Robert Schumann
Album für die Jugend
Maurizio Baglini
Decca 481 9027
2 cd
Schumann è compositore di una
complessità quasi insondabile. La sua musica, nonostante questa
complessità, ha però sempre, o quasi, un impatto immediato
sull’ascoltatore, che se ne lascia conquistare, anzi affascinare,
sommergere. Anche l’analisi più sottile non coglie tuttavia che
una parte degli infiniti suoi livelli di costruzione e di
significazione. C’è un argomento, per esempio, che soprattutto in
Italia, si trascura sempre, o quasi sempre: la crittografia che si
cela nella sua scrittura. Eric Sams, che, durante la seconda guerra
mondiale, fu tra i decrittatori del codice Enigma dei nazisti, ha
dedicato, come musicologo, un libro alla crittografia schumanniana
(altri ne ha scritti su Brahms ed Elgar, ed uno generale proprio
sulla crittografia musicale): Il tema di Clara, Asti, Analogon,
20102. Indispensabile, come introduzione generale alla
crittografia musica, il suo Musica e codici cifrati, Asti, Analogon,
2010. (Per la bibliografia e i riferimenti alle edizioni originali
rinvio alle pubblicazioni italiane di Analogon, che si avvalgono
della bella traduzione di Erik Battaglia).
Ora, mettiamo pure da parte la
crittografia segreta di Schumann, che comunque ha una funzione e un
valore significante non inferiori alla funzione e al valore della
numerologia nella Commedia di Dante e nella musica di Bach. Ma
consideriamo che, per esempio, le citazioni da sé stesso e da altri
musicisti non sono mai casuali, bensì introducono anch’esse una
significazione, intellettuale ed emotiva, di peso non inferiore al
respiro melodico, all’originalità armonica, alla particolarità
ritmica. Insomma, alla costruzione di una pagina musicale di
Schumann, anche la più semplice, la più elementare, concorrono
molti fattori, e nessuno è più importante dell’altro. In questo,
veramente Schumann è la prima figura di compositore intellettuale,
nel senso moderno del termine, e sembra quasi un compositore
d’avanguardia. Non a caso amatissimo, per esempio, da Berg, anche
lui patito di calcoli musicali e di crittografie. La Fantasia in do
maggiore op. 17 ricava il suo tema d’attacco, che comunque percorre
l’intera composizione, dal ciclo liederistico An die ferne Geliebte di Beethoven.
Non è un rinvio casuale, ma l’affermazione di una continuità,
come a dire che dopo Beethoven la musica non è più la stessa.
Qualcosa di analogo esprime l’evocazione bachiana nello struggente
Adagio della Seconda Sinfonia.
Ma veniamo a questo Album per
la Gioventù interpretato da Maurizio Baglini. Schumann dedica molte
sue pagine all’infanzia, alla gioventù. Ma mentre le Kinderscenen,
Scene infantili, sono il mondo infantile guardato dall’adulto,
l’Album per la gioventù vuole dare la parola ai bambini e agli
adolescenti, guardare il mondo con i loro occhi. L’Album per la
gioventù ha un intento didattico. E’ diviso in due parti, la prima
für
Kleinere, per i più piccoli, la seconda “für
Erwachsenere“, per i più adulti. Vuole
condurre per mano il giovane pianista dal semplice al complesso,
insegnargli a capire il moderno, la sospensione della melodia, la
melodia non più in equilibrio tra un’ascesa e una discesa,
l’armonia inattesa, o senza di conclusione, il contrappunto come
gioco fantastico, la libertà asimettrica del fraseggiare o se
ingabbiato in una simmetria, la sua irregolarità all’interno di
essa. Ma, come per Bach, per Chopin, e poi
per Bartók,
l’intento didattico, invece di mortificare l’invenzione poetica
l’accende, la incrementa. Non solo, ma in qualche modo tutti i
pezzi sembrano generati dal primo, in ciò seguendo un principio
costruttivo al quale Schumann resta fedele per quasi tutta la sua
opera. L’opera
non si presenta come una successione di
vere e proprie variazioni, ma di
sviluppi,
varianti, fantasie da
un’idea di partenza. Anche qui la lezione beethoveniana è
profondamente assimilata. Ma piegata anche a esiti assai diversi: il
rigore dell’invenzione è celato, per sortire l’effetto apparente
di un’improvvisazione. Non che da Beethoven tale procedimento sia
ignorato, si pensi solo al primo tempo dell’op. 101 o 109. O alle
Bagatelle, soprattutto le ultime, già quasi pre-schumanniane, o più
esattamente,
ricche di spunti per l’invenzione musicale di Schumann. Il
filo che collega i pezzi è però
facilitato
dalla semplicità dell’idea di partenza, una scala discendente che
copre una sesta, dalla mediante alla dominante della tonica di
do maggiore,
da
mi a sol.
