mercoledì 14 settembre 2016

Vincenzo Maltempo interpreta Liszt e Schumann



Vincenzo Maltempo:

Schumann: Sonata  in fa minore op. 14, Romanzen op 78, Humoreske op. 20.
Piano Classics, PCL0074

Liszt: Rapsodie ungheresi.
Piano Classics, PCLD0018

A Vincenzo Maltempo è stato recentemente conferito il Premio Franco Enriquez. Meritatamente. E basterebbero queste due incisioni a giustificarlo. Difficile immaginare due compositori più diversi tra loro di Schumann e Liszt, eppure Maltempo di Liszt e di Schumann riesce a proporre un’immagine non solo assai coerente, ma nuova. Liszt non era proprio nelle grazie di Schumann, tanto meno di sua moglie Clara. Invece Liszt aveva un’alta opinione di Schumann. A Schumann è dedicata la Sonata in si minore. E quando fu incaricato di dirigere il teatro di Weimar fece rappresentare la sua Genoveva. Come del resto il Lohengrin di Wagner. Liszt sarebbe un direttore artistico da auspicarsi, oggi, alla testa di un teatro. Attento alla produzione contemporanea, sapeva individuare da quale parte andasse la musica, senza pregiudizi personali o preclusioni ideologiche: lo interessavano tutti, purché nuovi, anche quelli di cui non condivideva l’impostazione musicale o teatrale. Quelli, però, che giudicava mediocri, come per esempio Meyerbeer, li condannava senza pietà. Questa sua generosità, ma anche animosità, non fu sempre capita. “Il nostro amico pianista, che crede di essere anche un compositore” diceva di lui Clara Wieck, moglie di Schumann. Eppure, invece, la musica dell’Ottocento, e la nostra, senza Liszt, sarebbe priva di un tassello fondamentale. Su Liszt pesa il giudizio, apparentemente riduttivo, che ne diede nel Novecento Bartók: la sua non sarebbe autentica musica ungherese, ma la musica degli zingari ungheresi.  Più tardi Bartók ammorbidì questa posizione, e riconobbe il ruolo decisivo che invece la musica di Liszt ha nell’ambito della stessa musica ungherese, ma soprattutto europea del secondo Ottocento. Comprese le Rapsodie ungheresi. In realtà questo è solo il titolo definitivo. Per tutta la vita Liszt rielaborò le melodie della tradizione popolare ungherese, con particolare attenzione alla musica tzigana. Ma per esempio la 15a Rapsodia, Marcia di Rákoczy, non è d’ispirazione tzigana. Come non lo sono che in parte le ultime quattro rapsodie. L’ascolto cronologico integrale di tutt’e 19 le rapsodie, come qui fa Maltempo, permette di seguire l’evoluzione del pensiero musicale di Liszt. Fino alla 14a rapsodia è rispettata, in vari modi, la divisione in due parti, una prima lenta e una seconda mossa. Ma con grande libertà. Ciò che interessa Liszt è ricreare sul pianoforte il virtuosismo di carattere improvvisato dei violinisti e dei cantanti tzigani. Ma l’aspetto che affascina ancora di più oggi è l’intonazione modale delle melodie, l’irregolarità delle frasi e della scansione ritmica. Ed è su questi due aspetti che lavora l’interpretazione di Vincenzo Maltempo.  Sul virtuosismo pianistico di Maltempo, felice e insuperabile interprete di Alkan, virtuosismo indispensabile per chiunque si accinga a suonare Liszt, non si avevano dubbi. Ma qui non è solo l’aspetto virtuosistico della scrittura pianistica lisztiana a essere messa in rilievo. Altri lo hanno già fatto, e perfino con maggiore incisività, o evidenza, forse sarebbe il caso di dire esibizione, Cziffra per esempio, dalle cui mani Liszt sembra uscire come scolpito e cesellato nell’acciaio. Maltempo, invece, dà per scontato il necessario virtuosismo, e mette in rilievo altri aspetti.  