Vincenzo Maltempo:
Schumann: Sonata in fa minore op.
14, Romanzen op 78, Humoreske op. 20.
Piano Classics, PCL0074
Liszt: Rapsodie ungheresi.
Piano Classics, PCLD0018
A Vincenzo Maltempo è stato recentemente conferito il Premio Franco
Enriquez. Meritatamente. E basterebbero queste due incisioni a giustificarlo.
Difficile immaginare due compositori più diversi tra loro di Schumann e Liszt,
eppure Maltempo di Liszt e di Schumann riesce a proporre un’immagine non solo assai
coerente, ma nuova. Liszt non era proprio nelle grazie di Schumann, tanto meno
di sua moglie Clara. Invece Liszt aveva un’alta opinione di Schumann. A
Schumann è dedicata la Sonata in si
minore. E quando fu incaricato di dirigere il teatro di Weimar fece
rappresentare la sua Genoveva. Come
del resto il Lohengrin di Wagner.
Liszt sarebbe un direttore artistico da auspicarsi, oggi, alla testa di un
teatro. Attento alla produzione contemporanea, sapeva individuare da quale
parte andasse la musica, senza pregiudizi personali o preclusioni ideologiche:
lo interessavano tutti, purché nuovi, anche quelli di cui non condivideva
l’impostazione musicale o teatrale. Quelli, però, che giudicava mediocri, come
per esempio Meyerbeer, li condannava senza pietà. Questa sua generosità, ma
anche animosità, non fu sempre capita. “Il nostro amico pianista, che crede di
essere anche un compositore” diceva di lui Clara Wieck, moglie di Schumann.
Eppure, invece, la musica dell’Ottocento, e la nostra, senza Liszt, sarebbe
priva di un tassello fondamentale. Su Liszt pesa il giudizio, apparentemente
riduttivo, che ne diede nel Novecento Bartók: la sua non sarebbe autentica
musica ungherese, ma la musica degli zingari ungheresi. Più tardi Bartók ammorbidì questa posizione,
e riconobbe il ruolo decisivo che invece la musica di Liszt ha nell’ambito
della stessa musica ungherese, ma soprattutto europea del secondo Ottocento.
Comprese le Rapsodie ungheresi. In
realtà questo è solo il titolo definitivo. Per tutta la vita Liszt rielaborò le
melodie della tradizione popolare ungherese, con particolare attenzione alla
musica tzigana. Ma per esempio la 15a Rapsodia, Marcia di Rákoczy,
non è d’ispirazione tzigana. Come non lo sono che in parte le ultime quattro
rapsodie. L’ascolto cronologico integrale di tutt’e 19 le rapsodie, come qui fa
Maltempo, permette di seguire l’evoluzione del pensiero musicale di Liszt. Fino
alla 14a rapsodia è rispettata, in vari modi, la divisione in due
parti, una prima lenta e una seconda mossa. Ma con grande libertà. Ciò che
interessa Liszt è ricreare sul pianoforte il virtuosismo di carattere
improvvisato dei violinisti e dei cantanti tzigani. Ma l’aspetto che affascina
ancora di più oggi è l’intonazione modale delle melodie, l’irregolarità delle
frasi e della scansione ritmica. Ed è su questi due aspetti che lavora
l’interpretazione di Vincenzo Maltempo.
Sul virtuosismo pianistico di Maltempo, felice e insuperabile interprete
di Alkan, virtuosismo indispensabile per chiunque si accinga a suonare Liszt, non
si avevano dubbi. Ma qui non è solo l’aspetto virtuosistico della scrittura
pianistica lisztiana a essere messa in rilievo. Altri lo hanno già fatto, e
perfino con maggiore incisività, o evidenza, forse sarebbe il caso di dire
esibizione, Cziffra per esempio, dalle cui mani Liszt sembra uscire come
scolpito e cesellato nell’acciaio. Maltempo, invece, dà per scontato il necessario
virtuosismo, e mette in rilievo altri aspetti.
