giovedì 1 dicembre 2022

Roma, Teatro dell'Opera: Dialogues des Carmélites. Interrogazioni sulla vita.

La serie di ritratti femminili che, ad apertura di sipario, occupa l'intero fondale della scena ricorda la serie di ritratti degli zar di Russia - e l'ultimo era Gorbaciov - che nel 1994, a Salisburgo, apriva la rappresentazione del Boris Godunov di Musorgskij diretto da Claudio Abbado e messo in scena da Herbert Wernicke. Ma il senso è diverso. Là la serie di potenti che hanno dominato e devastato la Russia, qua le dame aristocratiche destinate alla ghigliottina. I rettangoli dei ritratti si trasformano via via che procede l'azione, in confessionali, corridoi di un carcere, ghigliottina: sconvolgente il velo bianco che crolla ad ogni testa di condannata che la ghigliottina tronca. Alla sciabolata, in orchestra, della lama che cade corrisponde, sulla scena, il velo silenzioso che crolla. È forse l'idea più geniale di una messa in scena per altri versi non del tutto in tema. Ma questa volta ho incontrato difficoltà a esprimere il mio dissenso da talune scelte di Emma Dante. Perché le ragioni del mio dissenso sono opposte a quelle che pregiudizialmente, da parte soprattutto dei melomani insensibili alle leggi del teatro, condannano qualsiasi messa in scena moderna o, come dicono (sbagliando) "attualizzante". Ogni messa in scena è di fatti "attuale", anche la più realistica, anche la più fedele alle didascalie. Ed Emma Dante è straordinaria non già nell'attualizzare il senso di un'opera, ma nell'intendere come già attuale l'opera stessa. Che è, poi, ciò che fa sempre il vero teatro. No, il mio dissenso, che è solo parziale, è se mai proprio sul fatto che questa volta Emma Dante non è stata radicale fino in fondo, o almeno così mi è parso, non è stata, come suole essere, problematica o i problemi evidenziati sono esterni al senso più intimo dell'opera. A mio avviso ciò è dipeso dal fatto di non aver preso sul serio la vocazione delle monache. Dice Emma Dante che la loro è una scelta "poetica", "non fanatica". Che vuol dire? Vero che molte di esse, e soprattutto Blanche, trovano nel convento un rifugio e una difesa dal mondo maschile di fuori che le spaventa. Ma nemmeno lì trovano la tranquillità che cercano, perché i fantasmi che le perseguitavano le hanno seguite dentro di loro nel convento. Ma basta allora rappresentarle come guerriere che combattono un nemico? Paradossalmente, già femministe, anche se inconsapevoli, e martiri? C'è anche questo, è vero. Ma non solo questo. Anche il non credente dovrà, infatti, arrendersi alla fede del credente nella trascendenza. Ed è a questa trascendenza che le suore si appellano. Che poi, una forma di trascendenza c'è nella vita di chiunque: è ciò che non sappiamo, ciò che non abbiamo determinato ma che è stato determinati da altri o da altro per noi, per esempio nascere in un quartiere chic di New York o in una favela di Rio de Janeiro. I greci lo chiamavano Fato. Ma il nemico di cui qualche volta parlano queste monache non è solo quello esterno, è soprattutto dentro di loro. È il silenzio della trascendenza, l'estraneità del reale alla vita individuale di ciascuno, la solitudine nei confronti della sofferenza, della morte. Sartre, contemporaneo di Bernanos, ma ateo, parlerebbe di estraneità all' "altro", che è la stessa esistenza. Che la madre superiora muoia con la paura della morte è la dimostrazione che la battaglia interiore contro o per la trascendenza è perduta: c'è solo la terribile immanenza dell'annientamento. È il momento più tragico dell'opera, più tragico perfino della ghigliottina che nel finale uccide le 16 suore. Dio mi lascia sola con la mia morte, dice la superiora, è assente, non c'è. E, si badi, sono parole già pronunciate e scritte da Teresa d'Avila, da