto un ruolo ambiguo, perché si trova da una parte una terza sopra il la, e se Beethoven procedesse con un’altra terza, mi, avremmo la triade di la maggiore, ma dall’altra è la dominante di fa diesis e, come sempre in Beethoven, la dominante non allontana dalla tonalità d’impianto, ma la ribadisce. Torniamo al primo tempo dell’Eroica. Il ritmo ternario comincia subito alla terza battuta. Alla settima battuta abbiamo una deviazione armonica sul do diesis, che sembra preparare, insieme, sia i procedimenti armonici del tempo che la sua ricerca di una tensione a tutti i livelli, melodico, armonico e ritmico, l’idea che succede all’esposizione della configurazione principale di ciò che potremmo considerare primo tema comincia infatti sul secondo quarto della battuta (battute 45-55). Prima, però, abbiamo sentito l’urto di una scansione binaria alle battute 25-35): pertanto l’accentuazione spostata di questa seconda idea tematica (non è né un ponte né un secondo tema) è stata preparata. E’ come se Beethoven individuasse via via i caratteri del tema, come se il tema non fosse la triade arpeggiata di mi bemolle, ma i due accordi introduttivi seguiti dalla triade, i contrasti ritmici delle battute 25-34 (la battuta 35 ristabilisce il tempo ternario) ora completati da quest’idea ritmicamente sbilenca. Un’idea strappata alle battute 56-59 della Sinfonia n° 97 in do maggiore di Haydn[13] è il vero ponte alla seconda sezione dell’esposizione. In realtà questa terza (o forse quarta) idea tematica è facilmente riconducibile alla seconda e alla scansione binaria delle battute 23-34. Sfocia infatti dapprima in una serie di sforzati che battono costantemente il secondo quarto, e infine, alle battute 128-131, in una vistosa scansione binaria preparata, dalla battuta 123 alla battuta 127, dalla percussione di due accordi dissonanti, che battono regolarmente il secondo e terzo quarto della battuta. La sezione dello sviluppo esaspera quanto enunciato nell’esposizione, fino al parossismo delle battute 248-279. Prima era perfino comparso un nuovo tema (battute 163 sgg.: in realtà facilmente riconducibile a elementi già ascoltati nell’esposizione). Il procedimento non è nuovo in Beethoven: lo abbiamo già riscontrato nel primo tempo dell’op. 10. Sull’apparizione di un nuovo tema, o piuttosto di una nuova melodia, all’interno della tormentatissima sezione dello sviluppo, c’è da osservare che la sua funzione, apparentemente in contraddizione con l’obbligo di una perpetua mobilità tonale e ancor più di una frastagliata condotta tematica, è in realtà quella di rammentare l’evoluzione dei temi, di distogliere la memoria dall’idea che i temi siano dati una volta per tutte nell’esposizione. La variazione perpetua del lavoro tematico non è una caratteristica esclusiva del Beethoven tardo, ma un procedimento costante del suo pensiero musicale, fin dalle opere giovanili, vedi l’op.10 n° 1, in cui si riscontra l’analogo emergere d’un tema nuovo all’interno dello sviluppo del primo tempo. Là il nuovo tema svolge inoltre anche la funzione di offrire finalmente una melodia cantabile all’interno di un tempo di sonata per l’epoca troppo spezzetato tematicamente[14]. Ma il punto è che lo spezzettamento è riscontrabile solo se ci si ostina a far concidere l’invenzione tematica con il profilo melodico del tema. Il profilo melodico invece non è che un aspetto della configurazione tematica e spesso nemmeno il principale, almeno rispetto al ritmo e alla condotta armonica. Acquista tuttavia il suo peso decisivo se inquadrato nell’ambito dell’elaborazione contrappuntistica del motivo di base, della cellula tematica originaria. E sappiamo, per confessione dello stesso Beethoven, che a un certo punto, dopo la crisi documentata dall’op. 27, la “nuova via” prende corpo nell’op. 31 n° 2. Beethoven lavora ormai su cellule astratte (negli ultimi quartetti la stessa cellula per tutti e cinque), le quali cellule offrono la base sulla quale elaborare i temi, o piuttosto le configurazioni tematiche complesse in continua evoluzione. Nell’Eroica c’è un momento nel quale l’evoluzione del tema si fa evidente ed è nell’attacco della riesposizione, quando l’irruzione dei corni sembra un intervento prematuro e dissonante. Invece l’effetto è voluto (Beethoven diede dell’asino a chi glielo rimproverò, alla prima esecuzione): condensa in un solo gesto tutta la tensione accumulatasi fino a quel punto e ora sul punto di risolversi. Il miracolo è, se mai, che dopo un tempo di sinfonia così nuovo e così riuscito, Beethoven volti pagina, non scriva mai più niente di simile: compone infatti la Quarta, la Quinta e la Sesta! Il tema assume solo adesso il suo aspetto definitivo e illumina a ritroso tutto il percorso del tempo. Beethoven non è il primo a configurare in tal modo le avventure melodiche, armoniche e ritmiche di un tema. Molti esempi si riscontrano nelle sinfonie, nei quartetti e nelle sonate di Haydn e anche Mozart, che pure sembra conferire uno spicco maggiore al profilo melodico dei temi, fa risultare integralmente nuovo tale profilo quando lo immerge in un ambito armonico non ancora sfiorato prima dalla configurazione tematica in cui si trova (per esempio, all’inizio della sezione dello sviluppo, nella Sinfonia “Jupiter”, il trasporto a mi bemolle maggiore dell’idea “buffa” che forma, in sol maggiore, la coda dell’esposizione).
Il ritmo di trocheo che caratterizza la seconda idea tematica del primo tempo (battute 46-56) genera anche il tema della Marcia Funebre. Così come invece esplode nello Scherzo il contrastato ritmo ternario del primo tempo: con una vitalità dionisiaca che sembra anticipare il furore dello Scherzo della Nona[15]. L’ultimo tempo è costruito non a caso su un tema tratto dal balletto Le creature di Prometeo. E riprende l’artificio di variare prima il basso e poi il vero e proprio tema, già sperimentato nelle Variazioni per pianoforte op. 35, che sono il modello di questo Finale. Un altro modo per accentuare il fatto che un tema non è costituito solo dal suo profilo melodico, ma ingloba tutti gli elementi che lo compongono, e dunque anche il basso. La via per le Variazioni su un valzer di Diabelli è preparata. Le variazioni sul tema del balletto hanno la funzione di rendere manifesto il significato ideologico della sinfonia. La bellezza, la grandiosità, la novità della musica non deve, infatti, farci dimenticare che il progetto, la costruzione e l’afflato “eroico” della sinfonia deve molto alla musica programmatica della Rivoluzione Francese[16]. Come del resto per il Fidelio.

3. An die ferne Geliebte.

Il 1816 - 1817 è un periodo di quasi silenzio. Solo due opere importanti vedono la luce: il ciclo di Lieder An die ferne Geliebte op. 98 e la Sonata in la maggiore op. 101. Ma sono pagine assai significative. Aprono in qualche modo quello che venne chiamato il terzo stile, ma è più appropriato chiamare stile tardo. Giustamente osservano sia Adorno che Dahlhaus che molti artisti nell’ultimo periodo della loro attività sembrano scarnificare le proprie invenzioni, rinunciare alla superficie levigata, accattivante, per andare all’osso dell’invenzione, talora perfino senza mascherarne la difficoltà, l’asprezza, la durezza. Si pensi all’ultimo Michelangelo. Beethoven procede a un’affinamento dei procedimenti contrappuntistici e a una sorta d’interiorizzazione dell’idea tematica di base, sempre più astratta, come se l’opera fosse solo una delle possibili realizzazioni dell’idea, tanto che in qualche caso, come negli ultimi quartetti, la stessa idea si espande o si emana in opere diverse.
Il ciclo di Lieder An di ferne Geliebte è, insieme alle Variazioni in do minore op. 32, e poi alle ultime Bagatelle, quanto di più vicino o di più simile alla musica romantica Beethoven abbia composto. Delle Variazioni si vergognava. Non gli piacevano. Non sono tra le sue cose migliori, è vero, ma Beethoven era ingiusto con se stesso, condannandole. Può darsi che fosse spinto a disprezzarle proprio per il grande successo che invece riscossero, un po’ come faranno Brahms per le Danze ungheresi e Ravel per il Bolero. Ma per il ciclo liederistico Beethoven conservò sempre una grande predilezione. Probabilmente vi leggeva un profondo riflesso della propria interiorità. Ed è così. Non tanto per l’eventuale corrispondenza del pathos del ciclo con vicende personali realmente vissute, quanto proprio per il clima interiore che vi si respira. Beethoven, anche quando canta il proprio sentimento lo canta sempre a nome di tutti gli uomini. E’ indubbio che sia Schubert sia Schumann lo tennero a modello per i propri cicli di Lieder, Schubert per Die schöne Müllerin e per Die Winterreise, Schumann per il Liederkreis, per Frauenliebe und Leben e per Dichterliebe. Ma il carattere del ciclo beethoveniano è molto diverso, molto particolare, se mai più vicino a Mahler e perfino a Wolf che a Schubert o Schumann. Tanto il ciclo, che le Bagatelle e le Variazioni possono sembrare già pagine romantiche, ma non lo sono. Non è romantico il furore d’individualità che le percorre, l’idea di affidare alla struttura astratta dell’opera e non agli effetti strumentali o vocali il suo significato profondo. Non che i compositori romantici, Schumann in testa, non strutturassero rigorosamente le loro opere, si pensi al Carnaval e agli Studi sinfonici, ma laddove i romantici costruiscono un universo in espansione, Beethoven imposta un’architettura impenetrabile, monolitica: i temi si sviluppano e si modificano all’interno dell’opera, ma le loro modificazioni sono regolate dal piano generale. L’ultima modificazione illumina la prima, ma il cerchio si chiude, e non è permesso uscirne. In tal senso un’opera di Beethoven è sempre un’opera chiusa, conclusa. Forse il compositore romantico che gli si avvicina di più, in tal senso, è lo Chopin dei Preludi, e forse non solo quello. E’ vero che negli ultimi quartetti un’idea comune di base si estrinseca in ciascun quartetto, ma cionondimeno ogni quartetto è un’unità inconfondibiole. Fa eccezione la Grande Fuga, ma perché essa è stata pensata non come pezzo a sé, bensì come Finale dell’op. 130. Beethoven, dunque, anche nelle opere tarde non rinuncia a strutturare unitariamente, capillarmente tutta la pagina, a costruire insomma una macchina che funzioni da sé. E’ probabilmente questo il motivo per cui ricorre molto raramente alla cosidetta forma Lied, così cara invece ai romantici. Gli doveva sembrare puerile, meccanica, troppo poco strutturata. La base di ogni sua costruzione resta quella della forma-sonata, vale a dire di un meccanismo che genera la propria forma di volta in volta, ogni volta diversamente. Anche in ciò Beethoven sembra anticipare il pensiero musicale di certe avanguardie del Novecento. Ed è forma-sonata, per Beethoven anche la variazione, anche la danza. O piuttosto: i procedimenti della variazione e la spinta motoria della danza vengono piegati a strutturarsi come sonata. Ciò gli è possibile perché non ha nessuno schema di sonata. E’ anzi sonata proprio lo strutturarsi della variazione e della danza. C’è già in Haydn il modello di una simile concezione della forma-sonata. Particolarmente evidente nel sistema di variazione adottato più volte da Haydn: quello di alternare le variazioni di un tema minore e di un tema maggiore, in cui però il secondo tema è già variazione del primo. Variante beethoveniana di questo sistema sono le Variazioni op. 35 e il Finale dell’Eroica. I Lieder di An die ferne Geliebte ne sono un’altra variante.
Tutto il ciclo dei sei Lieder è programmato come un cerchio tonale che torna su se stesso:

Mi b    Sol    La b    La b    Do    Mi b

Quasi una forma a specchio, in realtà la successione tonale si presenta come un’espansione del campo tonale di mi bemolle[17]. Le tonalità sono tutte nel modo maggiore. Il sol del secondo Lied si spiega come trasporto al modo maggiore della tonalità di sol minore, relativo minore di si b, dominante di mi b. Beethoven ancora una volta evita l’intonazione esplicita della dominante e preferisce un percorso alternativo, che conduca a una tonalità imprevista. Ma i rapporti con una dominante non sono evitati se si considerano le relazioni tonali tra il primo e il terzo Lied e tra il quarto e il sesto: Mi b La b La b Mi b. In rapporto di tonica e dominante stanno anche il secondo e quinto Lied, in cui la tonica è intonata per ultima, in modo da fare apparire il movimento alla tonica come un movimento alla sottodominante: Sol Do. Tale appare anche il movimento Mi b La b, che però si chiarisce quando s’inverte in La b Mi b. Al solito, per Beethoven, la dominante ristabilisce la tonalità d’impianto.
La geometria armonica si rispecchia nella geometria tematica dei Lieder.
Il primo Lied, “Auf dem Hügel sitz ich, spähend”[18], Ziemlich langsam und mit Ausdruck[19], ripete cinque volte la stessa melodia al canto, mentre sotto il pianoforte intona cinque diverse figurazioni di sostegno, via via sempre più mosse e concitate. Il testo imposta la situazione fondamentale del ciclo: l’amante siede su una collina e guardando nel cielo pensa all’amata lontana. Alois Jeitteles non è un grande poeta, ma Beethoven non cerca la grande poesia, chiede al poeta di disegnare con chiarezza d’immagini alcune situazioni sentimentali: il resto lo fa la musica. L’andamento sempre più concitato del pianoforte rende bene l’ansia dell’amante verso l’amata lontana, mentre la ripetizione sempre uguale della linea vocale, per tutt’e cinque le strofe trasferisce nel canto l’ossessione di un’idea fissa che ritorna nella mente dell’innamorato piena di desiderio inappagato:
                                         
