lunedì 12 settembre 2016

Due minuti all'ombra, di Davide Gariti



Due minuti all’ombra, di Davide Gariti
Roberto Deidier, nella sua recensione della raccolta, sul suo blog, parla di perturbazioni, di un’abitudine quotidiana al contatto  con qualcosa, di necessità di misurarsi con il mondo ma, soggiunge, anche di limpidezza del discorrere e, soprattutto, di una quasi sabiana onestà nei confronti della vita. Tutto vero. Ma direi anche di più. Come il grande poeta triestino, solo se letto superficialmente, può apparire tradizionale, anzi addirittura convenzionale, così anche la poesia di Davide Gariti può sembrare facile, diluita in un discorrere quasi da colloquio quotidiano, se non con gli altri, certo con sé stesso.  Bisogna invece leggerlo e rileggerlo. Perché, a una prima lettura, le sue sembrano le confessioni o divagazioni di un adolescente che scopre il mondo. E forse lo è, Gariti, un adolescente, ma come lo era, per esempio, un Corazzini: nel senso che lascia crescere la sua esperienza del mondo e degli altri, senz’aspettarsi niente, c’è sempre, anzi, un tu a cui sembra rivolgersi, ma non si capisce se un amore, un altro corpo, un’altra voce,  o il corpo, la voce di sé stesso, come ricettacolo prezioso dei corpi e delle voci del mondo in cui si sente immergere, affondare.  Custodisce, poi, la memoria di questo sprofondamento  come qualcosa che più che non ancora finita non è nemmeno per davvero cominciata. Si avverte in questo atteggiamento la paura e insieme la curiosità di chi non si sia ancora sentito sporcato dal contatto della vita, degli altri, del sesso, che ne resti anzi attratto, esaltato, come un beato uscire da sé stesso. E se mi si permette la brutalità dell’immagine – ma il poeta stesso sembra autorizzarla: “pestando il seme che andrà / giù” – Gariti vive la sua poesia quasi come un’eiaculazione in cui il seme sono le sue parole, testimoni e insieme traccia della vita che si respira intorno, sopra la terra, sotto, nelle cortecce degli alberi, nell’aria che si respira. Qui, però, interviene il lavoro della scrittura, perché questa esperienza, che potrebbe anche assomigliare all’esperienza di un mistico, è controllata dal linguaggio che la esprime, che anzi ha pudore di rivelarsi troppo. Va pertanto indovinata, percepita tra gli scarti della coscienza, dai buchi sfuggiti al controllo, nei momenti in cui quasi inavvertitamente si rivela. Come osserva giustamente anche Deidier. Le paure prossime, le insidie di un probabile fallimento, nell’esperienza, dell’esperienza, e cioè il timore, e l’angoscia, di restare a mani vuote, senza ricompense, per il dono di aprirsi al mondo, sono tuttavia là che aspettano: il “ciclostilo ciclostilato” sembra ingabbiarlo o perfino minacciarlo. “E’ finito un anno./ Quando?” Delusione o consapevolezza della fine, della conclusione, com’è nella natura delle cose e dunque anche dell’esperienza umana. Ma bisogna sbirciare sotto il rigo. Non bisogna lasciarsi scivolare sulla superficie dei versi. Gariti ama nascondersi dietro un racconto fluido, quasi dimesso, quotidiano. I sussulti li lascia indovinare, le crepe mostrano un intonaco maldestro, buttato sul muro a nasconderne i punti di rottura. Confesso che all’inizio mi pareva una scrittura perfino banale. E invece bisogna origliare nell’attesa dello squarcio, della confessione improvvisa, dell’indicibile a lungo soffocato e finalmente pronunciato. Ma sta lì il lato più avvincente di questa poesia: nell’attesa di quell’esplosione che sembra non arrivare, e quando arriva spalanca una scena di emozioni violente, eppure delicate. E allora uno immagina con che violenza potrebbe alla fine scatenarsi il suo furore, la sua ossessione di unirsi a chi lo chieda complice  o che lui stesso implori di assecondarlo in quest’avventura, confondersi con lui nell’esperienza di un tuffo nelle cose, di cui non si conosce né la portata né l’esito. Fosse anche solo l’esperienza di osservare un cane che passa, una foglia che cade, o una bocca che aspetta, come fosse, l’esperienza di questa unione, della partecipazione a ritmi vitali appena subodorati, indovinati, non solo un atto dello sguardo, ma qualcosa di più, quello che Goethe, in “Stella”, chiama un risarcimento che la natura ci offra per il guasto di averci dato l’esistenza: la natura (“fuoco / andato a male”) sembra, di fatti, tuttavia, ferirci invece da sempre, e forse senza mai darci, se non per un’illusione, quel sospirato risarcimento.  A questo punto il lettore è assalito da una grande voglia di abbracciarlo, l’adolescente che si rivela nei versi di Davide Gariti, e dirgli: “fratello, mi assomigli”. L’ombra corrucciata di Baudelaire ci perdonerà questo plagio.
Fiano Romano, 12 settembre 2016

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