Indugia, per esempio, su certe stranezze armoniche, sul languore di
certe movenze melodiche. Legge, insomma, Liszt con orecchio decadente. E’
legittimo? è sbagliato? Ma perché non si dovrebbe? Liszt frequentava salotti
aristocratici, dell’alta borghesia finanziaria, e di artisti più o meno
bohemien, visse intensamente i moti culturali, rivoluzionari, religiosi del suo
tempo. Amava profondamente l’Ungheria, ma da artista, da intellettuale. Non ne conosceva
nemmeno bene la lingua. Le sue lingue erano il francese e il tedesco. Ma anche
l’italiano. Restò per tutta la vita l’allievo esemplare di Czerny, ch’era stato
allievo di Beethoven. Ed è per questo che Liszt è forse il musicista
dell’Ottocento che più di altri ha capito il laboratorio di Beethoven, forse
perfino più di Brahms, che pure gli venne contrapposto. Ma di Beethoven non gli
interessava lo stile. Ne assimilò, invece, e lucidamente, la scrittura, i
procedimenti costruttivi, l’architettura
della forma musicale. Anche per Liszt un tema non è la sua configurazione
melodica, o non solo la sua configurazione melodica, ma anche il campo armonico
che crea, l’impulso ritmico che genera. Finì, anzi, per concepire il profilo
melodico di un tema come un figurazione astratta, un modo alla maniera dei modi
medievali, o popolari, da sottoporre a molteplici e sempre nuove
configurazioni, ritmiche, melodiche, armoniche. Il sistema suggerì forse a
Schoenberg la costruzione della serie. Liszt Imparò da Beethoven che un tema
non è dato una volta per tutte, ma si va formando via via che procede, e
l’ultima configurazione non è quella definitiva, ma solo l’ultima, che serba o
assorbe in sé tutte quelle precedenti, se non altro nella memoria
dell’ascoltatore, sicuramente nel cervello del compositore, e può realizzarsi
per accumulazione, ma anche per sottrazione, ridursi a niente, a un battito, al
silenzio, come nella Sonata in si
minore. Sotto questa luce le ultime quattro, tarde, rapsodie, sono
sconvolgenti. Fu probabilmente la lettura di queste pagine a convincere Bartók di
ammorbidire il giudizio negativo sull’uso della melodia popolare da parte di
Liszt, perché qui non poteva non riconoscere i fondamenti del suo stesso
procedere, del suo stesso sistema di rielaborazione delle melodie e dei ritmi
popolari. Vale a dire, una volta acquisiti, trasferirli su un altro piano,
quello dell’elaborazione colta, quell’elaborazione tematica che ancora oggi ci
sorprende nelle ultime sonate e negli ultimi quartetti di Beethoven, e che
ritroviamo, guarda caso, anche nei quartetti di Bartók. Maltempo qui abbandona
le sospensioni, i languori, le seduzioni melodiche, i rapimenti ritmici delle
prime rapsodie e si fa secco, duro, prefigura la secchezza e la durezza del
secolo successivo. Ci sono momenti in cui uno sobbalza: perché se non si
sapesse ch’è Liszt, si direbbe ch’è Bartók. Compresa l’estenuata dolcezza di
certe armonie, che non sono però più l’accarezzamento emotivo d’una melodia, che
ci rapiva nelle altre rapsodie, bensì l’estraniamento, l’allontanamento, si
direbbe, nei silenzi della puszta ungherese, all’aria aperta, Szabadan, in ungherese, titolo di una
suite pianistica di Bartók. Delicatamente, per gradi, a poco a poco, Maltempo
ci conduce così dal romanticismo al decadentismo, e alle prime, inquiete, e
inquietanti , visioni del moderno, al Novecento. Voltate pagina, qui si parla
di noi, di oggi, di adesso, sembra dirci. Rifacciamo il percorso dall’inizio. E
riascoltiamo le prime rapsodie, compresa la famosissima seconda. Ecco allora
che ci accorgiamo che quanto abbiamo creduto una prefigurazione del Novecento,
c’era già nelle prime, romanticissime, rapsodie. C’era soprattutto la perpetua,
ininterrotta elaborazione di un’unica idea musicale, la stessa ellittica,
imprevedibile avventura armonica, l’uguale predilezione di ritmi irregolari,
non squadrati. Ma maggiormente
insistita, diluita si direbbe in un discorso più familiare, più consueto, quasi
d’intrattenimento. E allora quella che ci pareva una insistenza decadentistica
si rivela per l’analisi lucida del procedimento armonico, della sorpresa
ritmica, dell’avventura melodica, che ora è recitazione, ora canto, ma mai
completamente canto o recitazione. L’ascolto si fa più consapevole. La mano del
compositore sembra appropriarsi della mano del pianista. E dalla prima
all’ultima rapsodia riconosciamo ch’è la stessa: quella di Liszt, dalla prima
all’ultima assimilata dalla mano di Vincenzo Maltempo. Ma con l’effetto
estraniante di una divaricazione temporale che Liszt ce lo rende insieme
lontano, romantico, e vicinissimo, moderno. Come se analisi e interpretazione
fossero la stessa cosa.