                                          Weit bin ich von dir geschieden,
                                          trennend liegen Berg und Tal
                                          zwischen uns und unserm Frieden,
                                          unserm Glück und unser Qual[20].
.
L’accordo di mi b maggiore che lo chiude viene spogliato della dominante si bemolle e presentato tre volte con mi b al basso e sol alla mano destra. Nel Lied successivo il mi b scende sul re e al sol della destra si aggiunge un si naturale. Ecco sol maggiore, la tonalità del secondo Lied, “Wo die Berge so blau aus dem nebligen Grau schauen”[21], Ein wenig geschwinde[22]. Poco Allegretto. Tre strofe intonate anch’esse, come nel primo Lied, su un unico motivo, ma il motivo nella seconda strofa, in do maggiore, è affidato al solo pianoforte, mentre la voce si limita a riprodurne solo il ritmo sullla dominante sol.
Impressionante il carattere schubertiano di questo Lied, carattere che divide con il secondo tempo della Sonata op. 90. E’ una via che Beethoven sta per imbroccare prima di Schubert, quella dell’espansione melodica del tema: ma gli esperimenti intrapresi, grosso modo dall’op. 78 all’op. 96 e qui, nel ciclo di Lieder, vengono subito riassorbiti nella complessa strutturazione armonica e tematica a lui congeniali e questo rende il procedere di Beethoven assai diverso da quello di Schubert, anche quando invece sembra simile. In altri termini, Beethoven non perde mai di vista un centro tonale unico, un punto centrale di riferimento, intorno al quale le espansioni melodiche e le divagazioni armoniche restano subordinate, e in tal senso la teoria armonica di Schoenberg coglie perfettamente il fenomeno[23]. Invece Schubert slitta pericolosamente in regioni via via più lontane fino quasi a perdere di vista la tonica principale, restano invece sempre distinte le funzioni modali, a caratterizzare i diversi aspetti di un tema. Insomma: Beethoven è centripeto, Schubert centrifugo. Ecco perché Schubert rappresentò per più di una generazione di compositori romantici, da Schumann a Brahms,  da Chopin a Bruckner, da Mendelssohn a Wagner, l’ancora di salvezza nel disordine cromatico delle loro invenzioni e il modello alternativo a Beethoven, la cui compattezza armonica appariva a loro troppo inflessibile e perciò li spaventava. A Beethoven comunque l’esperienza del divagare melodico, appreso dal tardo Mozart, è servito per saggiare la possibilità di enunciati melodici apparentemente poco incisivi che entrino piano piano nella forma, la costruiscano per così dire sottovoce, discretamente, senza gonfiare le gote. E nascono alcuni incipit sublimi: l’op. 101, di cui ci occuperemo tra poco, l’op. 109, 110, l’op. 131, la maggior parte delle Bagatelle op. 119 e 126. Il testo, di tre strofe, esprime il desiderio di seguire le nuvole per raggiungere l’amata: “bei dir ewiglich sein!”, essere eternamente da te. Ed è questa immobilità alla quale l’amante aspira, che la musica rende con il movimento singhiozzante delle terzine. La seconda strofa è intonata dal cantante solo sulla tonica Sol, divenuta però ora dominante di Do maggiore. Con la terza strofa si torna a Sol maggiore.
Nel terzo Lied, “Leichte Segler in den Höhen”[24], Allegro assai, in la bemolle maggiore, l’amante chiede alle nuvole, al ruscello, agli uccelli, al vento, di portare i suoi sospiri all’amata. Cinque strofe intonate con respiro affannato dalla voce su un movimento rapido di terzine, ma la terza, proprio in mezzo, che tocca la tonalità di mi bemolle minore, modo minore della tonica inziale e finale del ciclo, si distende su un movimento regolare di semiminime. La quarta e la quinta strofa riprendono l’andamento affannato delle prime due, crome alternate a pause di croma, nella linea vocale, terzine agitate al pianoforte (anche qui pare di sentire un’eco di analoghe terzine schubertiane).
Il quarto Lied, “Diese Wolken in den Höhen”[25], Nicht zu geschwinde, angenehm und mit viel Empfindung [26], anch’esso in la bemolle maggiore, comprende di nuovo tre strofe. Il poeta vorrebbe raggiungere l’amata con le nubi, gli uccelli, i venti che scherzano con i suoi riccioli. Una serie di mordenti e di trilli agitano le singhiozzanti terzine del pianoforte nella prima strofa in un cullante 6/8. Le altre due strofe si distendono quasi in un ritmo di barcarola (le nuvole nel cielo, che nel terzo Lied il poeta aveva chiamato “vele”?).
Due lunghi trilli del pianoforte, seguiti da altri trilli più brevi (quattro) e da un vivace movimento di crome, la cui figurazione deriva comunque dal motivo del primo Lied (su questo torneremo), introducono al solare do maggiore del quinto Lied, “Es kehret der Maien, es blühet di Au”[27], Vivace. Do maggiore come tonalità della rinascita, dell’inizio, o della fine che si ricongiunge all’inizio. La tonalità si trova una terza minore sotto la tonalità d’impianto di tutto il ciclo ed è pertanto anche la tonica del relativo minore, ma Beethoven ha progettato per il ciclo solo il modo maggiore, che oltre tutto rende più evidente il rapporto di terza: la tonica finale è la mediante del penultimo Lied, un’altra volta Beethoven aggira il rapporto di tonica e dominante e a seconda di come si legge la direzione è uno spostarsi sulla mediante o uno scendere nel relativo minore. Il modo minore sarà toccato nella strofe centrale del Lied, ma è mi bemolle, la tonica, non la terza inferiore, quasi lo spettro inquietante, sotterraneo, dell’affermativo modo maggiore. E’ uno strano segno che Beethoven comunica all’ascoltatore: come l’incrinatura di una volontà che persegua il bene agognato. C’è, infatti, un’aria campestre e festosa che ricorda la Pastorale. Ma quell’improviso mi bemolle minore sembra un ferita interiore che improvvisamente ricomincia a sanguinare. Un ritardando prepara la lunga modulazione a mi bemolle maggiore, partendo dal Tempo I (Vivace): e prepara la situazione del distacco. Due volte: la prima alle parole

                                          “Es kehrt der Maien, es blühet di Au,
                                          Die Lüfte, sie wehen so milde, so lau.
                                          Nur ich kann nicht ziehen von hinnen”[28].

Al terzo verso comincia il ritardando: “nur ich kann nicht...”. La situazione si ripete alla strofa seguente:

                                          “Wenn alles was liebet, der Frühling vereint,
                                          Nur unserer Liebe kein Frühling erscheint,
                                          Und Tränen sind all ihr Gewinnen”[29].

Ma questa volta il ritardando comincia già al secondo verso, alla parola Frühling, primavera, e l’ultimo verso viene ripetuto tre volte, la terza rinforzato dall’affermazione ja: “ja, all ihr Gewinnen”. Beethoven doveva sentire profondamente il dolore di un distacco. Lo sentiva come qualcosa d’innaturale, lacerante. Alcune delle sue pagine più tremende e più belle sono legate al desiderio di ricongiungersi con chi si ama. Si pensi all’ansia colma di angoscia con cui Leonore scruta, nel Fidelio, il volto dei prigionieri per vedere se tra essi scorge quello del marito. O quando ne riconosce la voce nella cisterna e in un momento che Beethoven ha voluto senza musica, come se solo il silenzio potesse essere il religioso commento del riconoscimento, alla domanda di Rocco che le chiede se riconosca quella voce, Leonora risponde: “Ja, sie dringt in die Tiefe des Herzens”[30]. Nella Sonata in mi bemolle maggiore op. 81 a, Das Lebewohl - Les adieux, che è dunque nella stessa tonalità del ciclo An die ferne Geliebte, è sublimato, musicalmente, ma non solo, il sentimento insopportabile del distacco. La cellula generatrice, tre accordi che dal bicordo mi bemolle-sol, attraverso il bicordo si bemolle-fa (dominante), conducono imprevedibilmente alla triade di do minore (come l’arrivo a do, ma maggiore, nel ciclo), do (alla mano sinistra) - sol - mi bemolle, è modellata sull’intonazione della parola tedesca Lebewohl, addio, delle cui tre sillabe ciascuna è soprascritta sui tre accordi: Le-, mi bemolle - sol; be-, si bemolle - fa; whol, do - sol - mi bemolle. Ancora più interessante il fatto che il profilo melodico dell’introduzione, Adagio, sia costruito ad arco, anche se con intervalli più dilatati, esattamente come il profilo melodico del motivo generatore del ciclo di Lieder. La sonata, però, ha un esito felice, Das Wiedersehen - Le retour, che il ciclo non prevede.
Il sesto Lied, “Nimm sie hin denn diese Lieder”[31], Andante con moto, cantabile, l’ultimo, in mi bemolle maggiore, come il primo, fa ricomparire, anche, verso la fine, il suo motivo d’apertura. Il ciclo ritorna su stesso. Ma riudito, il motivo porta con sé tutte le tracce delle sue trasformazioni, si sbriciola, si sgretola, per una fine apparentemente gioiosa, come quasi sempre in Beethoven, ma che appare più come una speranza di gioia che come una gioia conquistata. Nei taccuini, proprio in quegli anni, Beethoven scrive: “Freude durch Leiden”, gioia attraverso i dolori. Un ricordo di Werther e dell’amato Goethe? Non sappiamo.
Ma qualcosa va detto sul profilo di questo motivo e sulle sue trasformazioni: tutto il ciclo infatti è costruito come una serie di variazioni sui generis, che combinano la variazione con la tecnica dell’elaborazione tematica, come se costituissero il gigantesco sviluppo d’un’immaginaria sonata o piuttosto la sonata stessa che ci presenta in ogni Lied una nuova faccia del tema, con un’arte consumata delle varianti che fa già pensare ai sistemi delle ultime sonate e degli ultimi quartetti e perfino alla tecnica usata nelle Variazioni Diabelli. Tra il 1816 e il 1817 Beethoven non compone opere d’impegno,  quasi solo lavori occasionali. Salvo questo ciclo di Lieder e la bellissima Sonata in la maggiore op. 101. Ma queste due opere costituiscono quasi una svolta, nel senso che il pensiero musicale di Beethoven si fa sempre più astratto e radicalizza la tendenza che pure era affiorata fin dagli anni giovanili, vale a dire la tendeza a intellettualizare l’atto del comporre, proprio nel momento in cui però il compositore chiede all’ascoltatore una partecipazione emotiva assoluta. Il fatto è che Beethoven non trucca le carte, non cerca di affascinare o abbindolare l’ascoltatore con qualche fantasmagoria musicale: vuole convincerlo, persuaderlo, anche con le arti della retorica, si rivolge insieme al suo cuore e alla sua intelligenza. Della sua intelligenza, anzi, ha un estremo bisogno: perché all’ascoltatore Beethoven chiede prima di tutto di essere capito. Perciò il pubblico al quale si rivolge è un pubblico di persone intelligenti, le sue sfuriate più frequenti e più rabbiose scoppiavano proprio quando qualcuno, tra quelli che gli erano più vicini, il nipote compreso, non capiva che cosa avesse scritto. Come quell’“Asini!” che gli eruppe dal petto quando gli dissero che la Grande Fuga non era stata bene accolta. Nell’ultimo periodo, proprio partendo dall’op. 98, una pagina intima quanto altre mai, e dall’op. 101, però Beethoven sembra voler rinunciarsi all’arte della persuasione, alla distribuzione retorica delle perorazioni, per concentrarsi tutto sui procedimenti interni della composizione, come se l’astratta cellula dell’evoluzione tematica fosse il nudo cuore, lo spoglio pensiero in cui si racchiude il segreto della musica e dunque, per lui, della vita. Ma non la cellula emerge o deve avere valore, bensì la viva forma a cui dà concreta figura. E’ come se chiedesse all’ascoltatore di entrare nel suo laboratorio. Tutto ciò che vi accade, agni minimo atto, ogni minimo gesto, sono pieni di significato.
Il motivo iniziale del ciclo ribatte tre volte la dominante si bemolle, per poi raggiungere per gradi congiunti, una quarta sopra, la tonica mi bemolle e scendere con un salto di sesta minore, sulla mediante sol. Letta verticalmente, la successione profila il primo rivolto della triade di mi bemolle maggiore. Ma la frase si chiude in si bemolle maggiore, cioè alla dominante, che si rivela però subito il punto per ritornare alla tonica (come poi nell’op. 130). Una prima variante della testa del motivo è quindi, subito dopo, introdotta: invece di ribattere il si bemolle, Beethoven fa adesso intonare si bemolle - do, ma poi, invece di salire, ritorna sul si bemolle che risolve, come un’appoggiatura, sul la naturale, scende cromaticamente a la bemolle per risalire al si bemolle e rilanciare un’altra appoggiatura, la bemolle - sol. Su questi due elementi: il motivo d’apertura ad arco per gradi congiunti e la figura dell’appoggiatura è costruito tutto il ciclo. Di Lied in Lied una figura ritmica del Lied precedente o un intervallo che acquisti improvviso risalto (per esempio il salto di sesta discendente esaltato dal pianoforte tra una strofa e l’altra del primo Lied, ricavato dalla testa del motivo vocale) generano la cellulla tematica del Lied successivo. Il passaggio dal primo al secondo Lied è evidentemente suggerito dalla figura di tre crome ascendenti per grado congiunto da do a mi bemolle, nella seconda e terza battuta (il mi bemolle è la nota di arrivo sul tempo forte della misura) del primo Lied. Ma qui la figura viene isolata, e proprio la pausa che irrompe tra una proposta e l’altra della figura conferisce all’andamento del Lied il suo si direbbe tipico sapore schubertiano. Tra il secondo e il terzo Lied è la figurazione di terzine a costituire l’anello di congiunzione. E così via. E’ più bello scoprirlo, il segreto di questo laboratorio musicale, che lasciarselo spiegare punto per punto. Queste note non vogliono costituire un saggio completo di analisi, ma solo lo stimolo a procedere da sé nel lavoro affascinante ed emozionate di analizzare una pagina di Beethoven.


