mercoledì 20 ottobre 2021

Roma: Giovanna D'Arco


 

ROMA TEATRO DELL’OPERA: GIOVANNA D’ARCO di Giuseppe Verdi.


Carlo VII, Francesco Meli

Giovanna. Nino Machaidze

Giacomo, Roberto Frontali

Delil, Leonardo Trinciarelli

Talbot, Dmitry Beloselskiy


Direttore, Daniele Gatti

Regia e coreografia, Davide Livermore

Maestro del Coro, Roberto Gabbiani

Scene di Giò Forma

Costumi, Anna Verde

Luci, Antonio Castro

Video, D-Work


Orchestra, Coro e Corpo di Ballo del Teatro dell’Opera di Roma


Nuovo allestimento del Teatro dell’Opera di Roma con elementi scenici del Palau de les Arts Reina Sofia de Valencia


La festa della folla davanti all’ingresso del Teatro dell’Opera, tutti in fila per il controllo del certificato verde e del biglietto. Una festa ancora più gioiosa quando, prima che cominci lo spettacolo, il direttore Daniele Gatti si rivolge al pubblico e lo ringrazia di essere venuto, si dichiara felice di ritrovarlo, emozionato dallo stare di nuovo insieme. Un immenso applauso di ringraziamento è la risposta del pubblico. Chi non ama il teatro non può capire né il messaggio di Gatti né l’applauso immediato del pubblico. Vedere in streaming uno spettacolo durante le restrizioni imposte dalla pandemia è stata una bella cosa, e c’è stato perfino qualche capolavoro, il Barbiere di Siviglia ideato da Martone per il Teatro dell’Opera, e il Marino Faliero messo su da Stefano Ricci da Bergamo per il festival Donizetti, ma non hanno sostituito lo spettacolo. “Gli spettatori, che stanno guardando lo spettacolo, sono una parte imprescindibile di quello che succede. Perché quello che succede, in effetti, non potrebbe succedere se non ci fossero spettatori. Questo significa che anche gli spettatori sono a loro volta parte di questa operazione artistica,” scrive Ivan Vyrypaev, un interessante drammaturgo russo di oggi. Il pubblico è infatti parte essenziale dello spettacolo: gli attori, nella commedia antica, e poi nel teatro spagnolo, in quello elisabettiano, nella commedia dell’arte, durante l’azione si rivolgevano al pubblico negli “a parte” e alla fine della recita lo salutavano e lo pregavano di applaudire. Solo così, per Calderón (El gran teatro del mundo), per Shakespeare (“tutto il mondo è teatro”, As you like it), il teatro può essere metafora del mondo, e il mondo può rispecchiarsi nel teatro: perché scena, orchestra (lo spazio occupato dal coro) e gradinate nel teatro antico, palcoscenico e platea, palchi, gallerie nel teatro moderno, sono un tutt’uno. Anche per Verdi. Il consumo del teatro musicale, del melodramma, oggi, soprattutto con la diffusione delle registrazioni su disco, ha innaturalmente separato musica e teatro, privilegiando l’ascolto relegando il teatro all’inesistente, i video coprono solo in parte la lacuna. Comporre un quartetto e scrivere un melodramma non è la stessa cosa. “Lasciamo perdere il grande compositore, io sono un teatrante”, scrive Verdi a Ricordi. Questo significa che per Verdi la musica è la realizzazione sonora di una drammaturgia. Musica e teatro sono per lui la stessa cosa: è la musica a costruire il teatro, come nella tragedia classica il seguito delle scene, la duttilità del verso. Si diceva e si dice, da parte dei nemici dell’opera, che nell’opera i personaggi cantano e questo è irrealistico, innaturale. Ma perché, recitare in versi è più naturale? Lope De Vega, Calderón. Shakespeare, Racine, Alfieri scrivono in versi anche il teatro di Eliot, di García Lorca, di Heiner Müller e in versi scrivevano Eschilo, Sofocle, Euripide, Seneca. Verdi, perciò, può anche scrivere brutta musica, musica banale, ma mai la sua musica è drammaturgicamente sbagliata. E questo accade anche nella Giovanna D’Arco, opera che succede a capolavori molto particolari, sperimentali, originalissimi, come Ernani e I due Foscari e precede di due anni il Macbeth (ne è, anzi, in alcune scene, quelle dei démoni e degli angeli, lo studio preparatorio). Questo hanno tenuto presente sia il concertatore dell’opera Daniele Gatti sia il regista e coreografo Davide Livermore: l’opera verdiana è la rappresentazione di una scissione che, prima di essere una contrapposizione tra Giovanna e il mondo, è un conflitto nell’animo stesso di Giovanna, divisa tra il richiamo di Dio e le passioni terrene. Una semisfera sospesa sull’ellisse scenica, realizzata da D-Work, visualizza il conflitto, farfalla attratta dal fuoco, rosone di cattedrale (Reims?), Cristo Pantocrator, lacrime sgocciolanti di una natura primordiale. Ogni tanto compaiono anche frasi pronunciate dalla Giovanna storica, che fanno rabbrividire per la loro verità di pensiero oltre che di azione. Tra la sfera e il palcoscenico, scavato da ellittiche gradinate, che ricordano un Tannhäuser messo in scena negli anni ‘80 al Festival di Bayreuth da Wolfgang Wagner, pronipote del compositore, è simile il senso di stilizzazione che delimita uno spazio simbolico, là il castello della Wartburg, qua la Lorena e la cattedrale di Reims. 