Indugia, per esempio, su certe stranezze armoniche, sul languore di certe movenze melodiche. Legge, insomma, Liszt con orecchio decadente. E’ legittimo? è sbagliato? Ma perché non si dovrebbe? Liszt frequentava salotti aristocratici, dell’alta borghesia finanziaria, e di artisti più o meno bohemien, visse intensamente i moti culturali, rivoluzionari, religiosi del suo tempo. Amava profondamente l’Ungheria, ma da artista, da intellettuale. Non ne conosceva nemmeno bene la lingua. Le sue lingue erano il francese e il tedesco. Ma anche l’italiano. Restò per tutta la vita l’allievo esemplare di Czerny, ch’era stato allievo di Beethoven. Ed è per questo che Liszt è forse il musicista dell’Ottocento che più di altri ha capito il laboratorio di Beethoven, forse perfino più di Brahms, che pure gli venne contrapposto. Ma di Beethoven non gli interessava lo stile. Ne assimilò, invece, e lucidamente, la scrittura, i procedimenti  costruttivi, l’architettura della forma musicale. Anche per Liszt un tema non è la sua configurazione melodica, o non solo la sua configurazione melodica, ma anche il campo armonico che crea, l’impulso ritmico che genera. Finì, anzi, per concepire il profilo melodico di un tema come un figurazione astratta, un modo alla maniera dei modi medievali, o popolari, da sottoporre a molteplici e sempre nuove configurazioni, ritmiche, melodiche, armoniche. Il sistema suggerì forse a Schoenberg la costruzione della serie. Liszt Imparò da Beethoven che un tema non è dato una volta per tutte, ma si va formando via via che procede, e l’ultima configurazione non è quella definitiva, ma solo l’ultima, che serba o assorbe in sé tutte quelle precedenti, se non altro nella memoria dell’ascoltatore, sicuramente nel cervello del compositore, e può realizzarsi per accumulazione, ma anche per sottrazione, ridursi a niente, a un battito, al silenzio, come nella Sonata in si minore. Sotto questa luce le ultime quattro, tarde, rapsodie, sono sconvolgenti. Fu probabilmente la lettura di queste pagine a convincere Bartók di ammorbidire il giudizio negativo sull’uso della melodia popolare da parte di Liszt, perché qui non poteva non riconoscere i fondamenti del suo stesso procedere, del suo stesso sistema di rielaborazione delle melodie e dei ritmi popolari. Vale a dire, una volta acquisiti, trasferirli su un altro piano, quello dell’elaborazione colta, quell’elaborazione tematica che ancora oggi ci sorprende nelle ultime sonate e negli ultimi quartetti di Beethoven, e che ritroviamo, guarda caso, anche nei quartetti di Bartók. Maltempo qui abbandona le sospensioni, i languori, le seduzioni melodiche, i rapimenti ritmici delle prime rapsodie e si fa secco, duro, prefigura la secchezza e la durezza del secolo successivo. Ci sono momenti in cui uno sobbalza: perché se non si sapesse ch’è Liszt, si direbbe ch’è Bartók. Compresa l’estenuata dolcezza di certe armonie, che non sono però più l’accarezzamento emotivo d’una melodia, che ci rapiva nelle altre rapsodie, bensì l’estraniamento, l’allontanamento, si direbbe, nei silenzi della puszta ungherese, all’aria aperta, Szabadan, in ungherese, titolo di una suite pianistica di Bartók. Delicatamente, per gradi, a poco a poco, Maltempo ci conduce così dal romanticismo al decadentismo, e alle prime, inquiete, e inquietanti , visioni del moderno, al Novecento. Voltate pagina, qui si parla di noi, di oggi, di adesso, sembra dirci. Rifacciamo il percorso dall’inizio. E riascoltiamo le prime rapsodie, compresa la famosissima seconda. Ecco allora che ci accorgiamo che quanto abbiamo creduto una prefigurazione del Novecento, c’era già nelle prime, romanticissime, rapsodie. C’era soprattutto la perpetua, ininterrotta elaborazione di un’unica idea musicale, la stessa ellittica, imprevedibile avventura armonica, l’uguale predilezione di ritmi irregolari, non  squadrati. Ma maggiormente insistita, diluita si direbbe in un discorso più familiare, più consueto, quasi d’intrattenimento. E allora quella che ci pareva una insistenza decadentistica si rivela per l’analisi lucida del procedimento armonico, della sorpresa ritmica, dell’avventura melodica, che ora è recitazione, ora canto, ma mai completamente canto o recitazione. L’ascolto si fa più consapevole. La mano del compositore sembra appropriarsi della mano del pianista. E dalla prima all’ultima rapsodia riconosciamo ch’è la stessa: quella di Liszt, dalla prima all’ultima assimilata dalla mano di Vincenzo Maltempo. Ma con l’effetto estraniante di una divaricazione temporale che Liszt ce lo rende insieme lontano, romantico, e vicinissimo, moderno. Come se analisi e interpretazione fossero la stessa cosa.