Sonata in la maggiore op. 101


“Nell’op. 101 il concetto di ‘tema’ è per così dire integrato in quello di ‘melodia’, come se l’Allegretto ma non troppo non fosse il primo, bensì il secondo movimento lento di una sonata. D’altro canto proprio perché la cantabilità della voce principale mette in pericolo il carattere di processo della sonata, all’ ‘istanza contraria’ del cantabile, all’istanza estetica e tecnica del fattore ‘subtematico’, spetta una funzione o un’importanza che va ancora oltre quella acquistata nel ‘periodo di transizione’, nell’op. 78 e nell’op. 81 a”.
Così Dahlhaus[32]. Cerchiamo di approfondire. Il fattore subtematico, come lo chiama Dahlhaus, è costruito dalla cellula di intervalli caratteristici sui quali sono costruiti i temi. La cellula non è il tema, ma la base, le fondamenta del tema. Un tema, una melodia si caratterizzano per il loro ritmo, anche un movimento costante di crome è un ritmo, Bach vi costruisce molti dei suoi mirabili preludi. Invece una cellula tematica è una pulsione caratteristica o un intervallo particolare: la quinta vuota e il giambo nel primo tempo della Nona, associati in un unico impulso. Nell’op. 111 l’intervallo è la settima diminuita (e la quarta diminuita, che ne costituisce una sorta di analogo, per contrazione), anche qui associata al giambo. Ma tanto il tema che la cellula tematica da cui deriva partono da un elemento più astratto, una successione di intervalli, che costituisce lo scheletro, il diagramma sotterraneo di tutta la composizione: nell’ultimo tempo della Jupiter di Mozart la successione do re fa mi. E’ questo elemento che Dahlhaus chiama fattore subtematico. Non si comprendono gli ultimi lavori di Beethoven, non si entra per così dire nel suo laboratorio, se non si tiene presente questo suo modo di procedere. Sembrerebbe che Beethoven indietreggi alle radici del contrappunto, per approdare alle origini della polifonia, all’Ars Nova francese, al contrappunto matematico di Dufay, alle geometrie sonore di Ockeghem e Josquin. Ma non è così. Non sappiamo oltretutto se li conoscesse. Quanto gli serve lo trova già in Bach e in Haendel. Però non è un indietreggiare. Lo sguardo all’indietro verso la tradizione dalla quale si è nati è anche lo sguardo più lungo verso il futuro. Beethoven non imita i suoi predecessori: ne studia il pensiero, ne analizza i procedimenti. Haendel e Bach li sente suoi contemporanei, per il solo fatto che i loro procedimenti possono ancora fecondare nuovo pensiero musicale. Accade a lui ciò che era già accaduto al Bach dell’Offerta Musicale e dell’Arte della fuga:  sembra contrastare il moderno, per ribadire la tradizione antica, e di fatto scavalca la modernità effimera della moda per lanciarsi nell’esplorazione di ciò che sarà molto dopo il vero moderno. Indubbiamente Bach oppone i propri monumenti contrappuntistici a quello che ritiene il facile melodizzare galante, vale a dire la monodia accompagnata dell’opera italiana. C’è certo l’orgoglio dell’artefice, il disprezzo del magister musices per quei musicanti che gli sembrano nient’altro che superficiali dilettanti. Ma c’è anche la consapevolezza, non solo del compositore, bensì anche del luterano, che nel contrappunto risieda la serietà della musica. Un simile atteggiamento non è estraneo a Beethoven, che pure ha invece radici cattoliche. In Beethoven la serietà della musica è sentita come imperativo morale. Nella pagina non si possono truccare le carte, non si può mentire. L’integrità, l’onestà intellettuale di Beethoven è tra le più assolute dell’arte d’Occidente, se si pensa a un confronto si pensa a Dante, a Michelangelo, a Rembrandt (olandese! come le sue origini), a Cervantes. Ma in lui forse ancora più radicale. I deputati europei che hanno scelto l’Inno alla Gioia come inno dell’Unione non potevano scegliere simbolo più alto e più pertinente della civiltà europea, la cui identità più profonda sta proprio nell’ansia di universalità, di sfondamento delle barriere, di assimilazione degli altri, si pensi al ruolo della musica degli zingari nella musica spagnola e ungherese[33], in ogni caso: “seid umschlungen, Millionen”. Che Bach, comunque, guardasse lontano è dimostrato dal fatto che solo con l’innesto del contrappunto nell’impianto monodico dell’opera italiana si ha l’esplosione dello stile che siamo abituati a chiamare classico. Il primo a compiere l’innesto con estrema consapevolezza è Haydn, a lungo, anzi forse per tutta la vita, il modello più amato da Beethoven[34]. L’innesto non avvenne senza contrasti, senza urti o stridori né senza rischi. Il miracolo dell’equilibrio mozartiano resta appunto un miracolo, e del resto anche la musica di Mozart è percorsa sotterraneamente da squilibri e terremoti, che si avvertono alla superficie sotto forma di esasperato cromatismo e di spericolate dissonanze (Adagio della Sonata in la minore K. 310 o Andante della Sonata in fa maggiore K. 533, col rondò K. 494  ). Beethoven ritesse tutte le fila, fa i conti col passato e col presente, rifonda da capo uno stile, col senso non già di proporlo come definitivo, ma finale, ultimo[35], dal quale si può solo guardare avanti, e dal quale non si può tornare indietro. Monodia e polifonia non incontrano affatto una conciliazione, si scontrano. Ma è proprio in questo scontro che entrambe sono sentite necessarie, anzi che è sentito necessario lo scontro: lo scontro è la verità della musica in quella situazione, mascherarlo, camuffarlo, ammorbidirlo, sarebbe mentire. Né la melodia da sola, né il contrappunto, senza elaborazione tematica, possono costituire una via di uscita. Se mai l’elemento unificante viene riscontrato nella variazione. Variazione, variante, elaborazione a poco a poco per Beethoven diventano un unico procedimento e il contrappunto allora si presenta insieme come una forma di variazione e di elaborazione. Proprio l’op. 101 ne è un esempio mirabile. Nell’ultimo tempo, infatti, tutto lo spazio dell’elaborazione o sviluppo è occupato da una fuga.
Ma da che cosa nasce l’impressione che quando comincia la sonata, come scrive Dahlhaus, ci sembra di ascoltare non il primo tempo di una sonata, ma il tempo moderato, cantabile, che segue al primo o talvolta allo scherzo? Beethoven sfrutta fino in fondo l’abilità acquisita con l’op. 78, l’op. 90, nell’impostare temi cantabili. L’andamento pacato del tema rammenta certi attacchi mozartiani: K. 332 in fa maggiore, K. 333 in si bemolle maggiore, K. 533 in fa maggiore. Il fattore subtematico lo troviamo subito all’inizio, nella voce di contralto: mi, re diesis, re, do diesis, si. La sua inversione offre il profilo tematico alla seconda idea. Il ritmo sincopato delle battute 29-34, riproposto alle battute 37, 39-40, e ripreso nel passo analogo della riesposizione, è derivato dal ritmo del primo tema, mutilo della testa. Tutto il brano del resto è costruito attraverso minuziose corrispondenze. Il movimento base, nel tempo di 6/8, è costituito dalla semiminima seguita dalla croma, e tale ritmo innerva sia il primo che il secondo tema, al punto che del secondo non se ne percepirebbe né il momento dell’entrata né la differenza se il salto tonale a mi maggiore, campo armonico della seconda sezione dell’esposizione, non venisse preparato dalla variante ritmica del ritmo base, nella successione sincopata di accordi delle battute 29-40. Tutto il carattere del brano è bene espresso dalle indicazioni agogiche, in tedesco e in italiano, poste all’inizio: “Etwas lebhaft und mit der innigsten Empfindung[36]. Allegretto, ma non troppo”.
Il movimento successivo, in fa maggiore, è un tempo di marcia, come recita la doppia indicazione agogica, in tedesco e in italiano: “Lebhaft, Marschmässig. Vivace alla marcia”. La tonalità di fa maggiore si spiega come rapporto di tonica con una dominante do, che però in quanto tonica è il relativo maggiore di la minore, modo minore della tonica la, che nel modo maggiore è la tonalità della sonata. Il giro sembra un po’ lungo, ma diventa comprensibile se immaginiamo i campi armonici di la, do e fa in relazione tra loro. Il percorso verrà infatti chiarito dal breve, ma sublime, tempo lento che segue la marcia, il quale è nella tonalità di la minore. Il ritmo base della marcia è una diminuzione del ritmo del primo tempo: croma seguita da una semicroma. Innerva tutta la marcia. Nel trio tale ritmo viene per così dire dilatato: semiminima puntata seguita da due semicrome, a cui però fa seguito una successione di crome avviata, alle battute 56-57, da una figura di semiminima puntata seguita da una croma: occupa la prima metà della battuta 56 e tutta intera, ripetuta due volte, la battuta 57. Le quartine di crome sono una variante delle terzine di crome del primo tempo. La tonalità del trio è nel regolare grado della dominante di fa, si bemolle. Il fattore subtematico, per intero o a frammenti, nella forma originale e nella sua inversione, percorre da cima a fondo tutta la marcia, e si fa evidente, diventa quasi una figura tematica, soprattutto nel trio, che d’altra parte per più versi si presenta come memoria variata del primo tempo, anticipando così il riapparire tale e quale del primo tema del primo tempo che, dopo l’intenso e riflessivo respiro del tempo lento, precede l’irruzione vitalistica del finale. Tutta la sonata del resto è costruita con una coerenza, una fitta trama di corrispondenze che la rendono particolarmente compatta, il che tuttavia non comprime, ma anzi esalta l’inesauribile libertà dei procedimenti messi in atto: l’effetto di sorprendente (alla lettera: che desta sorpresa) varietà che la sonata genera nell’ascoltatore non è infatti in contraddizione con l’inflessibile unità della concezione tematica in quanto la varietà è generata non già dal dispiegarsi di idee diverse, ma dal moltiplicarsi degli aspetti imprevedibili che assume l’idea tematica fondamentale.
Ed ecco il sublime terzo movimento: “Langsam und sehnsuchtvoll. Adagio, ma non troppo, con affetto”. La traduzione italiana, dello stesso Beethoven, non rende bene il senso dell’espressione tedesca sehnsuchtvoll: pieno di nostalgia. E anche il termine nostalgia non rende bene il senso del termine tedesco, più complesso del termine italiano, anche se di solito la parola Sehnsucht si usa tradurla appunto con nostalgia. Se mai, è più vicina al senso del termine tedesco la parola inglese longing. Sehnsucht è parola composta dalle radici di due verbi: sehnen, anelare, da cui il sostantivo Sehnen, brama, desiderio, struggimento, e suchen, cercare. Quindi qualcosa come ricerca dell’anelito, ansia di rivivere il proprio desiderio. E’ parola assai cara ai tedeschi, infiamma tutto lo Sturm und Drang, e percorre da cima a fondo tutto il romanticismo fino a Wagner, che ne fa il tema centrale del Tristano, dove però il sehnen e la Sehnsucht aspirano a un originario regno della Notte, che è naturalmente la Morte. E’ probabile che la pagina beethoveniana lo abbia guidato nell’invenzione di quel terribile inno alla morte che è il Tristano, tutta percorsa com’è la straordinaria partitura, a cominciare dal preludio, di memorie beethoveniane: in particcolare dell’introduzione della Patetica, dell’op. 101, appunto, e dell’Adagio della Nona. Lo struggimento stürmisch e romantico della Sehnsucht, veramente, lo ritroviamo ancora in Mahler, in Berg, e perfino in Webern, oltre che nell’impossibile sogno del Cavaliere della rosa e del Capriccio straussiani. Ma è in Goethe, poeta amatissimo da Beethoven, che il termine acquista una complessità non solo emotiva, bensì anche filosofica, dalle mille facce, e viene quasi sempre associato alla passione, al soffrire, ma anche alla rinuncia, alla sofferenza della rinuncia che instilla in cuore il dolore del desiderio inappagato e inappagabile. E’ il nocciolo del Werther, ma anche dell’Egmont, tragedia per la quale Beethoven ha composto le musiche di scena, e soprattutto intride da cima a fondo le pagine del Wilhelm Meister e il personaggio di Mignon: “Nur wer die Sehnsucht kennt, weiss was ich leide[37]”. Lo stato d’animo che più si avvicina al concetto espresso dalla parola tedesca Sehnsucht è bene individuato da Aristotele in un suo trattatello famoso: è la malinconia, la meláine chóle, la bile nera, che il filoso addita non come termine sentimentale, bensì come termine medico, e come tale indica la sospensione della psiche tra diverse disposizioni emotive e riflessive, lo stato d’instabilità emotiva e intellettuale, che può precipitare l’individuo nella pazzia, ma che tenuto sotto controllo è lo stato ideale del filosofo e dell’artista. Tutti i filosofi e tutti gli artisti, dice Aristotele, sono malinconici[38].  