Una riflessione sulla razionalità e
l’irrazionalità, l’emozione e il pensiero nell’arte
C’è l’idea
diffusa, soprattutto in Italia, che l’arte sia “espressione del sentimento”. E
perciò sarebbe opposta a una considerazione razionale della realtà, e anzi un‘eccesiva
cura razionalistica del particolare la sminuirebbe, la distruggerebbe. L’idea
nasce nel romanticismo, nel cui ambito, però, la sua elaborazione è assai più
complessa e contraddittoria. E’ un’idea che in fondo innerva la stessa estetica crociana, la quale individuando
nell’arte il campo dell’espressione, sembrerebbe autorizzarne la verità. Lo
stesso Croce, del resto, si mostra spesso ostile a impostazioni che gli
sembrino speciosamente razionalistiche, pure superfetazioni della struttura di
un’opera, che oscurerebbero o addirittura annullerebbero la forza poetica
dell’espressione. E’ una concezione non solo chiaramente romantica, anzi direi
una concezione restrittivamente epigonle del romanticismo, un’idea psicologica dell’arte,
poco attenta alla sua costruzione formale, che anzi degrada la struttura
dell’opera a inerte sostegno della sua parte viva, della sua poesia. C’è, in
questa concezione dell’arte, un fondo
non troppo celato di accademismo letterario, di nostalgia per il bel mondo armonioso
di un’ideale Arcadia. Si spiegano così le brutali stroncature di Pirandello, la
ridicolizzazione della poesia di Pascoli e il rigetto, risentito, di Mallarmé.
al quale è addirittura negato il dono della poesia. Per non parlare della
scomposta “confutazione” del pensiero leopardiano, liquidato come sfogo di un
adolescente immaturo.
La realtà
dell’arte è invece qualcosa di molto più complesso, in cui distinguere ciò che
è emozione da ciò che è razionalità non ha nessun senso, la distinzione anzi
rischia di far fraintendere il vero senso di un’opera. E di fatto, per esempio,
Croce fraintende totalmente il significato della Divina Commedia quando
condanna la sua struttura teologica e narrativa come supporto inerte dal quale
affiorano i momenti di poesia. Con una mancanza di gusto per lui insolita, ricorre
perfino a un macabro esempio: la struttura della Commedia sarebbe come uno
scheletro sul quale siano rimasti attaccati pochi pezzi di carne, la poesia. Il
suo saggio su Dante è tra i saggi più irritanti e sbagliati che abbia scritto:
dimostra una totale incapacità di cogliere la fitta relazione tra la concezione
teologica del poema e la vita poetica dei singoli personaggi. Complessità
perfettamente colta, invece, dai saggi di un Auerbach e dalle riflessioni di un
poeta come Thomas S. Eliot. Al racconto di Francesca Dante si commuove non solo
perché ascolta una commovente e tragica storia d’amore, ma perché a narrarla
quella storia è una dannata, e la dannata gli parla con il linguaggio dello
Stil Novo (Amor che a cor gentil ratto s’apprende). Ora la nuova, e
rivoluzionaria, concezione dantesca dello Stil Novo prevedeva che l’amore fosse
via di salvezza (salute), non di dannazione. Francesca gli toglie la terra da
sotto i piedi. La “selva oscura” in cui il poeta si è perduto – alla lettera,
sul punto di dannarsi – nasce da un terribile equivoco, proprio all’inizio del
viaggio. Che l’angelo “venuto in terra a miracol mostrare” possa in realtà
essere una maschera che nasconde la faccia del demonio. E sviene, cade a terra come corpo morto.
Poiché nessuna parola nella Commedia è usata a caso, corpo morto significa alla
lettera il cadavere, il morto, ciò che Dante ha rischiato di diventare, per
unirsi nel vortice della “tempesta infernal che mai non resta”. E come l’episodio
di Francesca vanno letti tutti gli episodi del poema. La struttura, dunque, non
solo non è scheletro inerte della poesia, ma innerva ogni recondito senso di
questa poesia. Potremmo fare discorso simile per il Faust goethiano. Anzi
Goethe c’incoraggia a leggere nelle parti esplicative, teoriche, dei suoi
romanzi, il senso profondo che agita la vita dei personaggi. Capiremmo la
disperazione di Werther se non ci fosse spiegato passo passo il suo
disorientamento per qualunque interpretazione della realtà? Anzhe qui, la
catastrofe non è provocata da un’infelice vicenda d’amore, ma dalla perdita di
senso di tutta la realtà. L’amore è solo il detonatore che denuda questa
rivelazione. Così come nelle Affinità elettive il processo chimico degli
elementi non è solo una metafora del processo dei sentimenti umani, ma la
radice da cui nascono gli stessi sentimenti umani, chimica e processo
psicologico sono due aspetti di un’unica realtà, ch’ il mondo in cui viviamo,
la sostanza spinoziana, in cui non si può distinguere il pensiero dalla
materia. Spirito e materia sono facce della stessa, unica realtà, che non
prevede l’immortalità dell’anima, né un Dio, dato che essa stessa è il Tutto.