Il limite, lo scarto, se si vuole perfino l’imbarazzo di una certa inadeguatezza, più che nella musica di Verdi, sta nell’orrido, impronunciabile libretto di Temistocle Solera. Dichiarò di tenersi lontano da Schiller, di voler fare da sé, e di fatti Schiller non vi sta dietro nemmeno come suggerimento, salvo a venirgli in soccorso come rattoppatore nei punti deboli della stesura e a raddrizzare con qualche immagine appropriata una versificazione scialba e linguisticamente impacciata. Il dramma di Schiller, La pulzella di Orléans (Andrea Maffei traduce, alla lettera, il titolo tedesco, che ha Jungfrau, La vergine di Orléans), per quanto storicamente infondato (ma Giovanna non era stata ancora santificata), è comunque poesia, il libretto di Solera non è nemmeno uno scartafaccio. E al dunque, messo alle strette, segue anch’esso la falsariga di Schiller, ma stravolgendolo, inserendovi interventi stregoneschi inopportuni. Schiller e Goethe hanno scritto drammi storici, ma ritenendosi liberi di modificare i dati della storia. Non era ancora sorta l’esigenza romantica di rispettare la verità storica: Walter Scott e Manzoni erano di là da venire. Temistocle Solera se ne infischia (ma è in buona compagnia, non è che le Bolene, le Stuarde, e fuori d’Italia i Vasco de Gama, i Cortés, o le mute di Portici, fossero storicamente più fondati), semplicemente Solera ignora sia l’uno sia l’altro. Il misticismo di Giovanna, che Schiller ammira e rispetta, per l’italiano assomiglia più al balbettio di una devota analfabeta padana che all’ispirazione profonda di uno spirito religioso. Le ultime parole di Giovanna in Schiller sono: “Il grave acciaro che mi fascia il petto / In alata si cangia eterea veste … / In alto … in alto … la terra mi fugge … / Breve è il dolore, la letizia eterna” (traduzione di Andrea Maffei, l’amico “intellettuale” di Verdi e fonte di Solera per il libretto; l’ultimo verso, bellissimo, che è anche l’ultimo della tragedia, in tedesco suona: “Kurz ist der Schmerz und ewig ist die Freude! “). Nell’impacciato libretto di Solera, Giovanna dice: “Oh! … l’usbergo tramutasi in ale! … / Addio, terra! Addio, gloria mortale … / alto volo … già brillo nel sol!” Tutto il senso intimo, interiore del superamento del dolore terreno è annientato in un’esibizione di effetti esteriori: “brillo nel sol”. La finezza psicologica di Schiller va a farsi friggere. Ma a Solera, e al pubblico italiano di allora, non interessa. A Verdi invece sì, anche se in quest’opera anche lui cerca più gli effetti teatrali che l’interiorità del personaggio. Che però è ugualmente indagata. Verdi, infatti, nonostante la sciatteria del libretto, costruisce lo stesso momenti memorabili sia teatralmente sia musicalmente, anzi dà prova di quanto strettamente legate siano per lui tra loro la musica e la drammaturgia, al punto non già di asservire la musica alla drammaturgia, bensì di costruire la drammaturgia appunto con la sola musica: il teatro, il dramma è agito dalla musica. Soprattutto nel terzo e quarto atto. Gatti mette in rilievo proprio questo, quanto la scrittura verdiana sia precisa e limpida nel suggerire il senso di un’azione: i momenti brutali, quasi bandistici – ma l’effetto della banda fuori scena è strepitoso – come quelli più plateali, effettistici, non sono attenuati, ma nemmeno evidenziati più di quanto è dovuto, sono presentati con nitidezza per quello che sono, momenti indispensabili al riconoscimento teatrale di un’azione. Una musica più raffinata, e un ammorbidimento delle asprezze, della inegnuità, nell’interpretazione, forse avrebbero rovinato l’effetto teatrale. Certo, i difetti della partitura non vengono nascosti: le voci angeliche e demoniache del primo atto se da una parte annunciano il lavoro che poi Verdi compirà nel