ROMA TEATRO DELL’OPERA: GIOVANNA D’ARCO di Giuseppe Verdi.
Carlo VII, Francesco Meli
Giovanna. Nino Machaidze
Giacomo, Roberto Frontali
Delil, Leonardo Trinciarelli
Talbot, Dmitry Beloselskiy
Direttore, Daniele Gatti
Regia e coreografia, Davide Livermore
Maestro del Coro, Roberto Gabbiani
Scene di Giò Forma
Costumi, Anna Verde
Luci, Antonio Castro
Video, D-Work
Orchestra, Coro e Corpo di Ballo del Teatro dell’Opera di Roma
Nuovo allestimento del Teatro dell’Opera di Roma con elementi scenici del Palau de les Arts Reina Sofia de Valencia
La festa della folla davanti all’ingresso del Teatro dell’Opera, tutti in fila per il controllo del certificato verde e del biglietto. Una festa ancora più gioiosa quando, prima che cominci lo spettacolo, il direttore Daniele Gatti si rivolge al pubblico e lo ringrazia di essere venuto, si dichiara felice di ritrovarlo, emozionato dallo stare di nuovo insieme. Un immenso applauso di ringraziamento è la risposta del pubblico. Chi non ama il teatro non può capire né il messaggio di Gatti né l’applauso immediato del pubblico. Vedere in streaming uno spettacolo durante le restrizioni imposte dalla pandemia è stata una bella cosa, e c’è stato perfino qualche capolavoro, il Barbiere di Siviglia ideato da Martone per il Teatro dell’Opera, e il Marino Faliero messo su da Stefano Ricci da Bergamo per il festival Donizetti, ma non hanno sostituito lo spettacolo. “Gli spettatori, che stanno guardando lo spettacolo, sono una parte imprescindibile di quello che succede. Perché quello che succede, in effetti, non potrebbe succedere se non ci fossero spettatori. Questo significa che anche gli spettatori sono a loro volta parte di questa operazione artistica,” scrive Ivan Vyrypaev, un interessante drammaturgo russo di oggi. Il pubblico è infatti parte essenziale dello spettacolo: gli attori, nella commedia antica, e poi nel teatro spagnolo, in quello elisabettiano, nella commedia dell’arte, durante l’azione si rivolgevano al pubblico negli “a parte” e alla fine della recita lo salutavano e lo pregavano di applaudire. Solo così, per Calderón (El gran teatro del mundo), per Shakespeare (“tutto il mondo è teatro”, As you like it), il teatro può essere metafora del mondo, e il mondo può rispecchiarsi nel teatro: perché scena, orchestra (lo spazio occupato dal coro) e gradinate nel teatro antico, palcoscenico e platea, palchi, gallerie nel teatro moderno, sono un tutt’uno. Anche per Verdi. Il consumo del teatro musicale, del melodramma, oggi, soprattutto con la diffusione delle registrazioni su disco, ha innaturalmente separato musica e teatro, privilegiando l’ascolto relegando il teatro all’inesistente, i video coprono solo in parte la lacuna. Comporre un quartetto e scrivere un melodramma non è la stessa cosa. “Lasciamo perdere il grande compositore, io sono un teatrante”, scrive Verdi a Ricordi. Questo significa che per Verdi la musica è la realizzazione sonora di una drammaturgia. Musica e teatro sono per lui la stessa cosa: è la musica a costruire il teatro, come nella tragedia classica il seguito delle scene, la duttilità del verso. Si diceva e si dice, da parte dei nemici dell’opera, che nell’opera i personaggi cantano e questo è irrealistico, innaturale. Ma perché, recitare in versi è più naturale? Lope De Vega, Calderón. Shakespeare, Racine, Alfieri scrivono in versi anche il teatro di Eliot, di García Lorca, di Heiner Müller e in versi scrivevano Eschilo, Sofocle, Euripide, Seneca. Verdi, perciò, può anche scrivere brutta musica, musica banale, ma mai la sua musica è drammaturgicamente sbagliata. E questo accade anche nella Giovanna D’Arco, opera che succede a capolavori molto particolari, sperimentali, originalissimi, come Ernani e I due Foscari e precede di due anni il Macbeth (ne è, anzi, in alcune scene, quelle dei démoni e degli angeli, lo studio preparatorio). Questo hanno tenuto presente sia il concertatore dell’opera Daniele Gatti sia il regista e coreografo Davide Livermore: l’opera verdiana è la rappresentazione di una scissione che, prima di essere una contrapposizione tra Giovanna e il mondo, è un conflitto nell’animo stesso di Giovanna, divisa tra il richiamo di Dio e le passioni terrene. Una semisfera sospesa sull’ellisse scenica, realizzata da D-Work, visualizza il conflitto, farfalla attratta dal fuoco, rosone di cattedrale (Reims?), Cristo Pantocrator, lacrime sgocciolanti di una natura primordiale. Ogni tanto compaiono anche frasi pronunciate dalla Giovanna storica, che fanno rabbrividire per la loro verità di pensiero oltre che di azione. Tra la sfera e il palcoscenico, scavato da ellittiche gradinate, che ricordano un Tannhäuser messo in scena negli anni ‘80 al Festival di Bayreuth da Wolfgang Wagner, pronipote del compositore, è simile il senso di stilizzazione che delimita uno spazio simbolico, là il castello della Wartburg, qua la Lorena e la cattedrale di Reims.
