giovedì 16 giugno 2022

Lamento di un emigrante paleologico dell'Africa

 





















DINO VILLATICO




LAMENTO DI UN EMIGRANTE PALEOLITICO DELL’AFRICA













Il nudo palcoscenico. Luce bianca. Visibili interruttori, corde, attrezzi sui muri. Silenzio assoluto. Si ode, dietro le quinte, una canzone alla moda. Suono gracidante, come da radiolina o lettore mp3, o ciò che sia, che funziona male. Una voce maschile: “Ma speggni ‘sto coso!” (l’inflessione dialettale va adattata al luogo della rappresentazione, qui uso un romanesco italianizzato, ma che deve diventare bolognese, veneziano, torinese, napoletano, milanese, a secondo della piazza). Di nuovo silenzio. La voce di prima: “E bùttate, no? Che aspetti?” Esce, imbarazzato, esitante, un giovane attore, jeans e maglietta, macchie di unto, qualche buco. L’attore può essere anche un uomo maturo o addirittura vecchio. Nel qual caso al posto della maglietta indosserà una camicia logorata, e aperta sul petto nudo. Sia l’attore giovane sia l’attore maturo o vecchio non si sarà rasato, o avrà addirittura la barba. Di nuovo la voce, da fuori: “A scemo! Ma che, nun te sei cambiato? Torna indietro!” L’attore guarda verso la voce, alza la spalle. La voce: “Vabbe’, fa’ come cazzo te pare. La figura del zozzone ce ‘a fai te”. L’attore alza gli occhi al cielo, come a dire “sono un zozzone?”. Anzi bisbiglia le parole della domanda. Guarda il pavimento. Alza gli occhi, si accorge del pubblico. Fa un ghigno di sorpresa, quasi un lamento, come ingoiasse il fiato. La voce, da fuori: “Ma che, nun ce ‘o sapevi che oggi c’è ggente? E’ prova aperta, oggi, a pischellé (o “a stordito” “a mummia”)! E daje, attacca!” L’attore si compone, si pulisce la mani sulla maglietta. Il vecchio si abbottona la camicia. S’inchina al pubblico. Sorride. Allarga le braccia in segno di rassegnazione e dà uno sguardo tra le quinte. Poi, piano, che quasi il pubblico non lo sente:


L’ATTORE Boh! Che cazzo. M’immaginavo un’altra

scena, un altro teatro, che stronzata.

Mi tocca. Sempre l’ultimo, che palle,

mai che qua mi si avverta, porca troia.

LA VOCE da fuori: Ma che bisbigli, a frocio? Statte carmo,

e nun dì parolacce che ce fai

‘na figura de mmerda. Daje, attacca,

che qua nessuno sta cor cazzo ‘n mano.


L’attore guarda fuori, tra le quinte. Resta perplesso. Guarda il pubblico. Sta zitto. Si ficca le mani in tasca.


LA VOCE urlando: A stronzo! E te voj dà ‘na mossa? Attacca!

L’ATTORE a voce piena, quasi urlando:

Ci avete fatto caso che un attore…

subito normale:

Ci avete fatto caso che un attore,

quando comincia sembra che comincia

sempre per caso? Forse era per caso

che anche il disgraziato che vi parla

oggi con la mia voce, il personaggio

che rappresento, qui, su questa scena,

un povero pezzente, un nostro antico

progenitore, capitato, come

tanti altri, come tanti sventurati

di sempre, dal paese dov’è nato,

giù nel sud, anzi no, nel sud del sud,

in Africa - là dove solo fame

c’è, guerra, pestilenza - capitato,

o piuttosto catapultato, come

un sacco d’immondizia, qua da noi,

nelle terre felici, nelle terre

che pensava felici, e dove trova

invece ancora fame, ancora guerra,

e altre pestilenze, era per caso,

dico, che anche lui, quel disgraziato,

quel figlio di nessuno, tutto nudo,

da incutere vergogna, quel suo corpo

pieno di piaghe, sporco, puzzolente,

quasi un po’ come me …


Ride.

Guardate questa

cosa che porto addosso. Una maglietta1?