Macbeth, rasentano addirittura la comicità per la loro triviale scansione (“tu sei bella, tu sei bella! / Pazzerella, che fai tu?”), solo l’inferno del Mefistofele di Boito riuscirà a superarne la triviale inconsistenza. Ma quando sono in atto contrasti veri, e conflitti tra uomini, in particolare tra un padre e una figlia, Verdi sa il fatto suo, e Gatti cambia registro, lo fa sentire. Gli interpreti, da una bacchetta così lucida e così penetrante, si lasciano guidare. Francesco Meli dà giusti connotati all’irresoluto Carlo VII, non esibisce vani squilli tenorili e anzi accarezza con morbido timbro la sua non facile parte. Roberto Frontali rende bene la miseria piccolo borghese del padre di Giovanna, il timbro baritonale sembra perfino preludere a Germont o a Rigoletto. Nino Machaidze affronta con decisione la difficilissima e virtuosistica parte che Verdi ha scritto per Giovanna, una difficoltà che il pubblico non avverte, perché non è esibizionistica, ma tutta interna alla struttura del tortuoso melodizzare che Verdi pretende per caratterizzare i contrasti interiori del personaggio, e basterebbe già questo a non liquidare la Giovanna D’Arco come opera mancata. Elegantissimo il corpo di ballo nel doppiare il significato intimo dell’azione. Di solito le regie che fanno uso di sdoppiamento delle parti riescono sovrabbondanti e stucchevoli. Ma qui lo sdoppiamento dell’azione tra personaggi che cantano e azione coreutica rende visibile uno sdoppiamento che esiste all’interno dl personaggio principale, Giovanna: questa è quasi un’opera monologante. Commovente la sostituzione, alla fine, della vera Giovanna morente, e poi morta, alla bravissima ballerina, Susanna Salvi, ch’era stesa per terra, e ne sdoppiava la figura. Del resto la Giovanna D’Arco storica era addirittura tormentata dalle visioni. Shakespeare nell’Enrico VI ne fa un’isterica truffatrice, Shaw nella sua Saint Joan, Santa Giovanna, oltre appunto a riconoscere la realtà mistica delle visioni, e la profonda interiorità della santa, imposta correttamente il problema delle visioni e della santità come problema non per i santi ma per il mondo, che li venera, dopo morti, ma non è disposto ad accoglierli vivi: “O God that madest this beautiful earth, whenwill it be ready to receive Thy saints? How long, O Lord, how long?” è la battuta, in bocca di Giovanna, tornata come apparizione sulla terra, che chiude il dramma di Shaw. Riecheggia alla lontana, questa domanda, il grande Inquisitore di Dostoevskij. Ci sono poi i film: di Dreyer (sublime), di Bresson (stupendo) e di Rossellini, con una Ingrid Bergman da antologia. In qualche modo i ricordi di questi film s’insinuano nella visione dello spettacolo. Non tanto per l’uso delle proiezioni nella semisfera, quanto per la composizione sulla scena di quadri visivi compiuti a significare il senso di un’azione drammatica. Qualcuno continuerà comunque a chiedersi se sia accettabile una santa guerriera. Nello spettacolo la domanda non è posta, perché non è il caso di porsela, se non da parte di quei tanti fondamentalisti religiosi che si sentono pestare i calli, ogni volta che qualcuno tocca non dalla loro prospettiva un soggetto religioso, e non è posta in quanto non è il soggetto del dramma. Ma rovesciamo la prospettiva, da religiosa a civile (che è la prospettiva verdiana): è accettabile, invece, il dominio, anzi il predominio e il sopruso di uno straniero su una terra conquistata? La domanda riguarda anche l’oggi. Perché oggi non è che ne manchino sulla terra di soprusi e violenze dei conquistatori sui conquistati. Basti pensare alle ormai più che decennali esperienze degli afghani: russi, europei occidentali, americani, pakistani. Ricordiamoci i versi manzoniani di Marzo 1821, quanto mai presenti alla memoria di Verdi:

Sì, quel Dio che nell’onda vermiglia

chiuse il rio che inseguiva Israele,

quel che in pugno alla maschia Giaele

pose il maglio, ed il colpo guidò;

quel che è Padre di tutte le genti,

che non disse al Germano giammai:

va, raccogli ove arato non hai;

spiega l’ugne; l’Italia ti do.

A qualcuno fa oggi ribrezzo la citazione del terribile gesto di Giaele, come potrebbe irritare che Racine di Esther, la quale chiedendo una punizione per chi oltraggia la sua gente, non si mostra mai soddisfatta delle stragi, faccia poi un un personaggio così nobile. Ma la religione non è biascicare di beghine in parrocchia. E può essere dura. Sanguinaria. La storia lo racconta più volte. Non è comunque il caso di Giovanna, che oggi chiameremmo, se mai, una combattente per la libertà. La condanna per eresia, e qui Shaw vide bene, fu una condanna politica, non una condanna religiosa e se condanna religiosa anche vi fu, fu condanna di superstiziosi integralisti. Ma viva la faccia di uno spettacolo, e di un melodramma, che suscita tante domande. Leonardo Trinciarelli, Delil (De L’Isle) e Dmitry Beloselskiy, Talbot, figure nel dramma secondarie (l’opera di Verdi ha solo cinque personaggi, dei quali veramente decisivi per l’azione solo tre, la tragedia di Schiller ne sfoggia una folla: venticinque), completano degnamente il cast. Ottimi l’orchestra, il Corpo di ballo e il Coro del teatro, diretto da Roberto Gabbiani. Ripetuti richiami sul proscenio per tutti è la giusta ovazione che premia l’ottimo lavoro. E che ricominci la stagione!







mercoledì 13 ottobre 2021

Shakespeare al Globe: il gioco delle parti

Globe Theatre, Roma. Pene d’amor perdute di William Shakespeare: saluto degli attori.


Avevo 19 anni. Vidi Love’s Labour’s Lost, Pene d’amor perdute, di Shakespeare, per la prima volta al Teatro Romano di Ostia Antica. Era l’estate del 1960. Lo spettacolo veniva dal Teatro Romano di Verona. Tra gli attori, Giancarlo Sbragia, Ave Ninchi, Gianni Santuccio, Paolo Carlini, Valeria Moriconi (Rosalina), Eliana Ghione. La regia era di Franco Enriquez. Lo spettacolo mi restò impresso, e dura nella mia memoria. Aveva un carattere fiabesco affascinante, interrotto bruscamente alla fine dall’arrivo di Mercade. E’ una strana commedia (ma c’è una commedia di Shakespeare che non sia almeno fuori le righe?). Il Re di Navarra si ritira insieme a due gentiluomini per dedicarsi allo studio e alla scienza lungo la durata di tre anni. A rompere l’isolamento, ma non l’incanto, giunge la figlia del Re di Francia con due damigelle. 

