Roma,
Auditorium Parco della Musica. Sala Santa Cecilia. Direttore Long Yu,
pianista Khatia Buniatishvili. Piötr
Ilič
Čajkovskij,
Concerto n. 1 in si
bemolle minore op. 23
per pianoforte e orchestra. Gustav Mahler, Prima
Sinfonia in re maggiore “Il Titano”.
Orchestra dell’Accademia Nazionale di Santa Cecilia.
Il
concerto si sarebbe dovuto tenere nella cavea tra i tre edifici
dell’Auditorium Parco
della musica di Roma. Ma
la pioggia lo ha impedito. E con tempestiva organizzazione
l’Accademia Nazionale di Santa Cecilia ha trasferito la
manifestazione nella Sala Santa cecilia, la più grande delle sale
dell’Auditorium. I posti, naturalmente (?!), erano lasciati alla
scelta del pubblico, salvo la discriminazione tra parterre e
balconata. Impossibile, infatti, la corrispondenza di numerazione
delle file e delle poltrone. A Salisburgo, tuttavia,
faccio notare, per gli
spettacoli all’aperto, sul biglietto è già stampato il posto
eventuale
della sala interna, in caso di pioggia. Ma una
volta tanto non è solo
una questione di organizzazione: è che a Salisburgo piove un giorno
sì e l’altro no. Son dunque preparati. A Roma, a luglio,
l’acquazzone è davvero un caso eccezionale, anche se, consultando
le previsioni meteorologiche,
è possibile prevederlo. Il pubblico era numeroso. C’era, al
pianoforte, una diva ormai acclamata, Khatia Buniatishvili, e sul
podio il debutto del direttore cinese Long Yu. Lasciamo perdere i
commenti di alcuni sprovveduti: “Ma che ne può sapere un cinese di
Mahler?” ha quasi
gridato una signora parlando con un’amica, prima di prendere posto.
L’ignorante, in questo caso, è l’italiano che fa simili
considerazioni. Ignora, infatti, l’alto grado d’istruzione
musicale cinese e la sua capillare diffusione. Più alto di quello
italiano. Ignora, inoltre, la lunga serie di grandi interpreti
orientali di musica occidentale: per esempio, oggi, il gradissimo
direttore coreano Myung-whun
Chung. E dimenticano
soprattutto che un cinese ha alle spalle una cultura di almeno 7.000
anni! Di fatto
oggi un cinese sa molto di più riguardo a noi occidentali di quanto
noi occidentali sappiamo riguardo a loro. Per non parlare dell’alta
tecnologia informatica il cui primato è oggi indiscutibilmente
cinese e coreano. Ma, evidentemente, la signora italiana che aveva
espresso con disprezzo quel giudizio sul direttore cinese, immagina
che i cinesi siano quelli che incontra nei ristoranti e nei
numerosissimi negozi sparsi
ormai in tutta l’Italia. E che dovrebbe pensare, allora,
degli italiani un cinese se avesse come unico modello di riferimento
i ristoranti e ristorantini italiani, per lo più mediocri, sparsi in
tutto il mondo? Ma
veniamo al concerto, un’esaltante Mahler e un mediocrissimo
Čajkivoskij.
Il
suo primo Concerto per pianoforte ha aperto la serata, che era
l’ultima della stagione
estiva dell’Accademia. Strano che Alfredo Casella giudicasse
“rapsodico” il sistema di comporre di Čajkivoskij.
Probabile
che influisse su di lui, come su quasi tutta la cultura musicale
europea tra Otto e Novecento, l’idea, sbagliata, di una rigida
formulazione della sonata. Accademica, più che veramente praticata
dai musicisti. Anche se gli stessi musicisti non ne risultano
indenni. Macroscopico
l’abbaglio di Vincent D’Indy che nel suo Trattato di composizione
fissa la forma della
sonata con primo e
secondo tema
come modello definitivo, modello
insuperato e insuperabile
di sonata, rispetto al quale perfino Beethoven raggiungerebbe la
maturità solo nel tardo periodo compositivo (che poi, in realtà è
quello in cui lo rispetta meno: ottusità di una visione ideologica
della forma musicale!) Čajkovskij,
invece, sa benissimo come
costruire un tempo di sonata, di quartetto, di sinfonia, di concerto.
Si è formato le ossa sulle partiture di Schumann, anche le sinfonie
e compresa anche
la loro orchestrazione
(alla barba di chi allora, e ancora oggi, si ostina a sostenere che
Schumann è un cattivo orchestratore). E Schumann è forse il
musicista romantico che meglio di ogni altro, tranne forse Liszt, ha
penetrato la grande libertà, ma anche la grande coerenza
costruttiva, della musica di Beethoven. Brahms ne sarà il
prosecutore. E Čajkovskij.
Quello che sembra
improvvisazione, andare rapsodico, nella
sua musica, è
in realtà una grande perizia della variazione e del contrappunto. Il
contrappunto, anzi, si rivelerà il filo conduttore del concerto,
perfettamente colto dal direttore Long Yu, totalmente travisato dalla
pianista georgiana Kathia Buniatishvili.