Chi sa. Lo era. Ma da qualche tempo

ha smesso la funzione di maglietta.

E forse lui, nemmeno questa cosa

portava addosso, lui nemmeno questo

cencio logoro e sporco aveva indosso.

In Africa, da dove viene questo

pastore errante, questo migratore,

questo infelice nomade irrequieto,

in Africa giravano, e può darsi

vanno per la savana nudi, nudi

ancora come un tempo, e nudi tutti

anche nelle foreste, come appena

usciti gocciolanti dalla pancia

di mamma. Ma nessuno ci faceva

caso. Nessuno ci fa caso ancora

adesso in quelle selve, nei deserti,

nella savana. Ma perché non sono

che selvaggi, che vagabondi, senza

morale e senza legge, senza niente

di umano, sono scarti, sono bestie.


Si arresta. Riflette. Ridendo:


Proprio come gli attori. Nudi e sporchi.

Che vagano di piazza in altra piazza.

Un tempo a noi nemmeno ci era data

una tomba. Straccioni, vagabondi,

animali. Da vendere e comprare

per il gusto di un’ora, e poi buttare

via. Passarci magari anche una notte.

Al mattino, però, via dalla porta.

Proprio come quei negri disgraziati. -

Negri, si negri. Mica neri, mica

uomini, come noi, ma bestie, scarti

della specie dei sapiens, o se mai,

come sarebbe meglio, più preciso,

dire - dove starebbe poi la sua

saggezza? - della specie degli insipiens.

Sì, proprio come noi attori: scemi,

che la scemenza la portiamo in giro,

ce la scriviamo dritta sulla faccia.

Se no, e che, ce lo ficchiamo in testa

che giù ci stanno, e guardano, i più furbi,

quelli che non si vendono per pochi

spiccioli al botteghino, che le mani

se le ficcano in tasca, per sé stessi,

e mica, come noi pezzenti aperte

le sbattono qua sopra a domandare

ai furbi di là sotto che per grazia

ci donino la paga di un applauso.

La dignità, che cazzo, un po’ di sana

dignità. Ma che grazia! Lavoriamo,

e il lavoro si paga. Se non sbaglio,

ce lo dice anche la Costituzione.

Tutto uno scherzo, qualcuno ci dice,

che lavoro si paga. Dove? Quando?


Si fa serio:


Noi, però, noi attori dico, qualche

straccio ce lo mettiamo addosso. Mica

siamo davvero poveri straccioni

tutti quanti. Qualcuno si arricchisce,

anzi, e fa pure vita da signore,

o se è una donna, e s’è per giunta bella,

fa vita da puttana. Loro, invece,

i negri, gli africani, bàntu, zùlu,

no, nudi come scimmie, con il cazzo

e con il culo all’aria. Li chiamiamo

anzi zulù, per dire che non sono

altro che dei selvaggi, e che per questo

sono sfigati, perché sono solo

dei selvaggi che girano col culo

e con il cazzo al vento. Ma nessuno,

da loro, ci fa caso. Riflettete.

Perché lo fanno tutti, culo e cazzo

al vento tutti quanti. Che ficata!

Ma se da noi facessimo lo stesso?

Esci di casa nudo come un verme,

nudo che il cazzo balla sotto gli occhi

di tutti quando passi tra la gente.

Sai che casino. Viene un poliziotto

e ti porta in questura. E lì ci resti.

Oltraggio al senso del pudore. Senso

della vergogna. Ma di chi? Di quello

che lo spiattella, nudo e scappellato,

o del pudico che lo guarda e sbotta:

mamma mia! Se d’orrore o meraviglia,

non si sa. Che magari il manganello

non gli fa senso, ma se mai lo intriga,

e gli ingarbuglia il sangue nelle vene.

E sai, mi viene da pensare: quando

è successo che un cazzo, che una fica,

se dondolati e sparecchiati crudi

e nudi, per la strada, scoperchiati,

aperti, fanno scandalo? Che schifo!

Ma copriti, vergogna! Fanno schifo?

Ma davvero? Di giorno fanno schifo,

e di notte si cercano? Che idea

tortuosa i sapiens hanno maturato

della morale! Quanto conseguente,

poi! Alla luce offende ciò che al buio,

di notte, piace. Occhio non vede, cuore

dunque non duole. Il male è male solo

se si vede. Lezione da imparare.