Di tutt’altro carattere la registrazione dedicata a tre pagine di Schumann. Una delle maggiori difficoltà dell’interpretazioni di Schumann consiste nella continua mutevolezza della pagina. Schumann non ama procedere linearmente, per passi successivi, ama invece avanzare per opposizioni, per contrasti, come se sentisse d’impaccio nell’elaborazione musicale i procedimenti di passaggio, quelli che vengono chiamati ponti. Passa senza preavviso da un tema all’altro, spesso non solo armonicamente diversi, ma spesso anche di andamento ritmico e agogico diverso. Anche se magari la cellula generatrice è la stessa. Il contrasto tematico, inoltre, da tonale tende a farsi modale. Non a caso tutte le sue sonate sono di tonalità minore: fa diesis minore la prima, fa minore la seconda – questa incisa da Maltempo – e sol minore la terza. Come accade anche per Chopin. Il fatto è che nell’armonia cromatica tipica del romanticismo il contrasto armonico nell’ambito di uno stesso modo, si è indebolito. Già con Schubert si nota il predominio di un’alternanza modale minore maggiore nei confronti di altri tipi di contrasto armonico.  Ma, come Liszt, anche Schumann ha assimilato il procedere per continue varianti di un’idea iniziale, tipico dell’ultimo Beethoven. Il tema non è dato una volta per tutte, ma si sviluppa insieme al procedere della pagina.  L’amore per la crittografia spinge inoltre Schumann a cifrare i suoi temi.  Anche nei brani che non sono sonate. Per esempio il Carnaval. Tutti i temi sono ricavati dal nome del villaggio in cui s’immagina la sfilata carnevalesca: Asch, che in tedesco significa cenere, come l’inglese ash. Nella trasposizione musicale tedesca i suoni corrispondono a La bemolle, do, si. Il suo retrogrado è si, do, la bemolle. Schumann ci gioca, come farà poi Schoenberg con la serie. Come ha fatto Beethoven con la sigla Bach nei suoi ultimi cinque quartetti. e come ha fatto Bach con il proprio nome per tutta la sua vita. I giochi derivano da una secolare pratica contrappuntistica. Qui, nella Sonata in fa minore, Schumann gioca con un tema composto da Clara Wieck, la donna che diventerà sua moglie. Ma gioca anche con il nome di Clara e con il proprio nome, crittati in sigle musicali. Eric Sams, musicologo, crittografo, studioso di Shakespeare, ha dedicato un bellissimo libro alla crittografia musicale schumanniana, Il tema di Clara, Milano, analogon, 20122. Ma fondamentali sono anche i suoi studi sull’Amleto shakespeariano, e sul primo Shakespeare. Questo, tanto per smentire la diffusa leggenda metropolitana sull’istintività e spontaneità dell’invenzione dei poeti e dei musicisti romantici. Che l’effetto sia spesso quello di un’istintiva spontaneità, nessuno lo mette in dubbio. Ma il punto sta nel fatto che quella spontaneità non è un regalo del cielo, un dono delle Grazie, ma il frutto di uno studio durissimo e di una lunga fatica. “Il filisteo vorrebbe capire in un attimo ciò che all’artista è costato forse mesi, anni, di duro lavoro”. recita un aforisma di Schumann. E un altro: “Mi piace, non mi piace, dice la gente. Come se non ci fosse niente di meglio da fare che piacere alla gente”. Schumann è compositore profondamente intellettuale, difficile, talora quasi incomprensibile. E ci teneva a esserlo. La Sonata in fa minore nasce come Concerto senza