Con inversioni, retrogradazioni, varianti: la scala è deviata,
spezzata
da
varie
figure melodiche tradizionali e da
abbellimenti,
da
diversioni su altri gradi, da
procedimenti d’inversione e retrogradazione, insomma da tutti gli
artifici del contrappunto: così che
l’idea si dimostra di una fertilità insospettata.
Come
tutti i grandi artisti Schumann non ha bisogno di accumulare
un diluvio di idee diverse e assemblarle, infittirle.
Gli basta una sola idea dalla quale la fantasia estrae poi
altre, molte
e inesauribili idee. E’ il principio che unisce,
come
in Haydn, in Beethoven, l’idea di
variazione con l’idea
di
sviluppo da
una
stessa figura
tematica. Anche questo, è
un procedimento imparato
soprattutto
dall’ultimo
Beethoven. Schumann inventa, come
pochi altri musicisti romantici,
forme nuove, anzi nuovissime, ma queste
forme sono
intrise tutte
di memoria, costruite su una tradizione ineliminabile, che volendo,
almeno per lui, può farsi partire dal contrappunto fiammingo. Non è
un caso, del
resto,
che la rinascita dell’interesse per Palestrina, allora
sentito non a torto come il culmine della tradizione fiamminga,
cominci proprio
in Germania. Come
poi sarà,
nel
tardo ottocento,
e
nel primo novecento, la
“riscoperta”
di
Verdi, non
più sentito come esempio di musica più rudimentale rispetto a
Wagner, bensì come un’altra via del moderno, e proprio quando in
Italia si tendeva invece ancora a considerarlo irrecuperabilmente
inferiore.
Si
potrebbe aprire qui una lunga digressione sulla perenne
incomprensione degli italiani per le figure più europee di italiani,
si pensi solo, nel Novecento, a Svevo e Pirandello, capiti, e
apprezzati, all’inizio, più in Francia, in Germania, in
Inghilterra, e perfino negli Stati Uniti (Greta Garba girò un film
da Come tu mi vuoi), che in Italia, dove non solo il lettore, il
pubblico, ma perfino la critica. in
particolare Croce,
o se ne teneva a distanza o li stroncava. La
cultura tedesca ha, invece,
un profondo
e radicale
senso della trasformazione che il presente impone al passato. Se non
si tiene presente questa costante culturale della
società tedesca
non s’intende il classicismo di un poeta rivoluzionario come
Goethe, l’attenzione di Bach a Frescobaldi, e la quantità
incommensurabile di musica rinascimentale, barocca, classica e
romantica che innerva le pagine di innovatori
come
Schoenberg, Berg e Webern.