E’
una grande attrice, sussurra una signora seduta dietro di me. E’
vero. A cominciare da come sfoggia l’aderentissimo e scollatissimo
vestito argentato e gli
incredibilmente esili e
altissimi tacchi a spillo (ma sono comodi per adoperare i pedali del
pianoforte?). O da come lancia all’orchestra e al pubblico sorrisi
e lunghi baci soffiati sul dorso della mano. Poi succede che deve
anche suonare. E giù ampi gesti enfatici se deve scandire rumorosi
accordi, alzandosi perfino un po’ dal seggiolino, oppure chinarsi
fino quasi a toccare la tastiera con il naso, se deve
centellinare dolcissimi spasimi melodici. Si
racconta che anche Beethoven esibisse comportamenti simili. Salvo che
per i baci, certo. Ma il
risultato di tanto istrionismo? Un’aggressione abborracciata dei
passi più tempestosi e un’estenuazione esagerata dei profili
melodici in quelli cantabili. Tra furia confusa ed estenuazione
capillare del discorso melodico si finisce per perdere la continuità
della costruzione musicale. Ma il pubblico è in delirio. Applaude
già alla fine del primo tempo (non è grave: succede anche ai Proms
di Londra, e nell’Ottocento era la regola). Dai
tempi di Terenzio, comunque,
la sfacciataggine del gioco circense è stata
generalmente sempre
preferita alla discrezione e alla serietà del discorso intimo. I due
bis, un pasticciatissimo e mutilatissimo
Liszt e un estenuatissimo, quasi evanescente, Claire de lune
debussiano, accolti con
pari
entusiasmo dal pubblico,
dimostrano quanto sia dura, irta di ostacoli, e
non solo oggi, la strada
dell’intelligenza interpretativa.
Tutto
invece tornava a posto con la Prima Sinfonia di Mahler. Long Yu ne ha
penetrato lucidamente l’articolatissima costruzione
contrappuntistica. Il contrappunto di Mahler è un sorta di
elaborazione musicale nuova, nel mondo della sinfonia. E
quanto sia nuova, basti pensare che Brahms, all’epoca, era ancora
vivo e aveva 57 anni. E non aveva ancora composto gli ultimi,
visionari, pezzi per pianoforte. Mahler
non mira a mettere insieme melodie diverse che concordino a formare
un inseme congruente e armonioso.
Ma esaspera, anzi, le differenze melodiche, ritmiche e perfino
armoniche (di qui le improvvise e aspre dissonanze) degli elementi
musicali
della costruzione. Tra gli interpreti storici, Bruno Walter, che fu
assistente musicale di
Mahler a Vienna, è
l’interprete che sembra dare particolare rilievo a queste
dissociazioni ritmiche, melodiche, armoniche. Talora sembra che i
vari gruppi dell’orchestra entrino in contrasto tra di loro più
di ogni altro interprete.
Long Yu segue, o sembra
seguire, questa
tradizione. E in maniera mirabile. Ma è tutta di oggi poi
l’intensità struggente del canto. Il secondo tema del Finale
raramente lo si è sentito così irrevocabile, definitivo, una pietra
tombale sul nulla della vita: la bellezza del ricordo che si fa tanto
più disperata quanto più è consapevole che il ricordo evoca una
bellezza perduta. Viene in mente il Dialogo della Natura e di un
Islandese di Leopardi. O l’Umano troppo umano di Nietzsche
(probabile che Mahler conoscesse quest’ultimo ma non Leopardi).
Vengono in mente anche
certe pagine distaccate, glaciali, di Kafka, conterraneo di Mahler, e
anche lui ebreo. Tutta la musica di Mahler, del
resto, come il pensiero
di Leopardi, di Nietzsche, di Kafka, è un a corpo a corpo con la
Natura. Darwin, in qualche modo c’entra anche lui. Leopardi lo
prevede, Nietzsche e Kafka lo condividono. E probabilmente anche
Mahler. Di questa visione agghiacciante della Natura la Terza e la
Settima Sinfonia sono il disorientante,
implacabile ritratto. Ma
quel nulla, quel dolore, quella disperazione, sono già perfettamente
prefigurate nella Prima. Gli Adagi della Nona e della Decima saranno
il canto
conclusivo, lucidissimo, del
definitivo congedo: quasi
sul ciglio dell’afasia, il punto in cui cessa la musica, è il
punto stesso in cui la Natura elimina l’uomo, in
cui anzi stermina
tutta la specie umana. Un
altro ebreo, questa volta italiano, aveva previsto qualcosa di
analogo, e lo scriveva nella sua Trieste fino
a poco prima ancora
austriaca, e dunque anche
lui concittadino di
Mahler e di Kafaka: Italo Svevo, ed è l’”occhialuto uomo” che
chiude la Coscienza di Zeno, prefigurando l’estinzione della vita
sulla Terra, sì che il pianeta possa
errare tranquillo tra gli astri: “Ci sarà un’esplosione enorme
che nessuno udrà e la terra ritornata alla forma di nebulosa errerà
nei cieli priva di parassiti e di malattie”.
Questo
anelito autodistruttivo Long Yu lo interpreta con spaventosa
evidenza, lo imprime e lo fa esprimere dall’orchestra con un senso
controllato del caos, con una violenza sonora chiarificatrice. Ma
insieme, anche, con una struggente tenerezza. Il
pubblico ne è conquistato e lo
festeggia lungamente,
acclamandolo con ripetute grida di “bravo!” Chi sa se la signora
che si dichiarava perplessa che un cinese potesse “capire”
Mahler, si è poi ricreduta. Sembra di sì, perché non si è udito
un solo moto di dissenso da parte di nessuno. Se
così fosse, ne sarei felice. Le culture non si scontrano, ma si
confrontano. Anni fa, il professore di storia medievale
dell’Università di Arezzo, un vietnamita (sì: un vietnamita), mi
diceva che la Cina, in Oriente, è ciò che per noi occidentali è la
Grecia. E che gli scambi, non solo tra i paesi orientali, ma anche
con i paesi occidentali, non furono solo commerciali, ma anche
culturali. E più profondi di quanto si possa immaginare. Ma –
ahimè! - il clima che oggi si respira in Italia, e in Europa, pur
troppo, sembra spingere a ignorarlo.
Fiano
Romano, 27 luglio 2018