Nel Rinascimento e nel Barocco la Malinconia diventa oggetto di riflessione, di poesia e viene raffigurata dai pittori: la figura di Amleto, ma anche di Don Chisciotte, e l’incisione del Dürer che s’intitola appunto La Malinconia sono tra gli esempi più alti di questa conversazione con la malinconia. Ebbene, l’intensità, la voracità, la profondità di questo stato d’animo, la sua terribile forza di verità, che ti mette a corpo a corpo con la vita, con la morte, con te stesso, è la sostanza di questa sublime pagina beethoveniana[39], del compositore che non si tira indietro, che non trucca le carte, che guarda in faccia la verità, fosse anche la verità della morte. L’ascoltatore sente spalancarsi sotto i piedi un abisso, che non è l’enfatico abisso del nulla, o una retorica immagine poetica, ma l’abisso di se stessi, Beethoven ti obbliga a guardarti dentro, a vederti non come vorresti apparire, ma come sei. E’ una pagina brevissima, appena 20 battute. Ed è costruita tutta quanta sulla figura di un abbellimento: il gruppetto. Parte, in la minore (alla fine capiremo perché), riproponendo il ritmo del primo tempo, ma suddiviso binariamente invece che ternariamente, e in ciò si riattacca alla marcia. Subito, però, al secondo quarto della prima battuta di 2/4, s’inserisce la figura del gruppetto, che dalla battuta 9 alla battuta 17 costituisce l’unica figura a condurre avanti il brano, una ripresa variata del ritmo d’apertura conduce a una cadenza leggerissima. derivata dalla figura del gruppetto, per espansione melodica (il procedimento sarà ripreso da Bartók). La cadenza sfocia nella ripresa del primo tema del primo tempo. E che ci fa questo ritorno dell’inizio? Una sospensione alla seconda battuta[40] (una pausa di croma coronata) interrompe però il procedere del tema, che si blocca un’altra volta sul primo quarto della quinta battuta, la pausa coronata questa volta è del valore di una semiminima. L’ultima figura, una terzina, si ripete stringendo, e conduce a un lungo trillo sulla dominante di la, mi, sotto il quale la sinistra batte il ritmo principale del tempo, altra trasformazione del ritmo del primo tempo, della marcia e dell’Adagio. Come sempre in Beethoven, soprattutto nel priodo tardo, il trillo ha una funzione e un effetto liberatori, e costituirà inoltre parte della costruzione tematica del tempo. Del resto il trillo assolve una funzione liberatoria proprio perché invece di essere un ornamento ha una funzione tematica, si pensi al trillo che attacca il soggetto della fuga dell’op. 106. Ma prima di esaminare l’Allegro finale, qualche parola ancora sull’Adagio. La tonalità di la minore, oltre a legittimare il fa maggiore della marcia, svolge anche la funzione di preparare il ritorno alla tonalità d’impianto della sonata, la maggiore, in maniera soffice, delicata, semplicemente alzando di un semitono la terza, procedimento che sarà molto caro a Schubert e che a Beethoven evita il ricorso al troppo enfatico ingresso con una settima di dominante. La tonica è già annunciata dall’Adagio, ma nel modo minore. L’ascoltatore è un’altra volta deviato. Perché l’accordo di apertura dell’Adagio, come accadrà nell’Adagio dell’op. 106, sembra orientarlo verso un’altra direzione. Beethoven attacca, infatti, il brano con l’accordo della dominante di la, mi, ma con sol diesis al basso, (un’altra volta, in Beethoven, la dominante ribadisce la tonica, non avvia ad altri gradi), tale accordo è identico sia nel modo maggiore che in quello minore. Il sol diesis grave, invece di risolvere sul la, e rivelarsi per quello che è, la sua sensibile, devia sul si, che s’unisce al re della mano destra. Poi, sul secondo quarto della battuta, scende al la e appare finalmente la triade di la minore. La cadenza sembra ripetere a specchio quest’andamento armonico. Ma questa volta per portarci alla tonalità definitiva di la maggiore, la tonalità d’impianto della sonata.
“Geschwind, doch nicht zu sehr, und mit Entschlossenheit[41]. Allegro“, scrive Beethoven sul lungo trillo di dominante. Il ritmo deriva da quello della marcia. Ma ha il suo nucleo generatore nel tema del  primo tempo. Così come si presenta nel finale, se ne ha una prefigurazione alle battute 20-28 del primo tempo. Caratteristica del tema del finale è, come avverrà per il tema del primo tempo dell’op. 111, la sua ambiguità: più che un tema, sembra il soggetto di una fuga. Ciò deve preparare l’ascoltatore ad aspettarsi un brano di fitta elaborazione contrappuntistica. Il che di fatto avviene, ma chiarisce anche, d’altra parte, che il carattere dell’intera sonata è contrappuntistico, nel senso che l’esplicitarsi del contrappunto nel finale illumina a ritroso quanta parte abbia avuto il contrappunto nella costruzione di tutti i tempi della sonata. Non solo: anche un orecchio distratto coglie l’affinità tra l’andamento sincopato delle battute 44-48 e gli accordi che preparano l’ingresso di mi maggiore nel primo tempo. Così come afferra la somiglianza della figura di tre crome alle battute 50 e 52, e la figura predominante dei due temi del primo tempo, compresa l’anacrusi delle battute 49 e 51. Nella battuta 51, anzi, l’anacrusi è preceduta dal bicordo sul secondo ottavo, di modo che tutta la successione delle battute 44-51 si presenta come una sintesi dei caratteri principali del primo tempo. La seconda sezione dell’esposizione, o secondo tema (ma distinguere i temi in una sonata come questa non solo è vano esercizio scolastico, ma non rende ragione dei reali processi messi in moto da Beethoven), trae il proprio ritmo dalla marcia, ma poi il conseguente si distende sullo stesso ritmo del tema di apertura, esposto in maniera più graziosa. Ciò rende palese l’affinità tematica delle due sezioni. O meglio: tutta la sonata consiste nel progressivo espandersi e trasformarsi di un’idea tematica originaria, che non è detto sia quella che si presenta per la prima volta, potrebbe essere questa sua apparizione nel finale l’idea definitiva e compiuta verso la quale tende l’intero lavoro del compositore. Il fattore subtematico, allora, funzionerebbe da collante. Tale fattore in questa seconda sezione è spudoratamente esibito alle battute 81-88, col ritmo della marcia. Alla battuta 123 (236, se si considera la ripetizione dell’esposizione) comincia lo sviluppo. Qui troviamo un’altra sorpresa, tra le molte di questa sorprendente sonata. L’intera sezione dello sviluppo è realizzata da una fuga che va dalla battuta 123 alla battuta 231. Beethoven ci ha abituato fin dalle opere giovanili a sviluppi molto originali, in qualche maniera anomali, sia dal punto di vista armonico che tematico. Ma qui supera se stesso: Lo sviluppo non è una zona di libera e divagante elaborazione armonica e tematica, bensì il punto di maggiore concentrazione del brano, il momento in cui la forma della sonata si raddensa nella chiusura di un’altra forma e l’accoglie, l’assimila, ne fa un momento decisivo del proprio percorso. Ma si badi: non come brano staccato, che la concluda: gli esempi abbondano in Haydn e in Mozart e nello stesso Beethoven, prima dell’op. 101, per esempio nel terzo Quartetto Razumovskij, op. 59 n. 3. Qui la fuga è la sezione interna di un movimento della sonata. Che vuol dire? Cerchiamo di dare una spiegazione, anche alla luce di quanto poi Beethoven andrà componendo dopo l’op. 101.
Si è visto che Beethoven tende a privilegiare l’elaborazione progressiva di un’idea tematica sulla determinazione chiara e impostata già dall’inizio di uno o più temi, e ciò fin dalle opere giovanili (è importante insistere su questo punto: il cosiddetto stile tardo non è una novità, un fungo che appaia all’improvviso, ma l’estremo sviluppo di un atteggiamento, l’evidenziarsi di una tendenza più o meno latente fin dagli anni giovanili). Ebbene, a un certo punto (abbastanza presto, a dire il vero, si pensi all’op. 26, del 1801) la variazione gli appare il veicolo principale o comunque il più duttile di questa concezione nuova dell’elaborazione tematica. Ma poi gli pare anche troppo meccanica, troppo semplicistica. Le variazioni dell’ultimo tempo dell’Eroica segnano il passaggio a un’altra concezione. La variazione è essa stesa elaborazione tematica e viceversa. Avviene un corto circuito. Subentra l’idea di variante o, se si preferisce, di libera variazione: le ultime tre variazioni dell’Arietta dell’op.111 ne sono l’estrema sublimazione. Ovvio che l’elaborazione contrappuntistica venga a inserirsi in questo processo. E’ probabile che dal flusso di tante idee nuove Beethoven si sentisse soffocare. Non nel senso psicologico, ma riguardo alla scrittura, alle strategie del comporre, perché vede aprirsi una costellazione illimitata di procedure, e poté forse sentirsi spaventato dalle conseguenze che tali idee gli facevano intravedere. Ribadisco una norma generale di lettura: un’opera non la si comprende appieno, se si resta ancorati alla percezione dell’opera. Certo, la percezione è importante, e ne va tenuto conto. Il primo a tenerne conto è proprio il compositore. Ma poi c’è l’altra faccia. Passare dall’altra parte. Investigare sulla genesi dell’opera. Entrare nel laboratorio del compositore. In questo, l’analisi ci è di ausilio prezioso, ma non unica, né decisiva. Boulez sostiene che la comprensione di un’opera avviene sovrapponendo il proprio labirinto emotivo e intelletuale al labirinto emotivo e intellettuale di chi ha scritto l’opera[42]. E’ un’idea affascinante. E con Beethoven funziona a meraviglia. Proviamo a entrare in questi due labirinti: il nostro, di noi che interroghiamo Beethoven, e quello di Beethoven, che dietro la facciata dei suoi edifici sonori a sua volta c’interroga su chi siamo e che cosa vogliamo. La fuga è una forma chiusa. Che vuol dire, dunque, inserire una fuga nella sezione dello sviluppo ch’è la sezione più aperta della sonata? Vuol dire una cosa semplicissima: nessuna forma è chiusa, nessuna forma è data una volta per tutte. L’Infinito di Leopardi è un sonetto anche se non è un sonetto. Il suo spazio poetico è quello del sonetto. Mancano le rime. E allora? La forma dell’Infinito non si spiega se non in relazione alla forma chiusa del sonetto. Di più: il suo senso, il suo significato, la concentrazione di idee e immagini, sono il senso, il significato, la concentrazione di idee e immagini di un sonetto. Non a caso è il momento della poesia leopardiana in cui ci pare di vedere maggiormente in atto la stessa operazione con cui più tardi Baudelaire apre il moderno: calarsi nella forma della tradizione per dire, però, con una lingua in cui si mescolano tradizione e presente, l’oggi. La lingua del momento era per Beethoven l’elaborazione tematica nata dalla trasformazione dell’invenzione tematica dell’opera buffa, che Haydn, Mozart e lui stesso avevano modellato in materiale per la nuova musica strumentale. Ma non gli bastava più. Come a Leopardi non bastava il sonetto, che pure a Foscolo, per dire il moderno, era bastato, e l’aveva espresso con un’intensità che ha un parallelo solo in Goethe, il quale, comnque, come Leopardi, travalica le forme della tradizione. Forse stiamo per cogliere il segreto di Beethoven. L’idea, cioè, che il massimo di libertà coincide con il massimo di rigore. Che idee, concetti, forme che il senso comune giudica opposti sono le due facce della stessa cosa. La fuga è questa libertà che si fa forma imbrigliata, ordine calcolato. Il senso della sonata, la sua tensione tra la libertà dell’espansione melodica, la rifrazione dei piani armonici e il severo controllo del contrappunto acquistano qui, nel punto in cui la forma dovrebbe incrinarsi, aprirsi, il punto di maggiore coesione. Beethoven farà qualcosa di analogo nello sviluppo del primo tempo dell’op. 130: la tensione dell’esposizione trova proprio nella sezione dello sviluppo la liberazione melodica, il dispiegarsi cantabile di un nuovo tema, che in realtà è la faccia aperta e distesa di quanto prima appariva intricato e convulso. Già nell’op. 10 n.1 abbiamo colto Beethoven nell’atto di dispiegare nuove idee tematiche proprio nella sezione dello sviluppo, e rendere dunque stabile ciò che per sua natura dovrebbe apparire instabile. Nell’Allegro finale dell’op. 101 il senso di stabilità si coniuga, però, con la tensione di una fitta elaborazione contrappuntistica. Ma questa volta il contrappunto non insinua irrequietezze, sembra consolidare le certezze raggiunte, o piuttosto fortificare il senso di pace, di gioia, di dissidio risolto, che sembra costituire il nucleo poetico di tutta la sonata. Il passo gioioso della riesposizione può così condurre al magnifico trillo misurato, quartine di semicrome, che sorregge, al basso, la progressiva dispersione dell’inciso tematico per sfociare nei festosi accordi di tonica che chiudono il tempo.


Quartetto op. 130 in si bemolle maggiore.