Prendiamo
uno dei primi pezzi di quest’Album. E uno dei più semplici, almeno
all’ascolto. Il 16°: Erster Verlust, Prima Perdita. Scrive bene
Baglini, nelle bellissime note che accompagnano l’incisione, che
Schumann non ha un’immagine serena, idilliaca, dell’infanzia e
dell’adolescenza. Ma ci rappresenta un mondo complesso, intimamente
fratturato, che ha certo
i suoi momenti di gioia, e perfino di esaltazione, ma che nel fondo è
un mondo doloroso, disincantato, intriso di sofferenze e lacerazioni,
non diversamente dal mondo degli adulti. In
questo Schumann è modernissimo. Freud
non farà, infatti,
per esempio,
che confermare la giustezza delle intuizioni schumanniane. E
non diversamente, dopo, un Piaget. Ma
anche retrocedendo addirittura ai primi secoli del cristianesimo,
basterebbe leggere le prime pagine delle Confessioni di Sant’Agostino
per vedersi
demolire
la zuccherosa e falsa idea che troppi hanno ancora dell’infanzia.
l’idea
di una diversità, di un’innocenza primordiale del bambino, è
recente, anche se diffusa. Gli psicologi moderni si ostineranno,
giustamente, a ribadirne l’inconsistenza e e l’illusorietà. In
tal senso, i nostro nonni, e anzi addirittura i bisnonni, i bisavoli,
trisavoli, in una parola i nostri antenati, capivano il bambino più
di noi. C’è un bellissimo libro, di Philippe Ariès, sulla
costruzione moderna dell’immagine edulcorata del bambino.
Le fiabe di orchi e streghe cattive, che
raccontavamo nei secoli scorsi ai bambini.
non spaventano affatto
i bambini,
spaventano gli adulti che suppongono,
erroneamente,
che i bambini debbano
restarne spaventati, perché non
sanno
confrontarsi con la durezza della realtà,
non
capiscono
anzi
niente di
com’è fatta la
realtà.
Ora,
qui, in
questo breve, immenso, capolavoro,
ch’è
Verlust, Schumann
vuole raccontarci invece
il dolore infantile della perdita, del distacco. E ci dice che questo
dolore
non è diverso dal dolore dell’adulto. Freud in una pagina
bellissima dell’Interpretazione dei sogni demolisce e deride gli
adulti che deridono i bambini quando
piangono per la perdita del palloncino. E dicono al bambino: ma è
solo un palloncino! Questi adulti, per Freud, non capiscono niente
del bambino, ma soprattutto non capiscono niente di che cosa sia il
dolore di
una
perdita. Perché non è la cosa perduta che fa male, ma il fatto che
la si perda. E’ il perdere, la sofferenza, non ciò che si perde.
Allora tra il dolore per la perdita di un palloncino e quello per la
perdita dell’amata la differenza sta tutta e solo nell’oggetto
della perdita non già nel dolore di perdere.
L’idea
di partenza di
questo piccolo gioiello è
una variante della sesta discendente del
primo brano,
il
quale
s’intitola non a caso Melodie, melodia, come
a significare che dalla melodia nasce tutta la musica;
in questo caso, però,
la scala non è esposta in do maggiore, bensì in mi minore, e
va
dalla mediante,
sol, alla dominante,
si. Il
percorso è lo stesso, dalla mediante alla dominante – da qui il
senso di ripetizione, di variazione, modulazione a un’altra
tonalità e a un altro modo. Ma
la
scala non viene esposta per
gradi congiunti, bensì con una figura che sarà molto cara a Mahler,
e
che
risale al contrappunto rinascimentale, Praetorius la
chiama
“messanza”, una
seconda discendente seguita da una seconda ascendente, nell’ambito
di una terza che
si appoggia sulla sensibile re diesis.
La sinistra risponde con un’altra
terza, però
diversa,
mediante tonica, a ribadire l’intervallo, ma
a far sentire la differenza di due voci distinte.
La destra ripete subito
la terza, ma partendo dalla tonica e scendendo alla sesta, quasi a
configurare il relativo maggiore di do. La terza diventa tuttavia
una quarta alla
sinistra,
tonica
dominante di sol maggiore,
anch’essa ripetuta dalla
destra, ma dalla tonica alla dominante di mi minore.