Di tutt’altro carattere la registrazione dedicata a tre pagine di
Schumann. Una delle maggiori difficoltà dell’interpretazioni di Schumann
consiste nella continua mutevolezza della pagina. Schumann non ama procedere
linearmente, per passi successivi, ama invece avanzare per opposizioni, per
contrasti, come se sentisse d’impaccio nell’elaborazione musicale i
procedimenti di passaggio, quelli che vengono chiamati ponti. Passa senza
preavviso da un tema all’altro, spesso non solo armonicamente diversi, ma
spesso anche di andamento ritmico e agogico diverso. Anche se magari la cellula
generatrice è la stessa. Il contrasto tematico, inoltre, da tonale tende a
farsi modale. Non a caso tutte le sue sonate sono di tonalità minore: fa diesis
minore la prima, fa minore la seconda – questa incisa da Maltempo – e sol
minore la terza. Come accade anche per Chopin. Il fatto è che nell’armonia
cromatica tipica del romanticismo il contrasto armonico nell’ambito di uno
stesso modo, si è indebolito. Già con Schubert si nota il predominio di
un’alternanza modale minore maggiore nei confronti di altri tipi di contrasto
armonico. Ma, come Liszt, anche Schumann
ha assimilato il procedere per continue varianti di un’idea iniziale, tipico
dell’ultimo Beethoven. Il tema non è dato una volta per tutte, ma si sviluppa
insieme al procedere della pagina.
L’amore per la crittografia spinge inoltre Schumann a cifrare i suoi
temi. Anche nei brani che non sono
sonate. Per esempio il Carnaval.
Tutti i temi sono ricavati dal nome del villaggio in cui s’immagina la sfilata
carnevalesca: Asch, che in tedesco significa cenere, come l’inglese ash. Nella
trasposizione musicale tedesca i suoni corrispondono a La bemolle, do, si. Il
suo retrogrado è si, do, la bemolle. Schumann ci gioca, come farà poi
Schoenberg con la serie. Come ha fatto Beethoven con la sigla Bach nei suoi
ultimi cinque quartetti. e come ha fatto Bach con il proprio nome per tutta la
sua vita. I giochi derivano da una secolare pratica contrappuntistica. Qui,
nella Sonata in fa minore, Schumann
gioca con un tema composto da Clara Wieck, la donna che diventerà sua moglie.
Ma gioca anche con il nome di Clara e con il proprio nome, crittati in sigle
musicali. Eric Sams, musicologo, crittografo, studioso di Shakespeare, ha dedicato
un bellissimo libro alla crittografia musicale schumanniana, Il tema di Clara, Milano, analogon, 20122.