orchestra. Ma Liszt osserva, giustamente, che non ha il carattere di un concerto. Prevedeva, all’inizio due scherzi. Schumann ne espunge l’uno e l’altro, ma poi ne reinserisce uno, e la chiama definitivamente Sonata. L’interpretazione di Maltempo esaspera i contrasti, i mutamenti improvvisi, inaspettati di andamento e di umore. Il carattere fondamentalmente schizoide di Schumann viene messo in rilievo. Ma attenti! Schizoide, non schizofrenico. Schumann non è pazzo, è un musicista immenso, che ha guardato più di altri, forse, nei contrasti intimi della personalità di un artista, di un uomo.  Aristotele sosteneva che l’umore malinconico è quello dei poeti e dei filosofi. La malinconia è quella disposizione d’animo che si apre a tutte le disposizioni, può passare dall’una all’altra: l’artista è artista perché capace di passare attraverso tutte le disposizioni umorali dell’animo umano, come anche i filosofi. No si chiude in un solo tipo psicologico, ma può comprenderli tutti. Ecco perché la sua immaginazione può raffigurare le efferatezze di un criminale e la tenerezza di una fanciulla che s’innamora. Queste almeno erano le teorie della medicina antica, e di quelle dell’età moderna. La moderna neurobiologia, con altri elementi sperimentali a diposizione, tende però a confermarne l’impostazione. Nell’opera di Schumann sono presenti, comunque diverse personificazioni di diverse disposizioni d’animo, Florestano, Eusebio, Maestro Raro, sono le incarnazioni critiche di queste disposizioni. Nella musica si accostano, si associano l’una dopo l’altra, l’una insieme all’altra. E’ questo perpetuo contrasto di spessore armonico, di esternazione lirica, di ossessione ritmica che rende così sfuggenti le sue pagine. Maltempo sembra volerci restituire la sorpresa di queste improvvise irruzioni emotive e intellettuali attraverso l’irrompere brusco di un nuovo ritmo, l’aggressione brutale di una dissonanza, l’inaspettato distendersi di un canto in cui ogni tensione sembra placarsi, salvo invece a sentirlo interrotto, il canto, da un nuovo assalto percussivo, da un nuovo groviglio armonico. Le Romanze esaltano, nella loro libertà di subitanee improvvisazioni, questi contrasti. Ma è poi nelle Humoreske che Schumann realizza una meravigliosa sintesi d’improvvisazione e programmazione costruttiva. Allora ecco che la musica sembra scivolarci nelle orecchie come nascesse via via sul momento. La conquista di una così limpida fluidità non è l’ultimo segno di un’intelligenza interpretativa che sembra squadernarci al cervello, oltre che al sentimento, la pagina che ascoltiamo nell’attimo stesso in cui la sentiamo suonare. Il segreto di questa intelligenza interpretativa sta in una inesauribile variabilità del tocco. Il tocco si fa strumento dell’analisi musicale, il bisturi che mette a nudo i nervi che sorreggono l’impalcatura della composizione. Ma proprio perché tale strumento non è una fredda esposizione delle differenze, ma s’incarna nell’esecuzione stessa, l’interpretazione acquista quella ricchezza, quella mobilità musicale, in cui l’intelligenza della lettura si confonde con l’emozione  che la legge e la restituisce, come se nascesse proprio lì, nel momento in cui è suonata e noi l’ascoltiamo.

Fiano Romano, 14 settembre 2016

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