San Giovanni della Croce. Il genere, nei confronti dell'assoluto, non c'entra. L'esperienza del silenzio di Dio è la prova più difficile di qualunque credente (Bergman vi ha dedicato un film straordinario, Il silenzio). L'hanno provata gli ebrei nei Lager nazisti. La prova la donna stuprata, il bambino abusato. La solitudine davanti al terribile, all'orrore. Ecco, questo aspetto mi sembra che non sia stato pienamente compreso dalla Dante. Per il resto, come ho scritto, lo spettacolo è bellissimo. Intendiamoci, il teatro moderno può anche totalmente stravolgere il senso del testo rappresentato, ma allora che lo stravolgimento informi ogni momento dello spettacolo. Emma Dante, per questa messa in scena dei Dialogues de Carmélites, di Bernanos e Poulenc, che apre la stagione 2022-2023 del Teatro dell'Opera di Roma, sceglie invece una rappresentazione nel complesso fedele alle indicazioni del testo e della partitura, ma poi introduce elementi quasi marginali o che appaiono tali, che però mutano totalmente il senso della rappresentazione. A cominciare dal profluvio di chiome femminili. Ora, invece, al momento del voto, alle monache vengono tagliati i capelli, e così pure alle condannate alla ghigliottina. E che vorranno dire le corse in bicicletta, un rimpianto dell'infanzia perduta? la conquista di una libertà, che la ghigliottina tronca inesorabilmente? "Chi erano le carmelitane prima del voto?" si chiede Emma Dante, presentando l'opera. "Il gesto della carmelitane è più poetico che fanatico", aggiunge. No, è una scelta di vita. Non è né poesia né fanatismo. Il settecento adombrato nei ritratti, sparisce nei costumi: adombrano donne guerriere e soldati quattrocenteschi: Giovanna D'Arco? Bisognava fare i conti con il cattolicesimo francese, che, come quello tedesco o quello olandese, a differenza del cattolicesimo clericale italiano, non è mai moralista, mai predicatorio, è anzi aperto alle altre culture. In tutti i Dialoghi non c'è mai un momento di giudizio morale, mai perfino una condanna della Rivoluzione. Se mai si ascoltano dalla bocca delle suore sentenze generali, principi d'interpretazione della realtà, come quello, bellissimo, in cui si dice che ciò che noi chiamiamo caso può essere la logica di Dio. Sostituite la parola Dio con qualsiasi altro universale, natura, materia, cosmo, e l'idea resta intatta: ciò che noi chiamiamo caso è solo la nostra conoscenza insufficiente degli elementi che intervengono a costituirlo. Così come la probabilità di movimento delle particelle nella teoria dei quanti non è probabilità reale ma probabilità rispetto alla nostra capacità di prevederli. Su questo aveva le idee chiarissime già Pascal. Tuttavia lo spettacolo, ribadisco, è condotto con grande limpidezza ed è bello a vedersi. Perché Emma Dante è una grande drammaturga e sa come far percepire vivo, vitale, il movimento della scena. Con le sue idee e le sue ossessioni. Ma chi non ne ha? Si può dissentire da una o altra sua scelta, ma non si può negare il suo indiscutibile talento teatrale. Il teatro non è letteratura e l'opera non è musica. Usano la letteratura e la musica per fare teatro. Lo scrive già Aristotele. Temo invece che molti, ancora, guardino e ascoltino il teatro come letteratura e come musica, e basta. Ma un sonetto non si scrive allo stesso modo con cui si scrive una tragedia e un quartetto allo stesso modo che un melodramma. Quanto allo stravolgimento, in una messa in scena c'è sempre, che sia esplicito o no. A cominciare che noi la tragedia e commedia greca e il teatro elisabettiano lo rappresentiamo facendo recitare anche le donne, e quello greco senza maschere. Ma anche con scene e costumi assai diversi da quelli del tempo. La messa in scena che impropriamente viene chiamata "attualizzante" rende