Gli ultimi cinque quartetti, all’interno della serie dei quartetti, costituiscono un gruppo a sé, così come le ultime cinque sonate all’interno della serie delle sonate. Esistono perfino delle corrispondenze, non tanto tematiche, quanto di procedimenti compositivi, così come delle congruenze armoniche: la tonalità di si bemolle maggiore, per esempio, in entrambi i gruppi è scelta come campo armonico della sperimentazione più ardita, dal punto di vista dell’elaborazione tematica, ma anche della più compatta coesione strutturale: op. 106 e op. 130. Anche gli ultimi cinque quartetti, come le ultime cinque sonate, sono preceduti da opere dal carattere divagante, melodico, in cui Beethoven sembra scegliere la via che sarà poi quella imbroccata da Schubert: op. 74 in mi bemolle maggiore e op. 95 in fa minore (la tonalità della sonata op. 57, la cosiddetta Appassionata, con la quale il quartetto ha qualche parentela tematica, ma soprattutto di carattere espressivo)[43]. E anche nei quartetti, come nelle sonate, Beethoven fa tesoro di quell’espansione melodica, ch’era stata di Mozart, miracolosamente ritrovata, sebbene per quanto riguarda i quartetti, l’espasione melodica è raggiunta subito, già nell’op. 18, ma soprattutto nel sublime trittico dell’op. 59, si pensi al meraviglioso attacco del primo, in fa maggiore. Del resto, probabilmente è il suono particolare degli strumenti ad arco che spinge Beethoven a individuare in un’aperta cantabilità il principale carattere dei temi affidati a questi strumenti. Vedi soprattutto il concerto op. 61 in re maggiore per violino (nel quale, però, l’espansione cantabile nasce da un impulso ritmico), opera contigua d’altra parte ai quartetti op. 59, e la sonata op. 69 in la maggiore (la stessa tonalità dell’op.101) per violoncello e pianoforte. Le due opere che precedono quest’ultima sonata sono, incredibilmente, le sinfonie quinta, op. 67, e sesta, op.68, Pastorale, opere non solo diversissime tra loro, ma contrastanti, soprattutto la quinta, tanto con il carattere dell’op. 59 che dell’op. 61 che dell’op. 69. E’ indubbio pertanto che la scelta del campo armonico ha per Beethoven una forza caratterizzante, nel senso che la tonalità d’impianto prescelta guida l’invenzione tematica e perfino la strutturazione dell’opera, il che del resto è congruente col fatto che per Beethoven una tonalità constituisca un campo amonico dalle molteplici ramificazioni. Sorprendeti da questo punto di vista le affinità tra l’op. 106 e l’op 130. Entrambe le opere si aprono con un primo tempo monumentale, sostituiscono lo scherzo, o comunque il tempo di danza, con un tempo insieme conciso e visionario, allucinato, tuttavia di tempo ternario nell’op 106, binario nell’op.130 (ma nell’op. 130 la danza riappare sotto forma di danza popolare, ingenua, si direbbe, ma non ingenua come sarà poi nello spirito romantico, bensì in quel gusto arcadico (come del resto anche la Pastorale) tipicamente illuministico, improntato a un carattere semplice, naturale, leggero: alla danza tedesca). Entrambe poi si concludono con una immensa, titanica fuga. Che Beethoven poi, cedendo alle pressioni dell’editore, la sostituisse con un  nuovo finale, nulla toglie al fatto che la concezione originaria prevedeva come conclusione del quartetto una fuga. E Beethoven, con il nuovo finale, scrive un altro capolavoro, che oltretutto illumina retrospettivamente con una luce nuova, festosa, gioiosa, umoristica, l’intero quartetto. Ma se Beethoven riesce a concludere lo stesso in maniera magnifica il quartetto sostituendo un altro finale a quello originariamente pensato e scritto, resta il fatto che lo fa controvoglia (che meraviglie però produce Beethoven anche controvoglia! sembra quasi che la stizza di dover cambiare il finale lo provochi a scrivere un pezzo irridente, beffardo, amaramente scherzoso). In ogni caso la Grande Fuga restò per lui sempre il vero finale del quartetto. E a ragione: non tanto perché con il nuovo finale il quartetto non funzioni (funziona anzi benissimo!), ma perché da sola la Grande Fuga è come un frammeno strappato alle rovine di qualche pagina dispersa, il frammento d’un fregio greco perduto, o d’una poesia di Alceo. Le ragioni della sua struttura restano campate in aria, in bilico sull’abisso di ciò che non c’è. Certo si gode lo stesso: è bellissima (ma perché? l’adagio sublime dell’op.106, da sé solo non è ugualmente godibile?). Non sta qui il punto. E’ che un ascolto puramente edonistico di un’opera di Beethoven la mutila, ne fa percipire solo la superficie. Non che manchi in Beethoven, come livello della percezione dell’opera, anche il piacere dell’ascolto, anzi talora tale piacere è programmato dallo stesso compositore, in maniera qualche volta perfino impudica: tanto per restare nell’ambito delle opere qui esaminate, l’Adagio molto dell’op. 10 n. 1. I livelli di ricezione, per Beethoven, come per qualunque grande artista (ma il discorso in realtà vale per qualsiasi musica ben fatta, anche per un canto popolare) sono molteplici. Il punto sta nel fatto che in Beethoven i diversi livelli sono inestricabilmente e indissolubilmente legati. Si potrebbe opporre che ciò è vero anche per Mozart o per Rossini o per Wagner. Vero. Ma per Beethoven c’è un elemento in più: il piacere dell’ascolto è volutamente ottenuto proprio con l’intrecciarsi intricatissimo dei livelli strutturali dell’opera. I confronti possibili potrebbero essere indietro Bach e avanti, per quanto la cosa possa sembrare strana, la Carmen di Bizet[44]. Forse adesso si chiarisce il senso di quell’attributo ingenuo sfuggito alla mia nervosa digitazione sulla tastiera del pc a proposito del 4° tempo alla danza tedesca dell’op. 130. E’ un’ingenuità riflessa, di secondo grado, un come se del sentimento, un guardare di traverso, un porsi di sguincio, che all’ascolto non dà la cosa, ma il suo rispecchiamento consapevole di essere solo un rispecchiamento, non la cosa, bensì la sua immagine riflessa in uno specchio, lo specchio del comporre: in parole povere, anche quando Beethoven finge (in realtà non finge affatto, perché prende sul serio la finzione) l’ingenuità, l’immediatezza, non c’è mai né l’una né l’altra, bensì il loro rispecchiamento nel gesto compositivo. L’agire di Berg non è diverso, la canzone viennese e il corale di Bach nel finale del Concerto per violino. Ma: e Bartók? Chi sa perché quando compone il suo primo quartetto ha presente come modello proprio l’op. 130 di Beethoven. Uno degli equivoci maggiori nella comprensione della musica di Bartók nasce sul senso e sul carattere dell’assunzione (e spesso invenzione) di temi popolari. Come se Bartók facesse folklore o scrivesse musica per una compagnia di danzatori in abiti tradizionali ungheresi che si esibiscono per i turisti. Et voilà: à vous l’ Hongrie. Quando affermo che Beethoven è il primo dei compositori contemporanei, o se non altro del novecento, non dico una boutade o almeno non nel senso che l’affermazione vada presa come una metafora, un calcare la mano: no, va presa sul serio, dice quello che dice, Beethoven compone già nel modo come comporranno i compositori del tardo ottocento e del primo novecento (ma mi spingerei più in là: credo che la Seconda sonata per pianoforte di Boulez debba molto al modello dell’op. 106 di Beethoven). E probabilmente nel pieno dell’eruzione romantica c’è almeno un compositore che coglie perfettamente, molto più di Wagner, il carattere avveniristico della musica di Beethoven: Franz Liszt. Ma per quest’aspetto rinvio il lettore alle bellissime pagine che Dahlhaus dedica a Liszt nel suo libro sulla musica dell’ottocento[45]. Il carattere riflesso, al quadrato, della semplicità (come poi il primitivo di Stravinsky o l’ammiccamento galante di certe pagine del periodo neoclassico. L’Ottava di Beethoven conosce già tali atteggiamenti, e questo sono: atteggimenti) assume insomma la pregnanza o, per così dire, il senso allusivo, che aveva nella poesia del rinascimento la sprezzatura, l’artificio che modifica la natura del verso o della prosa (ma in pittura c’è qualcosa di analogo: Correggio, certi manieristi) al punto di mostrarsi più naturale della natura stessa, il cui capolavoro è l’Aminta del Tasso, ma se si vuole anche il Don Chisciotte. Il naturale, il popolare, e quant’altro, insomma, non sono mai il vero, bensì lo stile del vero. La terra trema di Luchino Visconti è forse il più bel film del neorealismo proprio perché non è affatto neorealista, non prende sul serio la riproduzione della realtà, ma sì lo stile della riproduzione della realtà. In tal senso il film non ha pochi contatti con l’espressionismo tedesco, contatti che si faranno più evidenti, anche per la pressione del soggetto affrontato, nel film La caduta degli dei. Ma stiamo andando troppo lontano. Il confronto tra generi, epoche, arti, artisti così diversi e lontani tra loro, non nasce comunque da una voglia di assimilazione, di omologazione delle arti a qualche modello contenutistico o di ipotesi psicologiche sulle intenzioni dell’artista, si diverta la sociologia dell’arte in queste sterili elucubrazioni, ciò che invece si vuole suggerire è che le affinità tra un’epoca e un’altra, tra un compositore e un altro, si possono riscontrare non già sulla superficie dello stile (come facevano i meno avvertiti dei compositori neoclassici), ma nel profondo della struttura di un’opera tra modi di strutturarla. Non c’è niente in comunque tra l’Ars Nova francese e le neoavanguardie del secondo dopoguerra del novecento: ma tra Machaut e Boulez o Stockhausen è comune l’idea che un’opera si possa preparare, programmare, progettare e quindi predefinire con una griglia elaborata astrattamente a tavolino. Anche Beethoven è ossessionato dalla volontà di conferire unità organica all’opera, e anche lui ricorre a modelli astratti, ma per vie tematiche: procedimento ignoto tanto a Machaut che, almeno in parte, alle neoavanguardie, che addirittura ne facevano anzi un bersaglio polemico (ma se riesce difficile individuare veri e propri temi, non si può negare che esistano nelle loro composizioni altri elementi o fattori che ne sostituiscono la funzione). Torniamo al’op. 130. Guardiamo la distribuzione tonale dei movimenti.
La successione tonale è così concepita:
1. si bemolle maggiore 2. si bemolle minore 3. re bemolle maggiore 4. sol maggiore 5. mi bemolle maggiore 6. si bemolle maggiore.
Tra primo e secondo movimento la tonica resta fissa, cambia il modo, da maggiore a minore. Il terzo movimento è nel relativo maggiore del secodo, ma è anche la mediante minore della tonalità d’impianto del quartetto. Con il che viene chiamato in causa il rapporto di terza, centrale nella struttura armonica di tutto il quartetto, ma tipico un po’ di tutto Beethoven, in particolare nel periodo tardo (cfr. op. 106, ma già op. 10), rapporto che entra in causa anche negli slittamenti da un modo all’altro, dato che è la terza, minore o maggiore, a decidere il modo[46]. Il quarto intona nel modo maggiore la tonica del relativo minore della tonalità d’impinato, sol, con un cambiamento, tra terzo e quarto movimento, speculare al passaggio tra il primo e il secondo. Un uguale slittamento dal modo minore a quello maggiore si ha con il mi bemolle maggiore del quinto movimento, relativo maggiore di do minore, di cui sol è la dominante, e come sempre in Beethoven la dominante afferma la tonalità della sua tonica. Il che spiega il ritorno a si bemolle, dominante di mi bemolle, nell’ultimo novimento.
Se adottiamo il concetto schoenberghiano di regione, il campo armonico del quartetto appare così stabilito:


Fa (dominante maggiore/minore)

Re (mediante maggiore/minore)
Si b (maggiore/minore)
Sol (tonica del relativo minore, in alternanza col modo maggiore)

Mi b (sottodominante maggiore/minore)
Do b/si (2° grado abbassato: sesta napoletana, sol b/fa #

Il primo tempo stabilisce già nell’impostazione tematica un contrasto agogico: Adagio – Allegro. Potremmo in realtà individuare nelle prime 24 battute, che stabiliscono tale contrasto, una sorta d’introduzione, e in effetti tali battute hanno una funzione introduttiva, ma non nel senso tradizionale di preparazione dei temi che verranno esposti o del clima armonico del tempo, una esposizione di tal senso, e magistrale, è quella della Quarta Sinfonia[47]. Già, però, le introduzioni dell’op. 13 e dell’op. 111, entrambe in do minore, pur coprendo lo spazio formale di una vera e propria introduzione, e per di più, cosa insolita, introduzione a un tempo di modo minore, impongono all’ascoltatore idee circostanziate, individuabili, da cui scaturiscono non solo i temi del tempo che segue, ma addirittura le premesse della loro storia. Nella scala cromatica discendente da si bemolle a sol, esposta dal primo violino, troviamo l’idea subtematica dell’intero quartetto. Non è l’idea tematica, si badi, il quartetto anzi pullula di molte idee differenti. Ma è, come dire, la materia, lo sfondo, sul quale sono costruite tutte le idee del quartetto, o per derivazione o per associazione o per contrasto. Non è difficile riconoscerne la matrice: il nome Bach. Trasportando infatti il semitono la bemolle sol una terza sopra si avrà la successione si bemolle la naturale do si naturale, appunto BACH. Su questi semitoni, diversamente giocati, sottoposti a inversioni, e via dicendo, sono costruiti tutti e cinque i quartetti. E’ Beethoven stesso a confessarlo, del resto, scrivendo a Holz: “Caro amico, ho avuto un’altra ispirazione, ma sarà per l’altro Quartetto ancora, il prossimo ha già troppi movimenti”. L’“altro Quartetto” è l’op. 131, “il prossimo” è il nostro op. 130. Ma il messaggio ci conferma che la concezione dei cinque quartetti nasce da un’unica idea di fondo. Ma ancora più sconvolgente si rivela all’analisi l’unità programmatica di questo primo tempo. L’intero tempo è composto di 54 gruppi di battute, ogni gruppo l’unità minima differenziata, si potrebbe chiamarlo inciso, ma non è la stessa cosa. La prima parte, introduzione, esposizione, introduzione allo sviluppo, ne comprende 27, la seconda, sviluppo, riesposizione e coda, gli altri 27. Essi sono così distribuiti[48]:

I parte                                                                                      II parte

Introduzione                                                   6                      Sviluppo                                        6

Esposizione:                                                                            Ripresa:

Prima sezione principale                                  6                      Prima sezione principale                6
                                                                                                Modulazione e introduzione

Modulazione e introduzione                           3                      Seconda sezione principale           3

Seconda sezione principale                             3                      Seconda sezione principale           3

Prima e seconda sezione di chiusura con        6                      Prima e seconda sezione di           6
transizione                                                                               chiusura con transizione

Introduzione allo sviluppo                              3                      Coda                                             3

L’intero tempo è dunque diviso in due parti di 27 gruppi ciascuna. Ma sembra che Beethoven abbia cercato un equilibrio proporzionale basato sul numero 3 (nelle Variazioni sul valzer di Diabelli cercherà la sezione aurea). I gruppi si corrispondono perfettamente nelle due parti. Ai 6 gruppi dell’introduzione, nella prima parte, corrispondono i 6 dello sviluppo, nella seconda parte. Ai 3 dell’introduzione allo sviluppo i 3 della coda. In mezzo i 18 gruppi dell’esposizione e della ripresa. Pertanto l’intero tempo appare diviso in 3 parti di 18 gruppi: la prima comprende l’esposizione, la seconda la ripresa, e la terza è divisa tra l’introduzione, l’introduzione allo sviluppo, lo sviluppo e la coda. Ma ciascuna delle tre parti di 18 gruppi è a sua volta suddivisa in due parti di 9 gruppi, ciascuna parte di 9 come segue: l’esposizione in 2, una di 6 + 3 e l’altra di 3 + 6, la ripresa ugualmente in 6 + 3 e 3 + 6, nella terza parte la prima metà in 6 + 3 (introduzione e introduzione allo sviluppo) e la seconda anche in 6 + 3 (sviluppo e coda). Il centro cade esattamente tra l’introduzione allo sviluppo e lo sviluppo, e dunque non ai due puntini di replica dell’esposizione, ma 12 battute dopo, tra la battuta 103 e la battuta 104. La parte che comprende i 18 gruppi dell’introduzione, dell’introduzione allo sviluppo, dello sviluppo e della coda, è divisa tra l’inizio, il mezzo e la fine del tempo e si corrispondono perfettamente. Il senso di profondo equilibrio che emana da questo pezzo nasce anche dalla perfetta calibratura delle sue parti. Ma ancora più interessante risulta riscontrare quale percorso armonico si compia nelle varie parti. Una prima sommaria analisi individua quattro ambiti tonali (in realtà tre, col ristabilimento della tonica di partenza) così distribuiti:

                                                                        I                       II

                           Si bemolle                            6                      6                            Re
6                                            6
3                                            3
                           Sol bemolle                          3                      3                            Si bemolle
6                                            6                           
3                                            3

Ma tanto il sol bemolle dell’esposizione che il ritorno alla tonalità d’impianto della ripresa sono preparati, il sol bemolle da fa (dominante di si bemolle) e il si bemolle da re bemolle. Di modo che l’intero quadro ruota da si bemolle a fa a sol bemolle a re a re bemolle e infine di nuovo a si bemolle.
Anche in questo quartetto Beethoven cerca per il cosiddetto secondo tema, o seconda sezione, un’alternativa alla dominante, che sarebbe fa, e lo soccorre la sua propensione napoletana, innalzondosi di un semitono al fa diesis, e trasformandolo, con scambio enarmonico, in sol bemolle, il che gli permetterà nella seconda parte d’introdurre l’ambito di re bemolle.

                                                                        I                       II

                           Si bemolle                            6                      6                            Re
6                                            6                           
                           Fa                                         3                      3                            Re bemolle
                           Sol bemolle                          3                      3                            Si bemolle
6                                            6
3                                            3

Nell’esposizione dell’introduzione e del primo tema, o piuttosto prima sezione[49], viene ribadita ripetutamente l’alternanza di tonica e di dominante. Ecco perché poi la dominante fa, per la seconda sezione, viene sostituita da sol bemolle. Al solito, per Beethoven, la dominante ribadisce la tonalità d’impianto, per uscire dal suo ambito bisogna cercarne un altro, e quale migliore di quello della sesta napoletana (alternativa alla prediletta terza)? Va solo aggiunto che, dato che l’esposizione viene ripetuta due volte, anche dal punto di vista esteriore, della prima impressione percettiva, il tempo è diviso in tre parti. L’analisi della costruzione del tempo, a questo punto, è lasciata al lettore. Con l’avvertenza che, se vuole, e se è esperto di lingua tedesca, può trovarla dettagliata nel citato numero di Musik-Konzepte.
Ma, prima di passare al secondo movimento, mi sia permessa una digressione. L’ascoltatore ingenuo, ammesso che ce ne siano, percepisce, ascoltando questo meraviglioso tempo di quartetto, due impressioni contrastanti: da una parte un senso di irrequitudine (ritmica, armonica, agogica) irrefrenabile, e dall’altra, alla conclusione, un senso di inossidabile equilibrio, una tranquillità spirituale che non si sa da che cosa nasca. Ebbene, sono vere entrambe le impressioni. L’equilibrio, come s’è visto, è cercato, voluto, costruito. Ma costruito con che cosa? Con un materiale ritmicamente, armonicamente, melodicamente, agogicamente discontinuo. Sta qui il segreto del laboratorio beethoveniano (visionariamente affine a tanti compositori del xx secolo, o piuttosto, dai compositori del xx secolo finalmente capito): che l’armonia si raggiunge solo sfidando il caos. O, in altri termini,  che la razionalità non è soffocare, comprimere, l’irrazionale, ma dargli una forma. Francamente, nessuno prima di lui l’aveva fatto: né il divino Mozart, troppo preoccupato della forma per indagarne i contenuti nascosti, né il tutt’altro che olimpico Haydn, che aveva intuito la spaccatura, ma non aveva voluto guardarla. Beethoven vi affonda dentro. E se ne assume il compito: dire che la spaccatura c’è. Dopo di lui, nessuno di noi può più guardare il mondo con sguardo innocente. Ecco perché, per dirla con Liszt, esistono compositori che si ammirano e altri che si amano o si odiano. Beethoven è di quelli che si amano o si odiano: ma amarlo richiede l’operazione preliminarle di capirlo, e capirlo ci spoglia di tutte le nostre false certezze. Mozart può illuderci, Haydn catturarci, Beethoven ci chiede di confrontarci con la nostra coscienza. Ma il gioco vale la candela: vi assicuro che come guida della coscienza è superiore perfino al Virgilio della Commedia. Col quale comunque ha più di un punto di contatto: nel senso che, come Dante, ci obbliga a un confronto senza menzogne con noi stessi. La sua ultima sinfonia insiste sul fatto che “alle Menschen werden Bruder”, tutti gli uomini diventano fratelli: in un’epoca di contrapposizioni (come la sua) e di reciproche sopraffazioni non è poco.
L’idea, comunque, di questo primo tempo, non sta tanto nel contrasto di due temi, quanto nel fatto che ciascun tema è costruito su un contrasto. Da qui la distanza armonica, che da una parte cela la somiglianza, dall’altra invece la esalta.  Perché se si bemolle e sol bemolle sono tonalità lontane (ma reciprocamente affini in un campo armonico che non sia solo quello del circolo delle quinte), proprio questa lontananza rende evidente la somiglianza della strutturazione ritmica. E Beethoven è un mago del ritmo. Ma anche un mago dell’invenzione tematica: tutta l’intera sezione dello sviluppo è occupata da un tema nuovo: in realtà è facile derivarlo da figure già presentate nell’esposizione, ma il punto non sta nel fatto che la sua costruzione non interrompa la salda e omogenea invenzione del tempo, bensì appunto nel fatto di apparire, di essere udito come nuovo. Un’altra volta Beethoven, come già nell’Eroica, smentisce coloro che pretendono di ricavere proprio dalla sua opera regole sulla costruzione della sonata: proprio quando ci si aspetterebbe di udire una fitta rielaborazione dei temi esposti, ecco invece che Beethoven, con un gioco di prestigio, tira fuori dal cappello un tema vestito a nuovo. Perché lo fa? Per sorprendere l’ascoltatore? In realtà il proposito è un altro (anche se comunque l’effetto sorpresa, in un quartetto che è tutto una serie di sorprese, è calcolato): si tenga conto che per Beethoven un tema è una figura instabile, in movimento, che fa spesso agire al suo interno, come in questo stupendo primo tempo, una grande tensione, ed entra inoltre in tensione anche con le altre figure tematiche del tempo. Ora, sulla tensione interna di ciascun tema e sui contrasti dei temi tra di loro, Beethoven ha molto insistito per tutta la durata dell’esposizione, addirittura contrapponendo due movimenti agogici contrastanti, AdagioAllegro, all’interno di un singolo tema. E allora la sezione dello sviluppo metterà in moto un altro tipo di tensione, presentandosi non già come l’area più movimentata, bensì come la zona apparentemente più tranquilla del tempo. Ma un andamento tranquillo in Beethoven cela sempre un altro tipo di tensione, che non sia quella ritmica o armonica. Intanto è già un bel contrasto che dopo tanta agitazione ritmica e armonica subentri una sezione relativamente calma. Ma si tratta poi veramente di un momento di calma? La programmazione del tempo, delle durate d’ascolto, in questo quartetto, è semplicemente magistrale: ed è proprio a questo che pensa Beethoven, alla scansione dei tempi tematici, vale a dire all’articolazione dei pensieri musicali. Si tocca con mano, anzi con l’orecchio, quanto la musica sia diventata nelle sua mani intellettuale, una forma di pensare. Non che Bach o Mozart non siano anch’essi compositori che pensano, soprattutto il primo (ma anche Mozart non scherza!), ma il punto è che in Beethoven la musica s’impone di per sé come pensiero, come atto del pensare, ed è per questo che può proclamare messaggi. Ritornando allo sviluppo di questo primo tempo, l’ascolto coglie un’effusione cantabile nuova, e ci azzecca, perché qui appare, con evidenza, il nucleo da cui poi nascerà la Cavatina, che comunque deriva dalla figura del primo violino, all’inizio del tempo. Il ritmo si fa cullante. E, pima il violoncello, poi il primo violino, intonano una dolcissima e struggente melodia, dapprima in sol maggiore, poi in do minore. Bemollizzandone la sensibile Beethoven ritorna a si bemolle maggiore e attacca la ripresa.