Lezione che il selvaggio, soprattutto

se negro, se africano, dovrà sempre

tenere a mente, quando viene al Nord,

quando oltrepassa il mare, e ci contatta,

noi gente della storia, lui che viene

dalla preistoria. La separazione

dei mondi è netta. La separazione

tra il mondo che sta sotto, l’incivile,

il preistorico, l’arretrato, e il mondo

che sta sopra, il civile, l’aggiornato,

il dominante. L’incivile deve

adeguarsi, ubbidire, sottomesso.

Selvaggio è chi le cose le realizza

alla luce del sole, anche le cose

che ci sembrano, e sono, sono brutte.

Ma civile è chi poi le cose brutte

le fa solo di notte o di nascosto,

quando nessuno vede, e sono cose

perciò che non esistono, che nessuno

potrà testimoniare, confermare.

Chi sa, però, tra questi, chi del mondo

di sotto, chi di sopra, sarà il mondo

degli attori? Selvaggi, imbarbariti,

ritardati, intrattabili, incivili?

Né démoni né dei, che cosa, dunque?

Un mondo ch’è nel mezzo, né di sopra

né di sotto? Di mendicanti, quasi

selvaggi, quasi negri, ma non fanno

paura? O la paura è dappertutto,

nel mondo ch’è di sotto e ch’è di sopra?

E questo accapigliarci, questo buio

che gli occhi ce li strappa dalla testa,

è la paura di lasciare il mondo

dove si vive bene per andare

nel mondo dove tutti si sta male?


Si ferma. Riflette. Poi, d’un tratto:

Qui, però, ci s’impone una domanda.

Ma se i selvaggi fossimo noi altri,

che ci fa senso un cazzo? Non, invece,

chi gira tutto nudo, tutto il giorno,

come dicono che da quelle parti,

sembra, ma non so dove, fanno tutti,

e perfino s’intubano il pisello

dentro un astuccio. Ma che stramba idea!

Una guaìna per il cazzo. Forma,

che so, di protezione o esibizione

di potenza. L’ha sempre avuta, il maschio,

questa smania di sbandierarlo in faccia

a tutti il suo stendardo, il suo vessillo,

il cazzo, oh lui ce l’ha: prudenti, guai

a stuzzicarlo, a sminuirlo, a farne

un oggetto di beffa, che s’incazza.

Perché, chi non lo sa, in ogni maschio

smisurato è l’orgoglio che ha del cazzo.

Ci ha costruito, non a caso, sopra,

la giustificazione del dominio:

sulle donne, sui popoli, su tutto.

Entro dunque nel ruolo, e anch’io mi svesto.


Si toglie la maglietta, o la camicia. Resta a torso nudo. Si strofina il petto.


Ecco, così. Per ora, basta. Dopo,

dipende dalla recita. Da quanti

apprezzano la mia recitazione.

A quella, la recitazione, deve

il pubblico rispetto. Se il mio corpo

gli garba o non gli garba, è un altro conto.

E qui non c’entra. Sono quasi nudo.

Non è questione di guardarmi, adesso,

quanto di tollerarmi. Il nudo scopre

non solo un corpo. Ma se sei capace

di sopportare la sua nudità,

di non lasciarti offendere dal senso

che sentirai di repulsione, oppure,

vergognandoti, di fascinazione.


Si ferma, guarda il pubblico:


Non applaudite?


Aspetta l’applauso, se arriva, si batte il petto:


Ah! Ecco. Dicevo.

Vuol dire che vi garbo. Mi sta bene.

Il garbo è già un principio di consenso.

A che cosa, lo si vedrà più tardi.


Se il pubblico non applaude:

Non una risatina, un mormorio?

Ma non vi garbo a torso nudo? Strano.

C’è chi mi pagherebbe per vedermi.


Se il pubblico a questo punto applaude:


Lo dicevo. Sapete valutare

chi è fico e chi scamorza. Ma non c’entra.


Se il pubblico non applaude:


Lo dicevo. Tra quelli da scartare,

è questo che di me tutti pensate.