Ma fondamentali sono anche i suoi studi sull’Amleto shakespeariano, e sul primo Shakespeare. Questo, tanto per
smentire la diffusa leggenda metropolitana sull’istintività e spontaneità
dell’invenzione dei poeti e dei musicisti romantici. Che l’effetto sia spesso
quello di un’istintiva spontaneità, nessuno lo mette in dubbio. Ma il punto sta
nel fatto che quella spontaneità non è un regalo del cielo, un dono delle
Grazie, ma il frutto di uno studio durissimo e di una lunga fatica. “Il
filisteo vorrebbe capire in un attimo ciò che all’artista è costato forse mesi,
anni, di duro lavoro”. recita un aforisma di Schumann. E un altro: “Mi piace,
non mi piace, dice la gente. Come se non ci fosse niente di meglio da fare che
piacere alla gente”. Schumann è compositore profondamente intellettuale,
difficile, talora quasi incomprensibile. E ci teneva a esserlo. La Sonata in fa minore nasce come Concerto senza orchestra. Ma Liszt osserva, giustamente, che non ha il
carattere di un concerto. Prevedeva, all’inizio due scherzi. Schumann ne
espunge l’uno e l’altro, ma poi ne reinserisce uno, e la chiama definitivamente
Sonata. L’interpretazione di Maltempo esaspera i contrasti, i mutamenti
improvvisi, inaspettati di andamento e di umore. Il carattere fondamentalmente
schizoide di Schumann viene messo in rilievo. Ma attenti! Schizoide, non
schizofrenico. Schumann non è pazzo, è un musicista immenso, che ha guardato più
di altri, forse, nei contrasti intimi della personalità di un artista, di un
uomo. Aristotele sosteneva che l’umore
malinconico è quello dei poeti e dei filosofi. La malinconia è quella
disposizione d’animo che si apre a tutte le disposizioni, può passare dall’una
all’altra: l’artista è artista perché capace di passare attraverso tutte le
disposizioni umorali dell’animo umano, come anche i filosofi. No si chiude in
un solo tipo psicologico, ma può comprenderli tutti. Ecco perché la sua
immaginazione può raffigurare le efferatezze di un criminale e la tenerezza di
una fanciulla che s’innamora. Queste almeno erano le teorie della medicina
antica, e di quelle dell’età moderna. La moderna neurobiologia, con altri
elementi sperimentali a diposizione, tende però a confermarne l’impostazione.
Nell’opera di Schumann sono presenti, comunque diverse personificazioni di
diverse disposizioni d’animo, Florestano, Eusebio, Maestro Raro, sono le
incarnazioni critiche di queste disposizioni. Nella musica si accostano, si associano
l’una dopo l’altra, l’una insieme all’altra. E’ questo perpetuo contrasto di
spessore armonico, di esternazione lirica, di ossessione ritmica che rende così
sfuggenti le sue pagine. Maltempo sembra volerci restituire la sorpresa di
queste improvvise irruzioni emotive e intellettuali attraverso l’irrompere
brusco di un nuovo ritmo, l’aggressione brutale di una dissonanza,
l’inaspettato distendersi di un canto in cui ogni tensione sembra placarsi,
salvo invece a sentirlo interrotto, il canto, da un nuovo assalto percussivo,
da un nuovo groviglio armonico. Le Romanze esaltano, nella loro libertà di
subitanee improvvisazioni, questi contrasti. Ma è poi nelle Humoreske che Schumann realizza una
meravigliosa sintesi d’improvvisazione e programmazione costruttiva. Allora
ecco che la musica sembra scivolarci nelle orecchie come nascesse via via sul
momento. La conquista di una così limpida fluidità non è l’ultimo segno di
un’intelligenza interpretativa che sembra squadernarci al cervello, oltre che
al sentimento, la pagina che ascoltiamo nell’attimo stesso in cui la sentiamo
suonare. Il segreto di questa intelligenza interpretativa sta in una
inesauribile variabilità del tocco. Il tocco si fa strumento dell’analisi
musicale, il bisturi che mette a nudo i nervi che sorreggono l’impalcatura
della composizione. Ma proprio perché tale strumento non è una fredda
esposizione delle differenze, ma s’incarna nell’esecuzione stessa,
l’interpretazione acquista quella ricchezza, quella mobilità musicale, in cui
l’intelligenza della lettura si confonde con l’emozione che la legge e la restituisce, come se
nascesse proprio lì, nel momento in cui è suonata e noi l’ascoltiamo.
Fiano Romano, 14 settembre 2016
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