Veniamo al secondo movimento. Beethoven lascia immutata la tonica, ma cambia il modo (Schubert avrebbe fatto lo stesso). Ma la tonalità di si bemolle minore si giustifica anche come lontana proiezione del re bemolle maggiore del primo tempo. Le relazioni armoniche tra i vari tempi di una sonata o di un quartetto di Beethoven sono complesse. In ogni caso, questo Presto è uno dei pezzi più allucinati mai scritti non solo da Beethoven. Intricatissimo il legame ritmico tra i quattro strumenti. Di fatto ogni strumento ha un ritmo diverso. Il ritmo che risulta all’ascoltatore è la combinazione di questi quattro ritmi diversi. Ed è sconvolgente. Un secolo prima di Stravinsky. Se insisto su queste anticipazioni, non è naturalmente per mettere in risalto la fantasia visionaria di Beethoven, ma al contrario per individuare nella sua musica una delle matrici della musica del novecento. Ma già nella seconda sezione, dalla battuta 17, senza contare le repliche, il ritmo muta configurazione e si fa ritmo binario con suddivione ternaria (da 2/2 a 6/4). E questa volta scandito insieme dai quattro strumenti. L’alternaza dei due ritmi, e di poliritmia polifonica e omoritmia monodica, caratterizza l’intero tempo.
Arriviamo così all’apparentemente scherzoso Andante con moto ma non troppo, in re bemolle maggiore (ancora!), ma con un’ambigua partenza in cui compare dapprima un si doppio bemolle e poi un la naturale, quasi a proseguire il si bemolle minore del tempo precedente. Poi il brano si assesta su un tranquillo la bemolle maggiore, e ritorna al re bemolle. Sono variazioni molto abili e molto nascoste. Come se Beethoven volesse mascherare che il tempo è una successione di variazioni. Ma si fa evidente d’altra parte che la variazione è solo una tra le tante possibili elaborazioni di un tema. Anche qui, il novecento incombe: Mahler, per esempio, primo tempo della Nona, guarda caso anch’esso un Andante, e anch’esso costruito sull’intervallo di seconda maggiore/minore. Intervallo caratterizzante del quartetto beethoveniano, come della sinfonia mahleriana. Del resto non è un mistero che Mahler riflettesse sui quartetti di Beethoven, e se ne portasse sempre dietro le partiture. Pensate un po’: tre tra i massimi compositori del novecento, Mahler, Schoenberg e Bartók, confessano di ispirarsi al modello di Beethoven, e in particolare, ai suoi quartetti, e dunque che dubbio più che proprio in Beethoven debba in dividuarsi la matrice del pensiero musicale contemporaneo?
Con un salto, che è tipico del suo pensiero ellittico, Beethoven ci trasporta, nel quarto tempo, da re bemolle maggiore/si bemolle minore/la bemolle maggiore a sol maggiore. Nella regione di si bemolle maggiore, sol è la tonica del relativo minore. Ma qui, dopo re bemolle maggiore/si bemolle minore, si presenta come tonica maggiore. Armonicamente è una vera e propria Aufklärung, illuminazione, ma lo è ancora di più ritmicamente. Lo scherzo ternario che era mancato all’appello, sostituito dal visionario si bemolle minore del secondo tempo, eccolo qua, ma ridotto alla facilità d’un trio popolare, come quello del trio del minuetto della sinfonia in mi bemolle di Mozart, solo che in questo caso il trio è l’intero movimento. La capacità di Beethoven di giocare con le forme e di trasformarne il significato raggiunge qui uno dei suoi culmini. La scherzosità della danza infatti è apparente. Ecco apparire subito dopo la Cavatina, a smentirla.
In mi bemolle maggiore, precede il si bemolle (dominante) della Grande fuga o del secondo Finale. Prima osservazione: per tutta la durata del tempo Beethoven non sale mai al di sopra del la bemolle del taglio addizionale della chiave di violino né sotto il do dei due tagli addizionali nella chiave di basso del violoncello. Limitazione che ricorda il Clavicembalo ben temperato. Ma non è a Bach che pensa Beethoven. Quanto piuttosto all’esplosione di una tensione all’interno di uno spazio limitato. E’ un tempo mirabile che procede per successive varianti dell’idea di partenza (di nuovo l’idea della variazione, come fondamento dell’elaborazione tematica) fino alla sua ripresa abbreviata alla fine, di modo che invece di una successione di varianti l’orecchio percepisce una andamento A B A. La finezza degli equilibri cantabili è straordinaria: il disegno del violoncello nasce dall’inversione del disegno del violino nell’introduzione del primo tempo, la figura ritmica del primo violino, e il salto di sesta, sono una contrazione dell’impulso ritmico della prima sezione dell’allegro del primo tempo, ed egualmente derivati da figure del primo tempo sono i disegni del secondo violino e della viola. Ma l’intensità esplosiva del movimento sta nell’accumulazione contrappuntistica del canto: ogni strumento ha un suo percorso melodico autonomo, ma la melodia cantabile che ne risulta sembra un unico lineare continuo. In tal senso il contrappunto melodico della Cavatina fa da degna controparte del contrappunto ritmico del Presto, la loro stessa posizione, nell’ordine dei tempi, secondo e quinto tempo, ne esalta specularmente l’affinità di concezione e la funzione di scatenamento delle pulsioni ritmiche del primo tempo, per il secondo (non a caso impostato sulla stessa tonica) e di preparazione riflessiva al finale, per il quinto.
Si arriva così al finale. Quale?
Naturalmente Beethoven pensava alla fuga, della quale già si è detto. E’ un degno, gigantesco coronamento di un’opera monumentale. Sono state scritte tante pagine su questo pezzo, che non è il caso di aggiungere altro a quanto già detto, e splendidamente, da Adorno, Cooper, Dahlhaus. Ma qualche parola va invece spesa per il finale che ha finito col sostituire la fuga. Non è vero che appare di tono minore, rispetto alla monumentalità del quartetto. Il ritmo saltellante dell’avvio è evidentemente preso dal primo tema del primo tempo e dunque il pezzo si collega bene al resto del quartetto, dato che proprio nelle prime idee del primo tempo si trovano le cellule generatrici dell’intera invenzione musicale del quartetto. Ma c’è un altro aspetto, assai importante, da considerare. Se la Cavatina appare speculare al Presto, il nuovo finale rinvia alla danza tedesca, sbilanciando così il peso del quartetto su un tono leggero, ironico, scherzoso. La fuga ingloba tutto il percorso del quartetto bruciandolo in una incandescenza ritmica e armonica che ne fa straripare le tensioni: non è un pezzo tragico, ma sì un pezzo teso. Del resto anche l’Inno alla Gioia è un pezzo pieno di tensione. La conquista della felicità non è una grazia divina, per Beethoven. E nel caso della fuga la felicità è tutta d’ordine intelletuale: di dominio di una materia complessa e difficile, nella quale le tensioni alla fine si placano perché vengono fatte esplodere. L’Allegro aggiunto come nuovo Finale dichiara da subito il suo carattere giocoso e a questo punto proietta la sua luminosità all’indietro su tutto il quartetto. In musica il dopo è sempre conseguenza di un prima, anche quando di fatto non lo è, perché l’ultima impressione è quella che decide il senso di ciò che si è ascoltato. Beethoven lo sa perfettamente, è anzi un maestro di strategie temporali, forse come nessun altro. Non è escluso, come si è già detto, che il tono scherzoso di questo finale gli sia venuto anche per stizza, per il gusto di vendicarsi di chi aveva storto il naso davanti alla fuga e costituisca pertanto una risposta ironica alle orecchie che non avevano gradito la fuga (Beethoven diventava furibondo quando qualcuno fraintendeva le sue intenzioni musicali, ne sa qualcosa il povero Ries, che si vide tolto a lungo il saluto solo per avere timidamente osservato che a suo avviso i corni, nella ripresa del primo tempo dell’Eroica, avevano anticipato l’entrata: Beethoven lo fissò furioso, era un effetto voluto!). Ma quest’ironia si proietta allora all’indietro su tutto il quartetto e invece di tranquillizzare l’ascoltatore gli fa percepire l’opera sotto una luce sinistra. Un tono dichiaratamente sinistro ha del resto il finale dell’op. 131. Ma qui, nell’apparentemente sereno quartetto op. 130? La felicità inventiva del primo tempo, l’ansia ritmica del secondo, la grazia quasi settecentesca del terzo, l’innocenza del quarto, il turbamento del quinto trovano la loro spiegazione in un sorriso che vede fuggire il tempo, in una danza che può anche essere gioiosa, ma è pur sempre la danza che conclude, che conduce a una fine. Beethoven ci ha squarnato per cinque tempi le facce multiformi del tempo, che sono anche le facce della vita, di tutto quel turbinare non resta nella memoria alla fine che il puro danzare (un ricordo della Settima? Anche lì, all’interno di un tumuto gioioso si apre l’abisso, si direbbe, baudelaireanamente, lo spleen dell’allegretto, e la tensione morale è forte quanto in Baudelaire). Il pensiero musicale di Beethoven conosce questo sguaedo retrospettivo, questa malinconia che guarda il tempo perduto, il paradiso lontano, o perché passato o perché utopia, ne è tutta intrisa una sinfonia come l’Ottava. Ma c’è anche l’ultima variazione Diabelli o il ritorno del tema nelle variazioni dell’op. 109. Ci sono le ultime, splendide, Bagattelle. Quanto alle Variazioni su un valzer di Diabelli, vedremo che posto occupano nel pensiero musicale di Beethoven. Intanto, impariamo questo: se il senso di una musica sta nel suo percorso, il percorso sempre così incidentato e fitto di richiami, ricordi, allusioni, della musica di Beethoven sembra indicarci un salto di valore rispetto alla musica precedente: come se la musica, nel momento in cui si pone, si facesse carico della storia che l’ha preceduta, e non solo storia personale del compositore, ma storia della musica, e storia della musica in quanto rispecchiamento della storia umana, riflessione sul pensiero contenuto nell’atto stesso di comporre, e allora, sotto questa luce, da una parte Fidelio ci costringe a pensare che non c’è valore più alto della libertà, libertà anche di comporre il pensiero della libertà, e dall’altra la Missa Solemnis ci addita l’impossibile compito di trovare in noi stessi la fede in un Dio che ormai sembra invece assente, e al quale sembra non giunga il nostro grido di pace, ma proprio perché forse la libertà è utopia e la fede impossibile in un mondo sdivinizzato, Beethoven ci dice che bisogna chiedere l’utopia e imporsi l’impossibile. Ma qui Beethoven incontra Kant. Ma, a differenza di Kant, non parla ai filosofi, si rivolge a tutta l’umanità: “Seid umschlungen, Millionen, Alle Menschen werden Brüder”. L’Ode di Schiller An die Freude, alla gioia, s’intitolava in realtà An die Freiheit, alla libertà, e Beethoven lo sapeva.