Anche lui solo un negro. Solo un negro

di attore che si sforza di sembrare

uno che non è negro, non attore.


Pausa, poi riprende, sia che ci sia stato l’applauso, sia che no:


Andiamo avanti. L’Africa l’abbiamo

superata, lasciata. Sono un altro

che scappa, che non trova pace. Nudo,

nella mia terra, denudato, quando

vado tra gente che si veste. Nudo,

nella savana, nelle selve, nudo

tra la mia gente. Qui mi vesto. Devo

farlo, tra gente che si veste. Sanno

che in realtà mi travesto, non mi vesto.

Ma non importa. Fingere un vestito

farà sembrare che lo indosso. Questo,

è del resto il teatro. Che vestito,

o nudo, mi presento con indosso

un vestito, la stoffa dei miei jeans,

o la mia nudità. Fossero solo

a coprirmi gli slip, un tanga, i boxer.

L’etichetta incollata sulla pelle.

Se no, non solo vengo imprigionato,

ma mi sputano addosso, sono morto.

Mi ficco un paio di jeans e una maglietta2.

Indosso un ruolo. Di emigrante, attore,

la differenza è minima. Il pudore

di non essere chi si è. Pensate.

E se l’attore è anche lui, scappato

non si sa più da dove, un emigrante,

uno che scappa da quando è venuto

al mondo, che scappava già suo padre,

e scappava suo nonno, il suo bisnonno,

che scappavano tutti non sapeva

da quanto tempo, forse già dal primo

sapiens, dalle foreste, dalle grotte.

Ma lui, quando scappava, quando aveva

paura sempre di qualcuno dietro

che lo inseguiva, che voleva farlo

fuori, ma lui, chi glieli dava i soldi

per un vestito? Dite che mi sbaglio,

che me l’invento, dite che a quel tempo

non c’erano vestiti. Ma sì, certo

che c’erano. Magari pelli, stracci

di lana che pungevano la pelle.

Nudo, sporco, fetente che faceva

schifo più che pietà. Del resto tutti

i poveri del mondo fanno schifo.

Fanno più schifo che pietà. Non sembro

anch’io uno di loro? Ma, vedete,

il fatto è che lo sono. Non lo schifo,

ma povero. L’attore fa la fame,

che credete, non sono tutti divi

che hanno una piscina sotto casa.

Per un divo che sguazza nella grassa,

per uno che ha venduto il culo - mica

tutti, ma ce ne sono che lo fanno -

per una che l’ha data - e ce ne sono -

prima che un culo, un’altra fica, o tutto

il cucuzzaro, e fica e culo, e quanto

vuoi, potessero a peso, a fette, a sniffi,

pagarselo e pagarsela, milioni

di guitti, commedianti, attori, attrici,

fanno la fame, tirano la cinghia.

Adesso ve lo spiego. Per esempio.

Viene la peste, e che si fa? A Londra,

a Parigi, a Venezia, in tutta Europa,

si chiudono i teatri. Shakespeare diede

gratis il culo al conte di Southampton.

O il conte a lui, chi sa: per uno come

Henry, appena ventenne, che è più donna,

che uomo, master mistress of my passion,

come lo chiama in un sonetto il bardo,

allora già sui trenta, o l'uno e l'altro,

a ruoli alterni, il culo e il cazzo, e l'arte

ficcati con finezza in ogni parte

e ci aggiunse l’Adone e la Lucrezia -

lo stupro, sì, lo stupro di Lucrezia,

The Rape of Lucrece, mica il ratto, come

straparlano i poetastri che non sanno

l’inglese ma si piccano a tradurlo -

e gli regala anche i sonetti, mette

una dark Lady a complicare il gruppo,

ma guarda tu che cosa deve fare

un attore, un poeta, un drammaturgo,

si chiami pure Shakespeare, se non nasce

dai lombi giusti, e i lombi deve usarli,

per arrivare con la pancia piena

alla fine del mese. E gli andò bene,

perché il giovane conte Wriothesley3, il biondo,

il bellissmo Henry, ricambiava

la scelta e in più gradiva l’alternanza,

e perciò lo protesse dall’invidia

dei rivali a teatro e nella vita.