E succede ciò che succede sempre in una commedia quando un uomo incontra una donna. I tre uomini s’innamorano delle tre donne. E si danno, con esse, alla più pazza allegria, non senza scambio di mascheramenti e di scherzi.


 
Il finale rovescia d’un colpo l’allegria, il divertimento di quanto precede precipita nel peggiore dei dolori, il dolore di una perdita. “Your father …” annuncia Mercade alla Principessa. “Dead, for my life!” , esclama la Principessa. (Vostro padre … Morto, per la mia vita). Questa scena è semplicemente sconvolgente nell’edizione che Elijah Moshinsky realizzò per la BBC nel 1996. Maureen Lipman, nella parte della Principessa, cambia d’un tratto aspetto, il volto le si sbianca. “Dead, for my life”, lo sussurra, quasi senza voce. E’ diventata un altro personaggio, il dolore l’ha cambiata. “L’efficacia di una battuta sta nell’orecchio / di chi l’ascolta, mai nella lingua / di chi la costruisce”, dice poco dopo Rosalina a Biron, al quale aveva chiesto di far ridere i moribondi, e lui protesta che un moribondo non può ridere. La morte entra nella commedia come un regista che sovverte i ruoli. Shakespeare si rende conto di scrivere un finale di commedia inusuale: senza le felici nozze a concludere amori contrastati. Gli innamorati dovranno attendere un anno: tempo troppo lungo per una commedia, protesta uno di loro. Poco prima il re di Navarra aveva chiesto alla Principessa un minuto di attenzione. Lei gli risponde che un minuto è tempo troppo corto per un contratto che giuri eterna fede. Il tempo, la morte, giocano con la vita, come gli attori con i personaggi. E il linguaggio li gioca tutti, vita, morte, tempo, attori. E’ la commedia più ricca di giochi di parole, che Shakespeare abbia scritto, Nadia Fusini parla di una “festa della lingua”, destinata forse a un pubblico di studenti. Moshinsky l’ambienta nel primo Settecento, al tempo di Garrick. E fa parlare gli attori con la fluidità di un musical. Allievi ed ex allievi dell’Accademia Nazionale d’Arte Drammatica, sotto la guida di Danilo Capezzani, anch’egli uscito dall’Accademia, lo mettono adesso in scena al Globe Theatre di Roma, oggi intesta al suo fondatore Gigi Proietti. Era un’impresa da far tremare le vene dei polsi. La traduzione è piuttosto libera, ma cerca di far percepire la scrittura in versi anche allo spettatore italiano. Con qualche rima, con l’andamento ritmico del discorso. E poi c’è l’inserimento di canzoni moderne (Moshinsky inseriva stilemi settecenteschi). Paolo Madonna impersona il “Dull, a constable”, tradotto Intronato, ed è un carabiniere, e parla napoletano. Bravissimo, spilungone, irresistibile la scena in cui suppone di essere adescato da Zucca, Leonardo Cesaroni (in Shakespeare Costard, a clown). L’ambientazione è moderna. Ciò permette agli attori un’allegra disinvoltura, ammiccamenti a usi e costumi di oggi.