Il limite, lo scarto, se si vuole perfino l’imbarazzo di una certa inadeguatezza, più che nella musica di Verdi, sta nell’orrido, impronunciabile libretto di Temistocle Solera. Dichiarò di tenersi lontano da Schiller, di voler fare da sé, e di fatti Schiller non vi sta dietro nemmeno come suggerimento, salvo a venirgli in soccorso come rattoppatore nei punti deboli della stesura e a raddrizzare con qualche immagine appropriata una versificazione scialba e linguisticamente impacciata. Il dramma di Schiller, La pulzella di Orléans (Andrea Maffei traduce, alla lettera, il titolo tedesco, che ha Jungfrau, La vergine di Orléans), per quanto storicamente infondato (ma Giovanna non era stata ancora santificata), è comunque poesia, il libretto di Solera non è nemmeno uno scartafaccio. E al dunque, messo alle strette, segue anch’esso la falsariga di Schiller, ma stravolgendolo, inserendovi interventi stregoneschi inopportuni. Schiller e Goethe hanno scritto drammi storici, ma ritenendosi liberi di modificare i dati della storia. Non era ancora sorta l’esigenza romantica di rispettare la verità storica: Walter Scott e Manzoni erano di là da venire. Temistocle Solera se ne infischia (ma è in buona compagnia, non è che le Bolene, le Stuarde, e fuori d’Italia i Vasco de Gama, i Cortés, o le mute di Portici, fossero storicamente più fondati), semplicemente Solera ignora sia l’uno sia l’altro. Il misticismo di Giovanna, che Schiller ammira e rispetta, per l’italiano assomiglia più al balbettio di una devota analfabeta padana che all’ispirazione profonda di uno spirito religioso. Le ultime parole di Giovanna in Schiller sono: “Il grave acciaro che mi fascia il petto / In alata si cangia eterea veste … / In alto … in alto … la terra mi fugge … / Breve è il dolore, la letizia eterna” (traduzione di Andrea Maffei, l’amico “intellettuale” di Verdi e fonte di Solera per il libretto; l’ultimo verso, bellissimo, che è anche l’ultimo della tragedia, in tedesco suona: “Kurz ist der Schmerz und ewig ist die Freude! “). Nell’impacciato libretto di Solera, Giovanna dice: “Oh! … l’usbergo tramutasi in ale! … / Addio, terra! Addio, gloria mortale … / alto volo … già brillo nel sol!” Tutto il senso intimo, interiore del superamento del dolore terreno è annientato in un’esibizione di effetti esteriori: “brillo nel sol”. La finezza psicologica di Schiller va a farsi friggere. Ma a Solera, e al pubblico italiano di allora, non interessa. A Verdi invece sì, anche se in quest’opera anche lui cerca più gli effetti teatrali che l’interiorità del personaggio. Che però è ugualmente indagata. Verdi, infatti, nonostante la sciatteria del libretto, costruisce lo stesso momenti memorabili sia teatralmente sia musicalmente, anzi dà prova di quanto strettamente legate siano per lui tra loro la musica e la drammaturgia, al punto non già di asservire la musica alla drammaturgia, bensì di costruire la drammaturgia appunto con la sola musica: il teatro, il dramma è agito dalla musica. Soprattutto nel terzo e quarto atto. Gatti mette in rilievo proprio questo, quanto la scrittura verdiana sia precisa e limpida nel suggerire il senso di un’azione: i momenti brutali, quasi bandistici – ma l’effetto della banda fuori scena è strepitoso – come quelli più plateali, effettistici, non sono attenuati, ma nemmeno evidenziati più di quanto è dovuto, sono presentati con nitidezza per quello che sono, momenti indispensabili al riconoscimento teatrale di un’azione. Una musica più raffinata, e un ammorbidimento delle asprezze, della inegnuità, nell’interpretazione, forse avrebbero rovinato l’effetto teatrale. Certo, i difetti della partitura non vengono nascosti: le voci angeliche e demoniache del primo atto se da una parte annunciano il lavoro che poi Verdi compirà nel Macbeth, rasentano addirittura la comicità per la loro triviale scansione (“tu sei bella, tu sei bella! / Pazzerella, che fai tu?”), solo l’inferno del Mefistofele di Boito riuscirà a superarne la triviale inconsistenza. Ma quando sono in atto contrasti veri, e conflitti tra uomini, in particolare tra un padre e una figlia, Verdi sa il fatto suo, e Gatti cambia registro, lo fa sentire. Gli interpreti, da una bacchetta così lucida e così penetrante, si lasciano guidare. Francesco Meli dà giusti connotati all’irresoluto Carlo VII, non esibisce vani squilli tenorili e anzi accarezza con morbido timbro la sua non facile parte. Roberto Frontali rende bene la miseria piccolo borghese del padre di Giovanna, il timbro baritonale sembra perfino preludere a Germont o