ROMA. MACRO. Via
Nizza. NUOVA CONSONANZA. IL SUONO TATTILE. PORTRAIT IVAN FEDELE.
In collaborazione
con l’Ambasciata d’Estonia a Roma
Livia Rado,
soprano
Ensemble U:
Tarmo Johannes,
flauto
Helena Tuuling,
clarinetto
Merje Roomere,
violino
Levi-Daniel
Mägla, violoncello
Vambola Krigul,
percussioni
Taavi Kerikmäe,
pianoforte
Filippo Perocco,
direttore
Ivan
Fedele, Immagini
da Escher (2005),
per
ensemble
Aforisma
(2013), per flauto
Helena
Tulve Languse
ööl (nella notte di declino, 2006/2015)
versione
per flauto contralto, clarinetto, vibrafono, pianoforte, violino,
violoncello
Tatjana
Kozlova-Johannes Horizobtaalid
(2010)
per
flauto, clarinetto, percussioni, pianoforte, violino, violoncello
Ivan
Fedele Maja
(1999)
testo
di Giuliano Corti
per
soprano, flauto, clarinetto, vibrafono, pianoforte, violino, violoncello
Nuova Consonanza, la storica
associazione romana nata per la diffusione della musica contemporanea, come
ogni anno, tra novembre e dicembre, presenta diversi incontri e concerti, in
cui si disegnano ritratti di compositori di oggi, si ascoltano nuove musiche,
si riflette, con ascolti e seminari, conferenze, incontri, sulle figure
storiche dell’avanguardia romana, e non solo. Giovedì 10 dicembre c’è stato uno
stimolante incontro con Ivan Fedele. Una sorta di sguardo all’indietro e in
avanti sulla musica “contemporanea” (cioè, davvero di oggi, o al massimo
dell’altro ieri) a Roma e in Italia. Fedele ha messo subito le mani avanti. “La
musica è un’arte autoreferenziale. Do mi sol sono solo do mi sol”. Ciò non
significa però che la musica sia slegata dal mondo. E dalle altre arti. Una
corrente intellettuale ed emotiva unisce tutte le manifestazioni del cervello
umano. Ma ciascuna con una propria autonomia. La musica, a differenza di altre
arti, che offrono oggetti visibili e palpabili all’esperienza, si affida alla
sola percezione del suono: la percezione di una melodia è pertanto una
costruzione della memoria. E la memoria, il tempo, giocano un ruolo
predominante, nella musica. Questo sembra oggi sfuggire a molti giovani, che
invece si chiudono nella percezione del puro istante, del solo presente. Ciò
non toglie che d’altra parte siano moltissimi i giovani che si dedicano alla
composizione. Non sempre in maniera originale: la tecnologia facilita loro il
compito, ma sacrifica spesso anche la personalità. Si potrebbe obiettare che
questo, tecnologia o no, sia sempre avvenuto. Un mestiere, una pratica, è
sempre stata la base di qualunque musica. Ma anche nel passato i compositori
davvero originali si contano sulle punte delle dita. Tuttavia è vero che il
problema del nostro tempo, e non solo per la musica, sia una ricostruzione
personale, non anonima né banale, della memoria, il disegno cioè di un’opera
che registri sì le conquiste del passato, ma anche le trasformi, le rinnovi e
si protenda verso “nuove vie”, quelle che Schumann intravedeva nel giovane
Brahms.
Ma veniamo al
concerto. Il titolo, bellissimo, era “Il suono tattile”. Quasi una sinestesia
tra visione e ascolto, tra tridimensionalità spaziale, scultura o architettura
poco importa, e geometrie musicali. Ciò sembrerebbe confutare l’affermazione di
partenza che la musica sia un’arte autoreferenziale. Ma solo in apparenza. I
termini di confronto, infatti, vanno presi sempre in senso metaforico, così
come solo in senso metaforico si può dire che la musica sia un linguaggio. Del
linguaggio le manca, infatti, la modificazione o mutazione semantica: per
esempio la trasformazione di un singolare in plurale, casa/case. La mutazione
cambia anche il significato del vocabolo, denotandone il numero. Niente di
simile in musica. Una modulazione da do maggiore a sol maggiore
(semplicissima!) è solo una modulazione e non significa altro. Ma poi Fedele
ama giocare con i paradossi, che solo apparentemente negano l’assunto iniziale,
ma di fatto lo rafforzano ed evidenziano la distanza tra l’asemanticità della
musica e l’articolazione semantica del linguaggio. Tant’è, “Immagini da Escher”,
del 2005, trasferisce nell’inganno uditivo – una scala che sembra scendere e
invece sale, un suono che sembra più acuto di un altro, e invece è più basso –
l’inganno visivo delle figurazioni di Escher.