Dino Villatico

Roma, 30 agosto 2004


[1] Theodor W. Adorno, Beethoven. Filosofia della musica, a cura di Rolf Tiedemann, traduzione italiana di Luca Lamberti, Torino, Einaudi, 2001, pag. 222. Ed. orig.: Beethoven. Philosophie der Musik, Frankfurt am Main, Suhrkamp Verlag, 1993.
[2] Ibidiem, pag. 218.
[3] Josef Rufer, Teoria della composizione dodecafonica, traduzione italiana di Laura Dallapiccola, Milano, Il Saggiatore, 1962, pag. 47. Titolo originario: Komposition mit 12 Tönen, Berlin, Max Hesses Verlag.
[4] L’osservazione è di Carl Dahlhaus.
[5] La prima e la seconda parte di un tema.
[6] Rufer, Teoria della composizione dodecafonica, cit., su Beethoven, pagg. 38-62, sull’op.10 n.1 in particolare, pagg. 54-62.
[7] Forse, più corretto, enunciazione.
[8] In Carl Dahlhaus, Beethoven e il suo tempo, traduzione italiana di Laura Dallapiccola, Torino, EDT, 1990, pag.  177.
[9] La Missa solemnis richiederebbe un discorso a parte: è scritta come ricerca di una forma collettiva, anzi come lo sforzo di fondare soggettivamente l’ormai perduta tradizione di uno stile musicale religioso. Da qui la tensione, il senso di smarrimento, l’impressione di una rinuncia: mancano veri e propri temi, o meglio i temi sono ridotti all’osso, coincidono con l’elaborazione dei procedimenti contrappuntistici e delle trasformazioni armoniche. Salvo che nel Benedictus, sembra mancare l’invenzione melodica vera e propria, in poche parole il piano dell’elaborazione prevale sulla distribuzione della forma, è esso stesso la forma dell’opera, un laboratorio, provvisorio, di come si possa scrivere una messa. Il senso di disagio che l’ascolto può generare dipende probabilmente proprio dalla percezione che Beethoven stia rischiando una carta inutilizzabile, e allora scopre i trucchi, lancia una sfida, come dicesse: questo che faccio non si può più fare, ma faccio appunto qualcosa che porti all’evidenza l’impossibilità della cosa, e in ogni caso anche la stessa imposibilità può essere impostata in un modo solo una sola volta, le successive saranno altre forme d’impossibilità, mai la stessa. Da questo punto di vista l’evidente arcaismo di molte scelte si ribaltano in visionaria modernità: come già nell’Ottava ci si sente già l’aria dello Stravinsky neoclassico, comunque emerge lo stesso problema, risolto, o meglio non risolto, in maniera simile. L’atto della volontà prevale dal dato oggettivo, ma il dato oggettivo si ribella mostrando alla scoperto la sua inattualità.
[10] Ciò non giustifica, certo, la durezza di certi provvedimenti. Il difetto di Karl era di non essere l’eroe che lo zio s’illudeva di risvegliare in lui. Come quasi sempre, soprattutto nei vincoli familiari, l’amore nasceva da un complicato e terribile equivoco, da entrambe le parti. E siamo sicuri che il sostrato più profondo di una così sconvolgente esperienza non ci venga filtrato dalle asprezze degli ultimi quartetti? Il tentativo di suicidio del nipote cade nell’anno in cui Beethoven conclude la sua ultima opera, il Quartetto op. 135. Ma non possiamo dire di più. Guai a cercare corrispondenze immediate: tanto più in un’arte, come quella beethoveniana, che non lascia nessun particolare al caso, che anzi fa della mediazione quasi una categoria morale del comporre, piano estetico e piano etico in Beethoven coincidono. Del resto anche lui, in un momento particolarmente buio, aveva meditato il suicidio. Come per Goethe, il gesto è trasferito sulla pagina. Cfr., sui rapporti di Beethoven col nipote, più che il sopravvalutato libro di Luigi Magnani, le belle pagine che vi dedica la troppo presto scomparsa Brigitte Massin in: Jean et Brigitte Massin, Ludwig van Beethoven, Paris, Fayard, 1967, pagg. 281-291.
[11] In Carl Dahlhaus, La musica dell’Ottocento, Firenze, La Nuova Italia, “disCanto”, 19972, pagg. 250-261. Ma, sempre di Dahlhaus, v. anche anche il cap. Opera e biografia in Beethoven e il suo tempo, Torino, EDT, 1990, pagg. 17-54.
[12] La denominazione di Sinfonia eroica composta per festeggiare il sovvenire di un grand’uomo compare solo nell’edizione del 1806 (parti d’orchestra) e del 1809 (partitura) e poi in quella tedesca del 1822. All’origine la sinfonia si chiamava Bonaparte. E’ noto l’episodio ricordato da Ferdinand Ries e confermato da Schindler, che Beethoven avrebbe cambiato il titolo quando seppe che Napoleone si era proclamato imperatore: “Anche lui non è altro che un uomo comune! Ora calpesterà anche lui tutti i diritti umani, si porrà più in alto di tutti, diventerà un tiranno!”.
[13] Anche questo tempo è in tre quarti.
[14] La sezione del cosiddetto sviluppo ha in Beethoven sempre un carattere molto particolare. Proprio perché Beethoven estende a tutto un tempo, anzi addirittura a tutta un’opera, l’idea di una tema che si sviluppa, concentrare in questa sezione l’elaborazione tematica non ha più senso. Beethoven sceglie diverse soluzioni: intensificazione armonica, esasperazione ritmica, distensione melodica (anticipando in questo Chopin o, piuttosto, offrendone a Chopin il modello). Nell’op. 101 lo sviluppo è interamente occupato da una fuga.
[15] Beethoven riprende invece la scansione binaria all’interno di un ritmo ternario nello Scherzo della Quarta.
[16] Sul Finale dell’Eroica v. le belle pagine che vi dedica Dahlhaus in Beethoven e il suo tempo, cit., pagg. 39-43.
[17] Accolgo l’impostazione teorica di A. Schoenberg, com’è espressa in Funzioni strutturali dell’armonia, Milano, Il Saggiatore, ed. “Catalogo”, 1985, pagg. 48-67. Il campo armonico di una tonalità costituisce una regione in cui agiscono, intorno alla tonica, con diverso grado di affinità  e di subordinazione, altre possibili toniche, che in rapporto alla tonica principale sono la dominante, la sottodominante, la mediante, il relativo minore o maggiore, la tonica maggiore o minore, il secondo grado abbassato (sesta napoletana), ecc. Schoenberg ipotizza che in una composizione, soprattutto del periodo classico, non si presentino via via, linearmente, tonalità differenti, ma che le diverse tonalità che si affacciano siano tutte contenute nel campo d’attrazione della tonica principale, e che si dovrebbe perciò parlare di monotonalità. Con le parole dello stesso Schoenberg:  “Il concetto di regione è una conseguenza logica del principio della monotonalità, secondo il quale ogni digressione dalla tonica viene considerata sempre nell’ambito della tonalità in base a un rapporto che può essere diretto o indiretto, vicino o lontano. In altre parole: in un pezzo di musica esiste solo una tonalità, e ogni sua parte che un tempo veniva considerata come tonalità diversa è soltanto una regione, un contrasto armonico nell’ambito della stessa tonalità” (i corsivi sono di Schoenberg).
[18] Sul colle siedo io scrutando.
[19] Delicatamente lento e con espressione.
[20] Lontano io sono da te diviso, / ci distaccano montagna e valle / tra noi e la nostra pace, / tra la nostra felicità e il nostro tormento.
[21] Dove le montagne così azzurre dal nebbioso grigio guardano.
[22] Un po’ mosso.
[23] Cfr. nota 17.
[24] Leggere vele nelle alture (le nubi).
[25] Queste nuvole nelle alture.
[26] Non troppo mosso, grazioso e con molto sentimento.
[27] Torna maggio e fiorisce il prato.
[28] Torna maggio e fiorisce il prato, / l’aria soffia così mite, così tiepida. / Io solo non posso muovermi da qui.
[29] Se tutto ciò che vive si unisce alla primavera, /soltanto il nostro amore nessuna primavera unisce, / e lacrime sono per esso ogni trionfo.
[30] SWì, essa penetra nel profondo del cuore.
[31] Accolga ella dunque là queste canzoni.
[32] In Beethoven e il suo tempo, cit., pag. 213.
[33] Nulla di simile in Italia, dove pure gli zingari non sono mancati e non mancano. Segno di una secolare diffidenza per il diverso?
[34] Due esempi, tutti e due del periodo tardo: l’inizio della Nona e l’ultima variazione Diabelli. Nella Nona agiscono due modelli complementari: l’inizio dell’ultima sinfonia di Haydn, la Sinfonia 104 London e La rappresentazione del Caos che apre La Creazione.  Dalla sinfonia Beethoven trae la suggestione dell’intervallo di quinta vuota, ma il doppio movimento ascendente e discendente ribadisce in Haydn il rapporto di tonica e dominante, laddove il movimento sempre discendente nella Nona lascia sospeso il rapporto, e tale sospensione è mutuata a sua volta dal cromatismo della Rappresentazione. Ma Beethoven non ricorre al cromatismo, lascia navigare a lungo la quinta la mi, senza introdurre nessun altro suono, la quinta costituisce sia l’inciso giambico che il pedale, e pertanto la percezione tonale è sospesa: mancando la definizione della terza, la quinta infatti può appartenere a quattro tonalità diverse, la maggiore e la minore, se costruita sulla tonica, re maggiore e re minore se costruita sulla dominante (anche se l’abitudine di Beethoven a considerare la dominante come grado che ristabilisce la tonica dovrebbe metterci in guardia). La sospensione tonale ha una funzione anche ideologica oltre che musicale: Beethoven vuole suggerire l’impressione di un inizio (l’aveva già fatto splendidamente nell’introduzione della Quarta) e per un compositore tonale l’inizio è l’emergere della tonalità. Ed infatti solo quando il mi grave scende al re e il fagotto intona un fa, abbiamo finalmente la triade di re minore, tonalità della sinfonia. L’ultima variazione Diabelli è poi un evidente e, pur col suo carattere scherzoso, quasi nostalgico omaggio a Haydn, che non è però un desiderio di restaurazione, ma lo sguardo disincantato al paradiso perduto. Anche qui Beethoven sembra anticipare insieme sia lo struggimento di Mahler (attacco della Quarta) che il tono scanzonato di Stravinsky, ma anche certo neoclassicismo schoenbergiano, per esempio quello della Suite op. 25. Con Schoenberg Beethoven condivide inoltre l’esigenza di non imitare dalla tradizione recente o lontana uno stile estinto, ma di assimilare un pensiero musicale sentito ancora vivo, vale a dire di mettere in azione un principio formale, o, boulezianamente, un formante.
[35] Lo intuisce bene Thomas Mann, nel Doctor Faustus, per bocca di Kretschmer.
[36] Un po’ vivace e con intimo sentimento.
[37] Solo chi conosce la nostalgia sa che cosa soffro.
[38] Aristotele, Problemi, XXX.
[39] Il tempo lento di uno dei quartetti op. 18, dunque un’opera relativamente giovanile, ha per titolo La malinconia.
[40] In realtà la 22ma, in quanto Beethoven ha concepito l’Adagio, la ripresa del  tema del primo tempo e l’Allegro finale come un unico tempo, di cui dunque l’adagio costituisce l’introduzione. Così, dopo, la quinta battuta è in realtà la 25ma.
[41] Presto, ma non troppo, e con risolutezza.
[42] Non ricordo dove, e richiederebbe troppo tempo cercare il passo, credo comunque in Per volontà e per caso.
[43] Andrebbero considerati anche i  due Trii dell’op 70 e il Trio op. 97, detto dell’Arciduca. L’effusività cantabile tocca in essi vertici sublimi: la lezione mozartiana appare decantata, sublimata, appunto, in un tipo assolutamente nuovo di melodia cantabile, che può assomigliare, e talora molto, al melodizzare schubertiano, ma non rinuncia mai a una inflessibile organizzazione strutturale, a un’idea dominante che accoglie la cantabilità non già come momento evasivo, bensì la include nel proprio programma. Ecco allora che il bellissimo, straordinario Andante cantabile ma però con moto dell’op. 97, in forma di tema con variazioni (ma attenzione! la variazione non è una forma), non solo sembra sintetizzare tutto ciò che per Beethoven significhi, all’interno di una forma, l’espansione melodica, e lo confessa nel programma agogico,  cantabile”, ma ne proponga, quasi ideologicamente, la funzione di partenza e non di arrivo, o se mai di una partenza che arrivi a ritornare su se stessa. Le variazioni diventano allora il campo in cui si svelano le tensioni nascoste del tema, il territorio in cui se ne spermenta la disintegrazione e la trasformazione, di modo che poi quando il tema ritorna uguale all’inizio, o quasi uguale, lo si percepisce come assolutamente nuovo, perché carico di tutte le trasformazioni subite precedentemente, e dal punto di vista espressivo tale novità può anche proporsi come uno struggente sentimento del tempo perduto, non diversamente dal sapore della madeleine. Ma musicalmente la variazione viene ad affiancarsi all’elaborazione tematica e talora a sostituirla. Se poi si pensa che il tema non conosce mai nell’opera beethoveniana una forma unica, ma si attua attraverso una serie di varianti che ne precisano via via i caratteri distintivi, e se si osserva inoltre che funzione analoga viene assunta dall’elaborazione contrappuntistica, al punto che, come si è visto, nel finale dell’op. 101 l’intera sezione dello sviluppo è costituita da una fuga (che anch’essa non è una forma, ma un procedimento), ebbene, se esaminiamo insieme tutti questi aspetti del modo di procedere beethoveniano, riconosciamo un’evidente equiparazione dei procedimenti dell’invenzione con quelli della trasformazione, che è quanto voleva dire Schonberg quando parlava di variazione permanente dell’idea.  Alla luce di tutto questo, l’Andante dell’op. 97 si rivela pertanto come il punto di svolta che condurrà agli esiti dell’op 109, 111 e 120, per il pianoforte, e in genere a tutto il lavoro degli ultimi quartetti. Ma non nasce come un fungo: è preceduto dalle variazioni che aprono la Sonata op. 26, dalle Variazioni op 34 e op 35.
[44] Il mistero della bellezza di questa splendida partitura, anzi il segreto del suo fascino sta nel fatto che si tratta di musica dotta quante altre mai, ma alla percezione la sapienza della scrittura appare, più che mascherata, sopraffatta dall’irruenza dell’effetto drammatico ed espressivo ed esattamente come per Beethoven la musica di Bizet può essere goduta tanto dall’ascoltatore ingenuo che dall’avvenuto conoscitore dei procedimenti compositivi. Naturalmente chi ne penetra anche le ragioni compositive, ne gode anche di più.
[45] La musica dell’ottocento, cit., pagg. 250-261, ma v. anche 160-62.
[46] Nella Nona la terza gioca il ruolo dell’indeterminatezza tonale: la sua assenza non permette di precisare l’ambito tonale della quinta vuota la - mi. Tale quinta, infatti, se costruita sulla tonica, può appartenere o a la maggiore o a la minore, ma se costruita sulla dominante, allora ci si trova o in re maggiore o in re minore. L’ambiguità tonale ha qui una funzione insieme narrativa e ideologica: è un inizio. L’abbassarsi del mi a re, e l’intonazione del fa da parte del fagotto, introducono finalmente la triade di re minore, tonalità d’impianto della sinfonia.
[47] Cfr. Carl Dahlhaus, La Quarta Sinfonia di Ludwig van Beethoven, Milano, Ricordi, 1992. In compendio ci si trova la storia della composizione, della sua fortuna, e un’analisi dettagliata dei tempi. Soprattutto proprio le pagine dedicate all’introduzione sono un modello di metodo analitico da una parte e d’impostazione dei problemi generali che ogni analisi particolare presuppone e impone.
[48] Cfr. Ulrich Siegele, Beethoven Formale Strategien der späten Quartette, Musik-Konzepte 67/68, München, Januar 1990, pagg. 72-113. La terminologia tedesca è più precisa di quella italiana. Ho reso il concetto di Hauptsatz, che nel testo sostituisce il concetto di tema, con sezione principale, e il termine Taktgruppe con gruppo di battute, perché il concetto non coincide con l’italiano inciso. Colgo l’occasione però per ricordare che fin dalle analisi di Tovey (1927) i termini tema, soggetto, apparivano inadeguati a rendere ragione dei procedimenti compositivi di Beethoven. E anche al Tovey, come prima di lui a Schoenberg, appariva inadeguatissima la sistemazione scolastica dell’armonia come si era venuta a codificare nei trattati del secondo ottocento. E’ alla luce di ciò che la costellazione armonica di un Webern appare assai meno lontana dall’idea di campo armonico (Schoenberg direbbe regione) che s’individua nelle opere di Beethoven. Il Quartetto op. 130 me è un’incarnazione esemplare. L’andamento drammatico, spesso irruento delle idee beethoveniane fa passare per molti in secondo piano la finezza, la fantasia inesauribile delle soluzioni formali, così come il suo sostanziale diatonismo fa dimenticare la sua spercolatezza armonica, un po’ come per Mahler, altro compositore essenzialmente diatonico, ma non per questo privo di fantasia armonica. Il fatto è che si parte da una concezione erronea dell’armonia, erronea soprattutto storicamente: che cioè il cromatismo equivalga a tricchezza armonica e il diatonismo a povertà di scelte armoniche. Niente di più falso: la ricchezza è assolutamente pari, diversi sono i percorsi, graduali nel compositore cromatico, ellittici in quello diatonico.
[49]  Mai come in questo quartetto appare fallace la terminologia scolastica. Beethoven non ragiona in termini di tema o di soggetto, ma di idee (anche qui una incredibile sintonia con Schoenberg). Ha bisogno di programmare una successione di eventi musicali. Poco importa che vengano individuati in temi, soggetti o motivi. C’è un piano di successione di diverse figure ritmiche, armoniche, melodiche, possibilmente derivate da un’unica cellula. Dopo di che, per esempio, in questo primo tempo del quartetto op. 130,  è riconoscibile la scansione in un’introduzione, un’esposizione divisa in due sezioni unite da una transizione e concluse da una sezione modulante a re maggiore ch’è l’introduzione allo sviluppo, a cui segue la riesposizione o ruipresa seguita da una coda. Ma l’eleaborazione tematica è assai complessa, e così la strutturazione armonica, insomma niente di meno scolastico di questo tempo che manda all’aria qualsiasi tentativo di riconoscervi la forma di ciò che tradizionalmente si chiama forma-sonata.

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