 Talora c’è il rischio di eccedere in toni farseschi, ma il ritmo comico del dialogo è inflessibile, ed evita le cadute. Eccezionale, quasi una prestazione individuale da mattatore, il Biron di Francesco Russo. Alcuni hanno voluto vedere nel personaggio un’allusione alla figura di Giordano Bruno: Bruno, Berowne, Biron. Michele Enrico Montesano presta figura e voce alla macchietta spagnola di Don Armado. La Principessa è Sofia Panizzi, e dispiace che a lei sia tolta la battuta “Morto, per la mia vita”, perché l’annuncio della morte del padre è affidata a Boyet, Davide Fasaro, che qui usurpa la parte di Mercade. Sara Mancuso, Jaquinette, è perfetta controparte di Zucca. Ma tutti vanno citati, per la capacità di reggere una recitazione di gruppo, di condurre avanti l’azione in perfetta sintonia l’uno con l’altro: il Dumain di Riccardo Rampazzo, la Rosalina di Sara Younes, la Caterina di Adel Masciello, il Re di Gabriel Gasco. Chi tiene le fila dell’azione è Danilo Capezzani. Scene e costumi di Marta Crisolini Malatesta. Drammaturgia musicale di Paolo Coletta. Ma la rappresentazione di questo Shakespeare dimostra anche un’altra cosa: che la lettura di un classico non imprigiona la fantasia di un giovane regista e non lo spinge perciò a rispettare la lettera del testo. La drammaturgia originale è interamente ripensata e riscritta. Sacrificando, forse, la complessità di un testo che scherza anche con il tragico, ma restituendo d’altra parte tutta la vivacità di un’azione comica che mozza il fiato. Ne sentiremo parlare di nuovo, di questi ragazzi. E spero presto.









mercoledì 6 ottobre 2021

Autofiction tearale a Roma: vivisezione del cuore


 


Teatro Basilica, Roma. Frammenti.

Cuòre: sostantivo maschile.

drammaturgia, Angela Di Maso

regia, Alvia Reale

spazio scenico, luci, immagini, Francesco Calcagnini

costumi, Sandra Cardini

assistente alla regia, Ilaria Iuozzo

assistente costumi, Thiago Marcondes

Alvia Reale, Daniela Giovannetti, attrici e coautrici del progetto


Sotto la Scala Santa, tra Porta San Giovanni e la Basilica di San Giovanni, a Roma c’è un piccolo teatro che si chiama Teatro Basilica, la cui attività e i cui progetti possono essere letti ed esaminati nei seguenti siti:


https://www.teatrobasilica.com/

https://www.gruppodellacreta.it/il-team


E’ un gruppo di giovani attori e gente di teatro che vuole proporre un’idea nuova di teatro, un progetto nuovo di rapporto con il pubblico. Persone e programmi si leggono nei siti. Bella, comunque, l’idea di chiamare Frammenti tutto il progetto. In un’epoca in cui convivono da una parte l’illusione di costruire ed attuare una visione totalizzante del reale attraverso una semplificazione della sua complessa, assai complessa struttura, e dall’altra imponendo una sorta d’ideologia dell’individuo, che scambia la separazione dell’individuo dalla società e dal sociale come una conquista di libertà, ecco che questo gruppo di attori, di registi, scenografi, tecnici delle luci, drammaturghi, non nascondono la propria limitatezza, l’ineliminabile, insuperabile finitezza di esseri singoli, e anzi la esibiscono appunto come frammenti della realtà, il che vale a dire come parte essenziale di una realtà, che tutta insieme è impossibile abbracciare. Questi utopisti del teatro si tengono insomma in equilibrio tra specificità di ogni individuo e imprescindibile legame, o per meglio dire connessione, dell’individuo con il resto della società, che non è solo il suo presente, ma anche il suo passato e ciò che vuole divenire e sta per diventare, il suo futuro. Ma quale luogo migliore che un teatro, appunto, per dire e attuare tutto questo? Il teatro non nasce, infatti, come divertimento, anche se però diverte, bensì, già nell’antica Grecia, ad Atene, come spazio pubblico in cui la società esamina e giudica sé stessa. Sarebbe ora, soprattutto in Italia – in altri paesi d’Europa, e del mondo, si è già fatto, in qualche paese addirittura da qualche secolo – che il teatro torni a essere questo spazio. Poco importa che un Presidente del Consiglio dichiari – pubblicamente – che attori, musicisti sono utili perché “ci divertono”. È dalla sua fondazione, prima come regno, poi come repubblica, che l’Italia non riconosce il valore pubblico, sociale e- perché no? - politico del teatro. Ma di tante altre cose, è vero, l’Italia non riconosce il valore: l’istruzione (abbiamo gli insegnanti peggio pagati dell’Unione), la ricerca (è il paese di Europa che investe meno nella ricerca sia scientifica sia umanistica), e stendiamo un velo sull’insufficienza degli aiuti alle famiglie, sulla mancanza di un vero piano industriale, su una sanità del territorio mortificata, e così via. Ma non è questo il luogo per disegnare una mappa delle disfunzioni del paese Italia. Ecco, allora, che uno spettacolo come Cuòre: sostantivo maschile desta un interesse particolare, e non solo perché inserito nel progetto teatrale e culturale Frammenti, di cui sopra si è scritto. Angela di Maso, che ne ha curato la drammaturgia – qualcosa di più specificamente teatrale che scrivere soltanto un testo, come in genere in Italia si pensa la drammaturgia – Di Maso ha costruito l’azione sul corpo, sulla pelle, sulla vita delle attrici che lo attuano: Alvia Reale e Daniela Giovannetti. Ha reinventato una vicenda individuale, quella delle due attrici, per farne una rappresentazione esemplare della vita di ciascuno. Il drammaturgo uruguayano Sergio Blanco usa per questo tipo di scrittura e di rapprsentazione il termine, inventato negli anni ‘70 del secolo scorso da Serge Doubrovsky: autofiction, che si potrebbe tradurre in italiano con autofinzione, ma in francese, in inglese e in spagnolo il termine ha una maggiore densità semantica. In italia si usa perciò in genere il termine inglese, per designarlo: autofiction (nella scrittura, ma non nella pronuncia, identico a quello francese), che significa qualcosa di più preciso, e soprattutto di più letterario, che autofinzione. Gli italiani che ignorano lo spagnolo, per esempio, sono abituati a chiamare le Ficciones di Borges “finzioni”, che ne è la traduzione italiana. Ma lo spagnolo ficción, esattamente come il corrispondente inglese fiction, non significa semplicemente, come in italiano, finzione, bensì anche, o soprattutto, invenzione, racconto. L’autoficción, dunque, per Sergio Blanco, o autofiction, come dicono inglesi e italiani, è “il lato oscuro dell’autobiografia, e dove nell’autobiografia c’è un patto di verità, nell’autofiction c’è un patto di menzogna”. Da una certa parte della critica italiana si è scritto che l’autofiction è la morte del romanzo, perché reprime la fantasia dello scrittore. E’ una solenne idiozia. Allora il primo grande capolavoro della narrativa italiana, anzi l’invenzione stessa della prosa narrativa italiana, è un romanzo fallito, un libro sbagliato: la Vita Nuova di Dante. E sarà dunque sbagliato anche il Viaggio in Italia di Goethe, per non parlare del Werther? Nel Viaggio in Italia Goethe racconta dell’incontro a Roma con una “bella milanese”, di una possibile avventura amorosa che non trovò attuazione reale. Inventato. Goethe non incontrò nessuna “bella milanese”. Sarà per questo l’episodio meno vero? La sua verità non sta, infatti, nella corrispondenza con i dati reali della biografia di Goethe, bensì nella verità della sua realtà letteraria. Del resto, con gioco sottile, e geniale, di allusioni, Goethe intitolò la sua autobiografia non già autobiografia, come hanno fatto molti scrittori e anche non scrittori, o Vita scritta da esso, come fece Alfieri, ma Dichtung und Wahrheit, Poesia e Verità.