Oggi non è cambiato niente. Arriva

un’infezione dall’Oriente, un’altra

forma di peste, un virus con le corna,

nasce una pandemia, e che si pensa

come primo provvedimento, come

prima difesa generale? O via!

Si chiudono i teatri. Elementare,

Watson! Elementare un cazzo, cazzo!

Le chiese no e i teatri sì?

Supermercati no, ma i teatri

sì? Che logica paracula! Dio,

e finocchi, carote, agnelli, polli

sconfiggono per uno a zero tutti

gli attori e se ne fottono alla grande

se chiudono le porte dei teatri.

Porca puttana, mondo di scartoffie,

come il diavolo fa nel Faust di Goethe,

oh! se mi piacerebbe presentarmi

davanti al trono e dirglielo sul naso:

fai schifo! Altro che i cenci di un pagliaccio,

gli stracci di un attore, la mia biacca

da quattro soldi, questi miei vestiti

sporchi per la miseria, lerci, lisi,

sbrindellati dagli anni, stropicciati,

unti, bisunti, dallo sfregolio

delle nottate insonni, dallo struscio

di puttane e mignotte, di marchette

più lacere di me, che c’impazzisco

per tutte le occasioni andate a vuoto. -


Ammutolisce. Si guarda le mani. Guarda in alto. Guarda dietro le quinte. Guarda il pubblico.


Ma sto perdendo il filo.


Si ode la solita voce, fuori: “E meno male che te ne accorgi puro te!”


L’ATTORE (urlando, verso la voce) Ma che vuoi,

testa di rapa, minchia moscia, frocio?

Non era questo il patto? “Alza le chiappe!

Bùttati! Salta sulla scena, parla,

di’ quello che ti pare, la cazzata

che t’esce dalla bocca, e improvvisa,

come nell’Arte, è il tuo mestiere, avanti!

il soggetto lo sai, come conosci

il personaggio, un povero selvaggio,

un marocchino, un negro, un disperato,

un lercio, un clandestino, un immigrato,

uno scarto del mondo ch’è scappato

dalla miseria, dalla guerra, un morto

di fame che non sa nemmeno dove

è arrivato, da dove, e per che cosa”.

Si ode di nuovo la voce da fuori: “Avanti! E smettila. Nun fa’ tante storie.”


L’ATTORE guarda fuori, verso la voce, fa cenno di sì con il capo, poi guarda il pubblico, e riattacca:

Tutte le storie hanno un inizio, tutte

una fine. Soltanto questa sembra

non volere nemmeno cominciare.

D’accordo: riprendiamo il filo. Sempre

botte, insulti: funesto il dì natale

per il povero attore. Ricomincio.

Dicevamo. Ma dove ero rimasto?


La voce, da fuori: “E daje! Fatte sotto. Nun svicolà, come sempre. Che razza d’imbranato!”

L’ATTORE tutto a un tratto serio, si carezza il petto nudo, se lo gratta, guarda in alto, poi fuori la scena, e infine il pubblico. Attacca con la voce sopra le righe, acuta:


Sempre per caso l’infelice uscito

dalla sua tana, capita e si perde …


(con voce normale:)


Sempre per caso l’infelice uscito

dalla sua tana, capita e si perde

nella foresta, in un deserto, come

anch’io adesso mi sono perduto

su questa scena, in mezzo a voi, sospinto,

più che dalla paura di sbagliare -

come tutti, del resto, come tutti,

qual è l’attore che non ha paura

di cominciare quando invece deve

cominciare? Comincio. Mezzo nudo,

non sono più quell’io, l’attore, morto

di paura, perché non sa di quale

altra paura, o meglio, con che voce,

con che parole dire la paura

che il sapiens ha da quando è nato, immensa,

incontrollata, di delucidare,

come una cosa ignota, agli altri, proprio

quella stessa paura che hanno gli altri,

anche gli altri, e di lui. Voi, ce l’avete?