Di
nuovo è insistita la diversità delle voci, nella somiglianza delle
imitazioni. La
sinistra ripropone quindi
la terza, sol mi, sulla tonica di mi minore. E
abbiamo coperto le quattro battute della scansione tradizionale di
un’esposizione di melodia, o di tema. Da
questi soli
elementi
si sviluppa il resto del brano. Sono
due voci che si combinano e si contrastano in contrappunto. Ciò che
emerge all’ascolto è soprattutto questo combinarsi, rispondersi,
contrastarsi di melodie. Le
melodie però
s’inseguono, ma non s’incontrano, sono simili, ma non uguali,
sembrano unirsi nell’attaccare uno stesso motivo, ma poi la melodia
procede per altri sviluppi. Siamo
nel territorio del contrappunto imitato, ma le voci tendono a restare
disgiunte, a non soprapporsi, si alternano invece di combinarsi.
Sopraggiungono, a conclusione, pochi
accordi netti, spietati, nei quali il contrappunto, e dunque la
combinazione delle voci, non è abolito, ma è assorbito
dall’omoritmia, il dialogo, che
comunque non aveva mai conosciuto una vera combinazione, piuttosto
che concludersi s’interrompe.
Si
poteva dare immagine più dolorosamente efficace di una perdita e
della sua ineluttabilità? La musica, per Schumann, racconta
sentimenti, idee, avvenimenti. Ma non con effetti esteriori,
plateali, d’imitazione realistica, che in musica risulta quasi
sempre banale, puerile nel senso denigratorio del termine. Bensì
solo attraverso procedimenti musicali che si sono sedimentati nella
tradizione, proponendo figure convenzionali pressoché utilizzate da
tutti i musicisti. Insomma, c’è una vera retorica musicale, e come
la retorica letteraria si avvale non di supposte copie della realtà
- la realtà non è riproducibile da nessun linguaggio - bensì dalle
figure convenzionali di una tradizione attraverso la quale musica,
poesia, pittura, scienza (sì, anche la scienza: la matematica è un
codice che decritta le leggi del reale, non è la realtà) alludono
alla realtà.
Ecco,
tutto l’album è concepito con la stessa, costante tensione emotiva
ed intellettuale. Ed è proprio questa tensione che Maurizio Baglini
vuole restituirci. Intanto, l’esecuzione progressiva di tutti i
brani ci rivela come tutto l’album sia un progetto unitario,
un’architettura musicale in cui i singoli elementi - i
diversi brani -
costruiscono insieme l’edificio sonoro. E poi, la scelta espressiva
di questa esecuzione. Ritorniamo al brano sommariamente analizzato,
Verlust. Le due voci sono affidate alle due man; le
melodie,
anche
se combinate per imitazione,
non passano
mai da una mano all’altra, quasi a proiettare fisicamente, anche
nella separazione delle mani, la separazione della perdita. Baglini
non usa, infatti,
lo stesso tocco per le due mani. La sinistra ha un tocco più
fievole, più lontano. Si sta perdendo. Il tocco è uniforme, forte,
secco, duro, per l’ultima volta, solo negli accordi finali che
sanciscono l’inesorabilità della perdita. Ecco una maniera di
realizzare con il tocco e con la dinamica lo svolgersi del
contrappunto. L’idea che una melodia sia qualcosa di continuo, e
che vada sostenuta
da un accompagnamento, come il senso comune intende la melodia, è
distante anni luce dall’idea che Schumann vuole dare di una
melodia, e di come cantarla.
E’
un altro mondo, mediterraneo,
se si vuole, cattolico, che ha il canto gregoriano, e
più ancora il teatro,
per radice e
per modello.