esplicita questa attualità della messa in scena. Il teatro è stato sempre vissuto come teatro contemporaneo. Anche la pittura. Che cosa c'è del primo secolo avanti Cristo nell'Annunciazione di Leonardo? Abbiamo una bella dama fiorentina che riceve la visita di un aggraziato giovane cortigiano. Eppure sta proprio qui la profondità della rappresentazione: il divino dell'angelo che irrompe nella quotidianità. E come poteva Leonardo rappresentare questa quotidianità se non rappresentando la sua quotidianità, la quotidianità del suo tempo? Il pubblico della prima romana tutto ciò lo ha capito, sembra, e lo apprezza e applaude. Più profondamente penetra, tuttavia, il senso della partitura l'interpretazione musicale. Dirige Michele Mariotti, che coglie con sensibile intelligenza le infinite sfumature espressive della bellissima partitura. La lezione di Debussy si sente, ma Poulenc va oltre. Non ci sono temi veri e propri, e nemmeno motivi, ma piuttosto piccole cellule di uno, due intervalli, scanditi con ritmo variabile. Mariotti estrae anche da un solo suono, dall'intonazione di un intervallo, dall'irruzione di un timbro inatteso, l'intenzione del canto, della melodia, come se ciò che si ascolta fosse il prosciugamento di una inascoltata melodia interiore, si potrebbe perfino pensare, dato il contesto, alla musica delle sfere. Il testo, splendido, di Bernanos (Poulenc non scrive un libretto, adotta, con qualche taglio, il testo di Bernanos), è assunto da Poulenc già con una sua conformazione musicale. Non si tratta, come si sente dire, spesso, solo di restare fedeli alla dizione del testo, di recitarlo musicalmente. Si avverte, se mai, la lezione di Monteverdi, di Musorgskij, più che di Debussy: la dizione del testo è già di per sé un evento musicale, Poulenc appartiene alla schiera di musicisti che considerano già musica la lingua. Come i poeti. Del resto, non so quanti riflettano sul fatto che la musica e il linguaggio hanno in comune il fatto di adoperare la stessa materia: il suono. L'influsso di Debussy è invece sovrano nel trattamento dell'orchestra. Ma anche di Stravinskij, e di Verdi nell'attribuire una funzione drammaturgica all'orchestra, anche solo per l'intervento di un accordo forte all'interno di una frase intonata piano. Il miracolo - perché di una partitura miracolosa si tratta - sta nell'effetto di una tensione che cresce via via che procede l'azione senza però che intervengano colpi di scena, o esplosioni retoriche dell'orchestra. Qualche accordo più forte basta, appunto, a suggerire o un dramma o una contraddizione del personaggio. Impagabile l'omogeneità del cast sulla scena. A cominciare dagli interventi soavissimi del coro diretto da Ciro Visco. Ma vanno ricordati almeno la straordinaria Blanche di Corinne Winters, che coglie con finezza l'instabilità emotiva del personaggio, il suo vagare dalla fiducia alla paura, dallo slancio al rinchiudersi in sé stessa. La drammatica Superiora di Anna Caterina Antonacci è insieme una lezione di canto e di recitazione, anzi di recitazione attuata con il canto, la trasformazione degli stati d'animo è impressionante, dall'apparente sicurezza iniziale ai turbamenti, alle inquietudini del delirio che precede la morte. La madre Maria di Ekaterina Gubanova e la sorella Costanza di Emöke Baráth, il Cavaliere De la Force di Bogdan Volkov. il Marchese De la Force di Jean-François Lapoint, in perfetto equilibrio tra caratterizzazione individuale del personaggio o adeguamento al clima espressivo generale. Perfetto l'equilibrio che si riscontra in tutti, tra canto e recitazione o, meglio, tutti recitano cantando. E tutti sono stati applauditi. Spettacolo straordinario, da non perdere. Si può rivedere in Raiplay, su RAI 5. Ma mi auguro che se ne faccia anche un dvd.