Guarda il pubblico, come se aspettasse una risposta, aspetta un po’, se qualcuno del pubblico risponde, sorride, se non risponde nessuno, scrolla le spalle, e in ogni caso riattacca:


Ecco, quel disgraziato non sa niente

di sé, degli altri che non trova, o trova,

del mondo in cui è capitato, e chiede,

con gli occhi al cielo, con gli occhi alla terra.

Ma chiedere che cosa al mondo, al cielo?

Invocare da chi, un’assistenza?

Dalla Luna, dal Sole? Dal mio Totem?

Alle mie spalle resta la savana,

cedo all’azzurro di quest’altro lago

l’ocra della sua terra screpolata,

lascio la mia foresta alle mie spalle,

e gli altri fiumi, gli altri laghi, dove

nuotavo da bambino, e lascio dietro

le spalle le pozzanghere fangose

dove sguazzavo con i piedi nudi,

e schizzavo sui corpi dei bambini

che giocavano insieme a me gli spruzzi

del pantano e gli sputi delle nostre

risate, poi ruzzolavamo insieme,

scivolavamo allegri nella guazza,

e lascio alle mie spalle le frustate

di mio padre, gli strilli di mia madre.


Guarda il pubblico, si siede per terra:


Nella vita di ognuno c’è qualcosa

sempre, qualcuno, che si lascia indietro,

o che ci lascia. E dietro, si fa il vuoto.

Davanti si spalanca un altro vuoto.

Succede a tutti. E succedeva all’uomo,

quell’altro che io sono adesso, un uomo

venuto via dall’Africa, e si perde

in questa nuova terra, in questo nuovo

deserto, fosse pure una foresta,

la selva in cui si perde ogni uomo, quando

v’inoltra per la prima volta il piede.

Ecco. Ritorno a fare il disgraziato.


Si alza, guarda davanti a sé, i due lati della scena, fa il gesto di scrutare l’orizzonte con la mano sugli occhi:


Il confine dell’ultimo orizzonte

mi si stende davanti e io non vedo

ancora tramontare il sole, prima

che sullo stesso limite poi scorga

emergere la luna, come un disco

che si sporga dall’acqua e faccia chiaro

lo spazio che attraversa; non avevo

nel giorno altro veduto che deserti,

davanti a me, e lande desolate,

immensi spazi, sabbie arroventate,

mai un albero, un filo d’acqua, un occhio

di vivente che guardi nel mio occhio.


Si porta la mano alla bocca, la bacia, incrocia le braccia, afferrandosi a lati, come se si abbracciasse. China il capo in mezzo alle braccia. Si scioglie dall’abbraccio. Alza la testa e guarda davanti a sé:


Il limite, il confine della terra,

quello che immaginavo collocato

dopo l’ultimo passo nel deserto,

solo l’ultimo di un seguente, il primo

di una non avvistata muova terra,

è non trovarli, un limite, un confine,

ma il solo dentro il quale m’è concesso

di muovermi, partire, ritornare,

e se ripenso al mio cammino, vedo

le orme sulla sabbia, ma non vedo

il piede che le scava, il corpo stanco

che vi affonda e stramazza. Sono solo,

in una landa sterminata, vedo

pianure sconfinate, vedo in fondo

montagne irraggiungibili. Spuntate

come mostri dal ventre della Terra.

Un’anima che soffre, una feconda

vulva di tutte le cose che vedo,

è l’anima del mondo, il territorio

di chi vive e di chi la vita soffre

come una propria colpa, una sentenza

di condanna, conoscere è soffrire.

La fossa, questa vulva della terra

che ci espelle, ma che non ci sostiene,

sta sempre spalancata sotto i piedi.

Vedo me stesso immerso nella fossa

delle cose, nel brulichio convulso

d’infinite creature scorticate.

Il più nudo, il più spoglio e scorticato

di tutte le creature. Dove vado

si spostano i confini, stanno sempre

più in là, oltre la vista che misura,

i limiti e i confini, l’orizzonte

che supponevi di toccare, l’orlo

del Mondo, che bramavi, il filo

che separa questo quaggiù dal cielo.