La Chiesa Cattolica colse bene il senso del romanzo, e lo mise subito all’indice.
Ma
ritorniamo al sentimento nell’arte. Esso è solo la materia dell’opera,
l’oggetto sul quale l’artista costruisce la struttura, la forma definitiva
della pagina, del quadro, della musica. Ma non è il solo punto di sostegno. La
moderna neurobiologia ha finalmente dimostrato che le regioni dell’emozione e
della razionalità sono contigue e comunicanti, il cattivo funzionamento di una
regione fa funzionare male anche l’altra. Ragione e sentimento sono dunque
interdipendenti. Talune opera sembrano la realizzazione, la dimostrazione di
questo fatto. Per esempio l’Adorazione dell’Agnello Mistico di Jan van Eyck che
si ammira in una cappella del Duomo di Gand, San Bavone. La concezione
dell’opera è complessa, di fatto è una sintesi della storia della Redenzione,
dal Peccato originale alla venuta del Redentore. E alla nostra storia di oggi.
Al centro l’Agnello. Da una arte e dall’altra, l’antico e il nuovo testamento. E
poi le altre tavole del polittico che completano ogni momento della Storia
Universale dell’Uomo. Da Adamo ed Eva ai committenti delle tavole. Va bene, si
potrebbe dire, ma qui la concezione teologica è esplicita. E’ ugualmente
esplicita in altre opere una concezione astratta, di puro pensiero, che
sorregga la rappresentazione? Be’, potrei citare due quadri del Rinascimento
italiano. L’Allegoria di Giovanni Bellini e La tempesta di Giorgione. Posso
godere della bellezza della rappresentazione, senza capirne il significato?
Certamente sì, perché i due quadri sono di una bellezza sovrana. Il godimento,
il superficiale godimento della pura visione è perciò assicurato. Ma è un
piacere che resta alla superficie della rappresentazione. Non s’interroga sulle
motivazioni che hanno spinto il pittore a dipingere quella rappresentazione,
sul sentimento, sì, il sentimento, che ha acceso la fantasia e l’intelligenza
dell’artista, risvegliato i suoi ricordi culturali, spinto la sua mente a
chiarirsi quale fosse il modo più adatto per realizzare una così complessa
intuizione pittorica.
Per
concludere: l’opera d’arte non è solo un passatempo che debba divagarci, una
sorta di giocattolo sessuale che debba scaricare le nostre riserve di
adrenalina. E’ anche questo, non si scandalizzino i moralisti. Ma è anche molto
di più. E’ la rappresentazione delle nostre domande più profonde, delle nostre
interrogazioni senza risposta. L’artista, nemmeno lui, ha risposte. Ma ha la
capacità, che noi non sempre abbiamo, di formulare con correttezza la domanda,
l’interrogazione, di rappresentarcela con tale evidenza da farcela sembrare nostra. Ma è nostra, e perciò ci commuoviamo, vi ci
riconosciamo. La catarsi di cui parla Aristotele non è chi sa quale misterioso
processo di purificazione, ma appunto questo riconoscimento dell’ineluttabilità
della domanda. E perciò è universale, perché universale non è la
rappresentazione ma la domanda che la rappresentazione ci sbatte sotto gli
occhi. Quando Edipo, nell’ultima sublime tragedia di Sofocle, l’Edipo a Colono,
si chiede: perché io? E tutta la sua vita gli passa davanti, l’assassinio del padre,
l’incesto, l’accecamento, colpe di cui sa di essere innocente, perché ignorava
che l’assassinato fosse suo padre, la donna concupita sua madre, e
l’accecamento una punizione, ma lui che non sapeva, che non voleva, ha commesso
quegli atti, perché lui? Sofocle lascia la domanda senza risposta. Edipo
s’inoltra nel boschetto delle Eumenidi, seguito da Teseo, e muore. Ma nemmeno
Teseo può dire ciò che ha visto, ciò che è accaduto. Lo spettatore, però, sa
una cosa. Edipo non ci parla del suo destino, della sua morte, ma del destino,
della morte di ciascuno. Perché uno nasce da famiglia ricca e un altro da
famiglia povera, uno a Roma e l’altro a
Pechino? Chi siamo, dove andiamo, chi ci governa, e ci governa qualcuno, un dio,
il destino, il caso, o che cosa? Vi sembrano queste domande sentimentali,
interrogazioni suscitate da un’emozione? O non sono piuttosto le domande che si
è posta, fin dall’inizio, anche la filosofia? Aristotele scrive che per natura
l’uomo vuole conoscere. Anche l’inconoscibile, anche ciò che non ha risposta.
Ed è questo inconoscibile, questo garbuglio di domande senza risposta che
l’arte ci rappresenta e ci fa riconoscere e che perciò noi, riconoscendolo, ci
commuoviamo. Ma guai a separare la commozione dal pensiero che l’ha suscitata,
sono strettamente collegate. L’arte, anzi, è il cortocircuito che si accende
quando il pensiero e l’emozione s’incontrano e fissano lo stesso punto, sempre
lo stesso: chi sono?
Tholaria,
Amorgós, Cicladi, Grecia, 11 luglio 2018.
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