a Rigoletto. Nino Machaidze affronta con decisione la difficilissima e virtuosistica parte che Verdi ha scritto per Giovanna, una difficoltà che il pubblico non avverte, perché non è esibizionistica, ma tutta interna alla struttura del tortuoso melodizzare che Verdi pretende per caratterizzare i contrasti interiori del personaggio, e basterebbe già questo a non liquidare la Giovanna D’Arco come opera mancata. Elegantissimo il corpo di ballo nel doppiare il significato intimo dell’azione. Di solito le regie che fanno uso di sdoppiamento delle parti riescono sovrabbondanti e stucchevoli. Ma qui lo sdoppiamento dell’azione tra personaggi che cantano e azione coreutica rende visibile uno sdoppiamento che esiste all’interno dl personaggio principale, Giovanna: questa è quasi un’opera monologante. Commovente la sostituzione, alla fine, della vera Giovanna morente, e poi morta, alla bravissima ballerina, Susanna Salvi, ch’era stesa per terra, e ne sdoppiava la figura. Del resto la Giovanna D’Arco storica era addirittura tormentata dalle visioni. Shakespeare nell’Enrico VI ne fa un’isterica truffatrice, Shaw nella sua Saint Joan, Santa Giovanna, oltre appunto a riconoscere la realtà mistica delle visioni, e la profonda interiorità della santa, imposta correttamente il problema delle visioni e della santità come problema non per i santi ma per il mondo, che li venera, dopo morti, ma non è disposto ad accoglierli vivi: “O God that madest this beautiful earth, whenwill it be ready to receive Thy saints? How long, O Lord, how long?” è la battuta, in bocca di Giovanna, tornata come apparizione sulla terra, che chiude il dramma di Shaw. Riecheggia alla lontana, questa domanda, il grande Inquisitore di Dostoevskij. Ci sono poi i film: di Dreyer (sublime), di Bresson (stupendo) e di Rossellini, con una Ingrid Bergman da antologia. In qualche modo i ricordi di questi film s’insinuano nella visione dello spettacolo. Non tanto per l’uso delle proiezioni nella semisfera, quanto per la composizione sulla scena di quadri visivi compiuti a significare il senso di un’azione drammatica. Qualcuno continuerà comunque a chiedersi se sia accettabile una santa guerriera. Nello spettacolo la domanda non è posta, perché non è il caso di porsela, se non da parte di quei tanti fondamentalisti religiosi che si sentono pestare i calli, ogni volta che qualcuno tocca non dalla loro prospettiva un soggetto religioso, e non è posta in quanto non è il soggetto del dramma. Ma rovesciamo la prospettiva, da religiosa a civile (che è la prospettiva verdiana): è accettabile, invece, il dominio, anzi il predominio e il sopruso di uno straniero su una terra conquistata? La domanda riguarda anche l’oggi. Perché oggi non è che ne manchino sulla terra di soprusi e violenze dei conquistatori sui conquistati. Basti pensare alle ormai più che decennali esperienze degli afghani: russi, europei occidentali, americani, pakistani. Ricordiamoci i versi manzoniani di Marzo 1821, quanto mai presenti alla memoria di Verdi:
Sì, quel Dio che nell’onda vermiglia
chiuse il rio che inseguiva Israele,
quel che in pugno alla maschia Giaele
pose il maglio, ed il colpo guidò;
quel che è Padre di tutte le genti,
che non disse al Germano giammai:
va, raccogli ove arato non hai;
spiega l’ugne; l’Italia ti do.
A qualcuno fa oggi ribrezzo la citazione del terribile gesto di Giaele, come potrebbe irritare che Racine di Esther, la quale chiedendo una punizione per chi oltraggia la sua gente, non si mostra mai soddisfatta delle stragi, faccia poi un un personaggio così nobile. Ma la religione non è biascicare di beghine in parrocchia. E può essere dura. Sanguinaria. La storia lo racconta più volte. Non è comunque il caso di Giovanna, che oggi chiameremmo, se mai, una combattente per la libertà. La condanna per eresia, e qui Shaw vide bene, fu una condanna politica, non una condanna religiosa e se condanna religiosa anche vi fu, fu condanna di superstiziosi integralisti. Ma viva la faccia di uno spettacolo, e di un melodramma, che suscita tante domande. Leonardo Trinciarelli, Delil (De L’Isle) e Dmitry Beloselskiy, Talbot, figure nel dramma secondarie (l’opera di Verdi ha solo cinque personaggi, dei quali veramente decisivi per l’azione solo tre, la tragedia di Schiller ne sfoggia una folla: venticinque), completano degnamente il cast. Ottimi l’orchestra, il Corpo di ballo e il Coro del teatro, diretto da Roberto Gabbiani. Ripetuti richiami sul proscenio per tutti è la giusta ovazione che premia l’ottimo lavoro. E che ricominci la stagione!