Volta le spalle al pubblico, va verso il fondale – o verso il punto della scena dove c’è un interruttore – spegne la luce, la scena piomba nel buio, e si sente l’attore che scoppia a ridere. Ma presto il riso si converte in pianto, l’attore singhiozza, riesplode la luce, l’attore ha la mano sull’interruttore:


Ma conficcato, invece, sta, può darsi,

dentro il cervello, il limite inseguito,

s’innalza e si consuma, sbriciolato,

dentro la mente di ciascuno, dentro

la mente stessa della sua famiglia,

dentro il corpo del suo villaggio, dentro

la nebbia degli estinti, dentro il fuoco

che si brucia per gli antenati, dentro

il fumo degli spiedi che si rizza

come un serpente, o come l’asta

di un cavallo che cerca la giumenta,

e sale in alto fino al tetto scuro

della capanna, al ruvido soffitto

della grotta, su in alto fino al niente,

ogni confine, il limite che costringe,

insieme ai nostri corpi, anche la testa,

ci comprime il cervello, ci consuma,

ci fa tenere bassa sopra i piedi

la testa, e misurare cauti il passo,

attenti che il seguente non ci butti

nel precipizio di una bocca aperta.


Lascia la parete del fondale e ritorna al centro della scena:


Dentro la grotta di una stessa gente

alzarsi ho visto limiti, confini:

qui s’arresta il tuo piede, qui non passa

la tua mano, ti dicono decisi.

Non guarderai la faccia – non provarci! -

di mia sorella. La passiamo insieme,

ancora insieme, questa notte, amico,

ma da domani noi cammineremo

divisi. E quando arriveremo dove

penseremo che finalmente stiamo

bene, forse qualcuno troveremo

che lì ci aspetta. Avremo attraversato

e fiumi, e laghi, avremo camminato

per i deserti, avremo conosciuto

foreste che non sono le foreste

che abbiamo abbandonate e che, lasciate

alle spalle, ci ricordiamo ancora,

ancora ci tormentano nei sogni,

ancora le desideriamo, e fanno

di giorno gli occhi rivoltarsi indietro,

di lacrime addensarsi le pupille,

ma saranno, queste altre che vedremo,

altre foreste, fusti mai veduti

di alberi strani, e fiori sconosciuti.

L’abitatore di quei luoghi forse

ci piacerà, gli baceremo allora

la sua bocca. Ma se sorprenderemo

un occhio torvo, un gesto ostile, oppure

solo se non ci piacerà il suo viso,

lo uccideremo, lo faremo a pezzi,

ci sarà nutrimento per quel giorno.


Si toglie lentamente i pantaloni. Li butta per terra. Resta con le sole mutande, preferibilmente dei boxer. Muove le gambe come in un esercizio per scaldare i muscoli. Si stanca. Si siede per terra:


Ma dove vaga, pazza, la mia mente?

Intanto, mentre penso, mentre parlo,

ecco, s’è fatta notte. Ecco che spunta,

come ogni notte, nel cielo, la luna.

Eccola! Già la vedo: su quel filo

di luce bianca, a poco a poco sorge

la sua faccia, che sembra, quasi, oddio!

la faccia di un cadavere, la smorfia,

la maschera di un morto, coricata

sulla lama laggiù dell’orizzonte.

E mi ricordo quando in questo modo

nella terra lontana che ho lasciato,

io bianca come questa la guardavo

sorgere all’orizzonte, la vedevo

spaurito, come avviso di sventura.

La faccia di una maga, di una strega,

la fattucchiera che succhiava i feti

delle ragazze: vile, lo sciamano

le possedeva e, dopo qualche mese,

squarciava il loro ventre, ne strappava

quei pupazzi maligni. Li gettava

alle bocche fameliche di donne

invelenite, di ragazzi ancora

imberbi, ma furenti e imbestialiti.

La luna mi ricorda questi riti.

Io la guardavo pazzo di paura,

tremavo nel midollo dentro l’osso

che sentivo nel cranio scricchiolarmi.

Anche adesso la guardo spaventato.

Risorge dal profondo e nero abisso

dell’Oceano, mostra la sua faccia,

per farmi male, viene ad annientarmi.

Dalla bocca vedrò sputare il sangue,

tutto il sangue di tutte le ragazze

violentate, sacrificate, fatte

a pezzi, e poi distribuite, date

a tutti come pasto di fortuna.