Morte della Madre Superiora, Anna Caterina Antonacci

Una riflessione in margine, o in coda: l'asprezza con cui si rifiuta il confronto, in arte, su ciò che ci piace o non ci piace, sembrerebbe degna di miglior causa. In fondo, uno spettacolo, brutto o bello che sia, o che ad alcuni pare brutto e ad altri bello, non cambia la vita di nessuno. Eppure ci si scontra come se ne andasse della vita. Inutile portare a sostegno di una o della altra tesi documenti, fatti, esperienze, autorità di scrittori, filosofi, teatranti, pittori, poeti. Sembra che le più inconfutabili certezze riguardino ciò che consideriamo bello o brutto o ciò che abbiamo colto di un testo. Eppure io stesso mi sono dovuto ravvedere, più di una volta, sul giudizio espresso riguardo a opere o messe in scena che mi erano parse belle o al contrario discutibili. Un esempio tra tutti: il Tristano di Wagner messo in scena a Bayreuth da Heiner Müller. La prima volta mi parve cervellotico, fuori tema. Rivisto l'anno seguente mi si aprì una finestra nel cervello. L'invecchiamento di Tristano, Isolde che arriva nel terzo atto con una capigliatura grigia, mi si rivelarono, teatralmente, per ciò che erano, la metafora del tempo, la durata della vita. La malattia dei due amanti era la vita, il loro anelito totale era morire. L'azione, come la chiama Wagner, Handlung, passa per un inno all'amore. Ed è invece un inno alla morte. La finestra mi si aprì ascoltando l'invito di Tristano a Isolde, alla fine del secondo atto. Vuoi tu seguirmi nel regno dove non sorge mai il sole, dove è sempre notte? Das Wunderreich der Nacht, il meraviglioso regno della Notte. Isolde risponde di sì. E Melot s'infuria. Sfida Tristano. Che lascia cadere la spada. Melot resta paralizzato da quel gesto di mancata difesa. Tristano, allora, gli afferra la spada e si trafigge. Sembra una violenza al testo. E invece, del testo, coglie il senso più intimo. È Wagner stesso a suggerirglielo: "Quando Melot stende la spada contro di lui Tristano lascia cadere la propria". Müller rende più esplicita l'arrendevolezza di Tristano, la sua decisione di morire, inscenando invece che una resa un suicidio. La malattia dei due amanti è la vita, la guarigione la morte. Ritornando ai Dialogues messi in scena da Emma Dante mi sembra che questo lato, la vocazione a morire, sia stato compreso, e profondamente. Ma interpretato come una battaglia. Interpretando l'atteggiamento delle suore come una ribellione inconsapevolmente pre-femmnista. È qui che non sono d'accordo. È, invece, una scelta di vita, per quanto possa sembrare strano che morire sia una scelta di vita, ma è un atto di rinuncia, un sacrificio, che sono di fatto una preghiera, un martirio, per redimere un mondo che ha perso la fede in Dio. Si può essere in disaccordo con la scelta, con la vocazione autodistruttiva delle carmelitane, e di fatti Emma Dante dichiara che la scelta "fa paura", ma non è lecito negarne la motivazione religiosa, anche da parte del non credente. Kirkegaard parlerebbe di "salto" nell'atto della fede. E Kirkegaard è filosofo caro a Bernanos, che nei Dialogues mette in scena proprio questo salto dallo stadio dell'etica allo stadio della fede. Ma è proprio questo spirito religioso, questo vento di spiritualità cristiana totalizzante, quest'abnegazione che annienta ogni desiderio di vita terrena, e può sembrare orgoglio, ma è un orgoglio che sale al di sopra dell'orgoglio, per dirlo con le stesse parole di Bernanos, che mi è sembrato mancare allo spettacolo immaginato e realizzato da Emma Dante. E, si badi, chi scrive, non è più un credente da decenni, dopo essere stato da giovane un credente quasi esaltato, e avere divorato le pagine di mistici e filosofi, da San Juan de la Cruz a Kirkegaard, da Duns Scoto a Teilhard de Chardin, da Sant'Agostino allo stesso straordinario San Tommaso d'Aquino, non s'immagina quanto straordinario - Umberto Eco si laureò con una tesi sull'estetica del filosofo - , e avevo imparato quasi a memoria la Regola di San Benedetto, avevo anzi trascorso un periodo di meditazione nel Monastero di Montecassino, e per non parlare, da fanatico lettore di classici greci e latini, dei padri della Chiesa greci, più che latini, i quali, molto prima della Scolastica, avevano piegato a significati cristiani la riflessione filosofia di Platone e di Aristotele. Ecco, oggi queste letture mi servono - anche da non credente - a capire le ragioni del credente. Del resto riusciremmo a comprendere le motivazioni religiose, prima che etiche, di un Achille, negli ultimi canti dell'Iliade, quando restituisce a Priamo il cadavere di Ettore, se non imparassimo a conoscere, prima, la religiosità dei greci antichi? E si badi che Omero, insieme a Esiodo, era, per il greco, quasi quello che è per gli ebrei e per i cristiani, la Bibbia, per i musulmani il Corano, per gli indiani i Veda e il Mahabharata, per i Persiani gli Avesta. Forse, chi sa, tra gli altri, almeno un po' di Pascal, ma letto con partecipazione, avrebbe incoraggiato una lettura meno epidermica o quasi solo psicologica, dell'opera di Brenanos e Poulenc, com'è stata, m'è parso, questa messa in scena romana dei Dialogues des Carmélites.