 Che cosa, dunque, racconta, e rappresenta Cuòre: sostantivo maschile? Sulla scena appaiono due donne, una, Alvia Reale, che ha costruito anche la regia dello spettacolo, indossa abiti quasi maschili, neri, pantaloni e giacca, l’altra, Daniela Giovannetti, un abitino leggero, roseo, gonna volante, quasi da ballerina. Attacca la donna in nero, e afferra una motosega elettrica. Parte enunciando come una filastrocca fiumi di parole, tutte con la stessa intonazione urlante, ma senza caratterizzazione particolare, e sono parole violente, insultanti, di frustrazioni vendicate. Questa violenza, però, risulta tanto più intollerabile, quanto più l’espressione è uguale, piatta, indifferente al significato delle parole, tra l’altro un tour de force non indifferente per un attore, condotto da Alvia Reale con mirabile continuità, una mitragliatrice di sofferenza e d’insofferenza. Con chi ce l’ha? Si direbbe con il mondo. Ma soprattutto con il teatro, che in Italia è così difficile portare sulle scene, quando è davvero teatro. La motosega si mette in moto, collocata con la base sull’inguine, e minaccia il teatro, i maschi, il mondo, come un gigantesco cazzo urlante che invece di sputare vita annuncia vivisezioni, tagli, mozzamenti, segature, recisioni, troncamenti. L’altra, Daniela Giovannetti, è una che sogna la danza, brama diventare famosa danzando, e ci è andata vicino, è perfino diventata davvero famosa, lavorando in televisione insieme a Rafaella Carrà, ma poi un incidente la immobilizza per mesi. Tutta la scena di lei che danza sdraiata per terra, perché non può alzarsi, perché non può muoversi, il braccio appena sollevato ricade inerte sul pavimento, i passi di danza sono attuati da gambe orizzontali, è da antologia di come si sta sulla scena. Ma ogni momento dello spettacolo è da antologia.

 Per esempio, le confessioni sessuali con un proiettore calato che dondola come un pendolo, lo si potrebbe perfino supporre simbolo fallico. E poi la scena finale, mozzafiato, le due donne diventano animali. Daniela un gatto, Alvia un cane. E la sofferenza, la solitudine, il bisogno di corpo, di contatto, la lacerazione dei ricordi, il dolore dell’abbandono, del rifiuto, la gioia dell’amplesso, sono gli stessi, come nell’homo insipiens: che ha di più, questo vanitoso animale, se non la parola? Ma ecco che se gli animali parlano, dicono le stesse cose. Perché sentono, vivono le stesse cose, gli stessi sentimenti, gli stessi abbandoni, gli stessi ritrovamenti. Teatro Basilica pieno, e fragorosi, interminabili applausi per le due splendide attrici, ma anche per tutti gli altri, le luci di Francesco Calcagnini, i costumi di Sandra Cardini. Il lavoro teatrale è sempre un lavoro collettivo. 


E alcune battute sono veramente destinate proprio alla collettività teatrale, comprese fino fondo solo da essa. “Chi non ha mai sognato almeno una volta di fare sesso con il proprio tecnico?” E tuttavia, proprio perché la collettività teatrale è metafora, specchio di qualunque altra collettività, specchio anzi di tutta la società, anche il linguaggio cifrato coglie nel segno. E l’autofiction non è solo la rappresentazione di una singola vicenda, ma il carnevale, la processione del mondo, della vita del mondo, come la vede sfilare sotto gli occhi Dante sulla vetta del Purgatorio, o come la dipinge Van Eyck nell’Adorazione dell’Agnello mistico sull’altare di San Bavone a Gand: tutta la storia del mondo, prima e dopo l’Uomo-Dio che separa la storia, e sia Dante, sia Van Eyck ci raccontano in realtà la propria storia, l’uno raccontando un viaggio nell’al di là, come se fosse un viaggio nell’al di qua, l’altro dipingendo la sua Gand dietro la processione dei profeti, e dietro la figura dell’agnello sacrificale. Il teatro si chiama Teatro Basilica. Sotto la Scala Santa, si suppone la scala che salì Cristo condotto davanti a Caifa. E accanto, la bella facciata costruita da Alessandro Galilei per la cattedrale paleocristiana di Roma, ma l’interno paleocristiano è totalmente reinventato da Francesco Borromini, il moderno sostituisce l’antico, o meglio, lo completa. Vengono le vertigini. C’è quasi l’autofiction di una città, e poiché è la città che fu capitale di un Impero ed è capitale dei cristiani, si potrebbe supporre che sia l’autofiction del mondo. Ha ragione Sergio Blanco: l’autoficcion è il lato oscuro dell’autobiografia. Molto oscuro. Ma è per questo che il teatro lo porta alla luce: perché la realtà del teatro è sempre stata, ed è, la realtà non dell’evidenza, ma di tutto ciò che ci è oscuro. Ed è saggio, perciò, l’avvertimento che ci suggerisce Frammenti, sul programma della stagione: “Si prega di non recitare nella vita reale”.