Ti porterà fortuna. Questo sangue,

giovinetto, ti porterà fortuna.

Bevi, e serbane in bocca la sua traccia.

A te e alle tue donne si offriranno

da questa morte vite nuove, nuova

risurrezione dalla vostra morte.

Il sapore del sangue guarirebbe,

dice, qualunque malattia, qualunque

maledizione. La maledizione,

dice, e la malattia sono la stessa

cosa. Ma tu ne guarirai. Se bevi

questo sangue. Ho bevuto, disperato,

il sangue delle vittime. Ma resto

disperato. Mi sento in corpo, sempre,

la stessa malattia. Sorgi, luna, sorgi.

Sorgi, e tramonta. Io dormirò sfinito

da questa mia paura. Ma tranquillo.

Nel sangue di ogni ucciso, in ogni morte,

io riconoscerò, spaurito, il sangue

che mi palpita in bocca, la mia morte

io riconoscerò nel suo morire.

Ecco l’erba. Ecco là un ruscello. Dormo,

nessuna luna mi potrà cacciare

nelle vene il veleno del suo ghigno

di fattucchiera. E sognerò beato

lo straniero che accolga la mia fuga,

io non lo ucciderò, sulla sua bocca

poserò la mia bocca, e con il bacio

sigilleremo il patto di amicizia.

Sposerò sua sorella. Chi sa che una

nuova vita vivremo insieme tutti,

un nuovo patto, in una nuova terra,

una tribù di sangue misto. Sangue

forte che avrà dominio sulle terre

del mondo, fino all’ultimo orizzonte,

alla battigia che lambisce lento

l’Oceano, mi abbraccia in un amplesso

infinito la Terra. Oh, sì, lo sento.

Oh, sì, dormiamo. Cancelliamo il giorno

che mi vide spezzare di un ignoto

insieme al collo la sua vita. Il trivio

di cui sbarrava il passo, non sapevo,

non divideva solo il mio cammino,

ma segnava un confine al mio destino.

Il giorno dopo non sarebbe stato

il giorno dell’incontro, ma sarebbe

stato un giorno diverso. Nella notte,

nella profonda notte dei ricordi

che non si vuole ricordare, il giorno

dell’uccisione seminava i semi

da cui germoglia l’incubo di stare

al mondo. Dai germogli, attorcigliati,

adesso mi si avvinghiano, spinosi,

i rami della mia paura, in ogni

mio risveglio, per ogni notte in cui

dormendo sogno quella mia paura.


Si sdraia, assume una posizione fetale. Si tocca l’inguine. Infila la mano negli slip o nei boxer. Volta le spalle al pubblico. Il corpo si agita. D’un tratto si ode un gemito. Il corpo s’immobilizza. Lentamente si toglie le mutande. Resta completamente nudo. Resta un po’, nudo, sdraiato, con le spalle al pubblico. Infine si alza. Si volta verso il pubblico, lo guarda:


Ma il Sole sgombrerà tutte le nebbie

della Notte che, trasmutando faccia

mentre attraversa il cielo, offusca e opprime

la Ragione. Ma che Ragione, e quando

me la vedrò svelata, in questo cupo

caos dell’Universo, nel trambusto

celeste che scompiglia anche la Terra,

in quest’incubo bieco che mi grava

sulle spalle, mi schiaccia, come il peso

di una montagna che mi sia crollata

addosso, e che mi sento tutta quanta

schiacciarmi come un verme sulla terra?

e troverò mai la ragione, il senso,

di questa imperscrutabile Ragione

che domina e scombina il mio destino?

Tutto mi è oscuro, tranne il mio dolore.


BUIO.




Roma,17 settembre - Fiano Romano, 24 settembre 2018 – riduzione teatrale 22-23 settembre 2021

Revisione, aggiunte, Fiano Romano, 1 – 4 marzo 2022

1Naturalmente, se l’attore indossa una camicia, dirà “camicia”.

2Se maturo o vecchio dice: camicia.

3Per la pronuncia del cognome Wriothesley, cfr. https://www.youtube.com/watch?v=dlIVohfaUbk.