“Aforisma”, del 2013, per flauto solo (uno strepitoso, bravissimo,
pirotecnico, ma intensissimo Tarmo Johannes), sembra invece volerci proporre
lacerti di tempo, disegni che ritornano, quasi fossili della memoria. Qui si
apriva, nella serata, una parentesi, si lasciava l’Italia di Fedele e si
approdava in Estonia. Del resto il concerto era organizzato con la
collaborazione dell’ambasciata d’Estonia a Roma. Estone era il bravissimo
complesso strumentale Ensemble U. Italiano, però, il direttore, per le pagine
di Fedele. Come Fedele, anche Filippo Perocco è compositore. E si sente quando
dirige. Confesso di provare una certa affinità, per non dire attrazione, con i direttori che sono anche compositori:
hanno un modo di leggere la musica che sembra spalancarti la partitura sotto
gli occhi. Si pensi a Boulez. O a Bernstein. Devo a Bernstein la totale
reinvenzione di Schumann, finalmente eseguito con l’orchestrazione originale:
modernissimo! E a Boulez la rivelazione di un Wagner che sembra proiettarsi
avanti nel Novecento. Perocco è particolarmente sensibile alla materia del
suono. Sarebbe riduttivo dire sensibile al timbro. E’ qualcosa che viene prima
del timbro. Come se la produzione del suono venisse a poco a poco estratta, con
fatica e delicatezza, dal silenzio, e nel silenzio ripiombasse poi perdendosi
di nuovo e scomparendo. Tutto ciò si faceva evidente nell’ultimo pezzo di
Fedele da lui diretto: “Maja” (1999) su una poesia – non bellissima! – di
Giuliano Corti, per soprano, flauto, clarinetto, vibrafono, pianoforte,
violino, violoncello. Ma questo a dopo. Veniamo alle due giovani compositrici
estoni. Di Helena Tulve, nata nel 1977,
si è ascoltato “Languse ööl” (Nella notte di declino, 2006/2015). Aliti, soffi,
mormorii degli strumenti, come si volesse scendere alle origini del suono. E’
una musica materica, nel senso che lo spessore del suono sembra prevalere sul
disegno del percorso formale. Ma è un’illusione, perché di fatto la forma è
proprio questo: l’emergere del suono, l’apparire e scomparire della sua
percezione. Scrittura controllatissima. E mirabilmente controllata
l’interpretazione dell’Ensemble U (Tarmo Johannes, flauto; Helena Tuuling,
clarinetto; Merje Roomere, violino; Levi-Daniel Mägla, violoncello; Vambola
Krigul, percussioni; Taavi Kerikmäe, pianoforte), senza direttore. Il secondo
brano, di Tatjana Kozlova-Johannes, nata nel 1977, anche lei, s’intitola
semplicemente “Horisontaalid” (Orizzontali), composto nel 2010. Qui la materia
sonora si offre per quello che è, veramente puro fenomeno uditivo,
apparentemente disarticolato, ma in realtà definendosi proprio nell’emergere e
scomparire del suono, nelle differenti apparenze dell’onda, tra rumore, sibilo,
soffio e respiro. Quasi una sorta di aurora boreale del suono. Bellissimo!
Concludeva la serata, come s’è detto, l’ultimo brano di Fedele, “Maja”. Di
nuovo sul podio Filippo Perocco. L’intonazione della poesia di Giuliano Corti
era affidata al soprano Livia Rado. Voce duttilissima, che percorre una
difficile sillabazione quasi sussurrata, ma si estende poi anche in una sorta
di recitar cantando che sfocia nell’accenno, appena alluso, di una melodia. La
musica dice più di quanto dicano i versi. Sospesa nell’interregno tra il puro
dire senza canto e la recitazione canora di paesaggi interiori di attesa.
“L’anima zampilla dal sasso della vita” dice il poeta. La poesia della musica dice
altro: ciò che le parole non possono dire. E si resta con quell’interrogazione
che si chiede se la musica udita c’inviti a guardarci dentro o a protendersi in
un altrove che non si sa, che nessuno può dire. Ammesso che la musica, da sé,
possa, essa sì, dirlo. Successo calorosissimo per gli interpreti e per i
compositori, festeggiatissimi, insieme al direttore.
Fiano Romano, 11
dicembre 2015