TEATRO DELL'OPERA DI ROMA. TEATRO COSTANZI: LES DIALOGUES DES CARMÉLITES di Francis Poulenc, da Bernanos.


Prima rappresentazione assoluta Teatro alla Scala, Milano 26 gennaio 1957 (in italiano)

Prima rappresentazione al Teatro Costanzi, 17 marzo 1958

Durata: 2h 55' circa - Prima parte 60' - intervallo 25' - Seconda parte 90'


 TEATRO DELL'OPERA DI ROMA. TEATRO COSTANZI: LES DIALOGUES DES CARMÉLITES di Francis Poulenc, da Bernanos.


Prima rappresentazione assoluta Teatro alla Scala, Milano 26 gennaio 1957 (in italiano)

Prima rappresentazione al Teatro Costanzi, 17 marzo 1958


Durata: 2h 55' circa - Prima parte 60' - intervallo 25' - Seconda parte 90'

DIRETTORE Michele Mariotti

REGIA Emma Dante

MAESTRO DEL CORO Ciro Visco

SCENE Carmine Maringola
COSTUMI 
Vanessa Sannino
LUCI 
Cristian Zucaro
MOVIMENTI COREOGRAFICI 
Sandro Campagna

PERSONAGGI E INTERPRETI

MARQUIS DE LA FORCE Jean-François Lapointe
BLANCHE DE LA FORCE 
Corinne Winters
CHEVALIER DE LA FORCE 
Bogdan Volkov
MADAME DE CROISSY Anna Caterina Antonacci
MADAME LIDOINE Ewa Vesin
MÈRE MARIE DE L’INCARNATION Ekaterina Gubanova
SOEUR CONSTANCE DE SAINT-DENIS Emöke Baráth
MÈRE JEANNE DE L’ENFANT-JÉSUS Irene Savignano**
SOEUR MATHILDE Sara Rocchi**
L’AUMÔNIER DU CARMEL Krystian Adam
OFFICIER 
Roberto Accurso

I COMMISSAIRE William Morgan
LE GEÔLIER / II COMMISSAIRE Alessio Verna
THIERRY /JAVELINOT Andrii Ganchuk**


** diplomato “Fabbrica” Young Artist Program del Teatro dell’Opera di Roma


ORCHESTRA E CORO DEL TEATRO DELL’OPERA DI ROMA

Nuovo allestimento Teatro dell’Opera di Roma in coproduzione con Teatro La Fenice, Venezia

Prima rappresentazione: 27novembre 2022 Repliche: 29 novembre, 2. 4. 6 dicembre 2022