E’ un
mondo che non
appartiene al mondo di Schumann, che
alle origini ha la melodia del corale luterano a quattro voci. E’
lì che la tradizione italiana si separa da quella del nord. Entrambe
affondano, certo,
le
radici nella monodia gregoriana, ma nel nord ricreata dal
contrappunto fiammingo, in Italia, dopo la splendida stagione
contrappuntistica
rinascimentale franco fiamminga, prevale, con
il recitar cantando,
il senso monodico della melodia, la melodia accompagnata: il
contrappunto s’è condensato in sostegno armonico.
Non
si tratta di stabilire una superiorità o un’eccellenza dell’una
sull’altra. Sono due concezioni diverse d’intendere la melodia.
Che hanno anche conosciuto incontri, contaminazioni. Di questa
contaminazione, anzi, Mozart è l‘esempio insieme forse più alto,
ma anche più enigmatico. L’idea
melodica
più semplice sottintende, invece,
in Schumann,
sempre anche un altro livello, anche quando non è espresso. In un
suo brano per
pianoforte
Schumann scrive una melodia che non si suona. Nel Carnaval, infine,
l’idea di partenza, Sphinxs (sic!), è un motivo e il suo retrogado
che vede solo l’esecutore, perché non si suona (non è avanguardia
darmstadtiana: è Schumann,
e addirittura uno Schumann giovanile). Un
compositore che abbia una concezione contrappuntistica della musica
non concepisce melodia che non sia fonte d’intricate relazioni
contrappuntistiche, anche se appare essa sola e
appare come monodia:
Bach e Chopin – sì, anche Chopin – e
in fondo anche Debussy, il meridionale, il francese, la
pensano in questo come Schumann.
E’
l’aspetto che più affascina di quest’interpretazione
che Baglini offre dell’Album della gioventù: la complessità
contrappuntistica della musica restituita da un’enorme ricchezza di
differenziazioni del tocco e della dinamica. Baglini ha registrato
anche le due Appendici dell’Album. Sono 18 brani che si aggiungono
ai 43 dell’Album. Qualcuno è trascrizione o, meglio, riscrittura,
di brani di altri musicisti (Handel, Bach, Beethoven – l’Arietta!
- Weber). Sublime, o addirittura sublimillimo, se si potesse dire, un
Ländler
di Schubert, D
783, in cui la sintonia dei due immensi compositori,
l’identificazione, è totale. Un altro
brano si chiama Rebus, a mettere in evidenza, se ci fosse bisogno, la
passione di Schumann
per la crittografia. Non sottovalutiamola. Chi arriccia il naso o
scrolla le spalle, come per dire che si tratta di bazzecole che non
toccano l’essenza della musica, si sbaglia: se Schumann le dava
peso vuol dire che un peso ce l’ha. Bisogna sgomberare la propria
mente di qualsiasi idea pre-concetta (alla
lettera, concepita prima del confronto con l’opera)
dell’arte, quando ci si accosta all’opera di un artista, perché
nell’opera ciò che conta non è la nostra idea ma l’idea
dell’artista. Che Dante si faccia chiamare per nome da Beatrice,
nel Purgatorio, ed è l’unica volta in cui leggiamo il suo nome,
nel verso che divide esattamente in due il numero dei versi della
Commedia, e
il cui numero è il simbolo numerico del nome, non
è un ghiribizzo di astruso
cabalistico medievale, e se pure fosse dobbiamo tenerne conto, ma un
messaggio che, nella struttura del poema, vorrà pure dire qualcosa.
E noi dobbiamo cercare che cosa voglia dirci, non scrollare le spalle
per
liberarcene come di una sciocchezza.
Con
Schumann e con qualsiasi altro artista dobbiamo comportarci nello
stesso modo. L’idea crociana che la poesia sia una cosa e un’altra
la non poesia non tiene conto dell’indissolubile unità dell’opera,
nella quale la struttura non è un orpello, ma il sostegno, anche
della poesia, un’architettura
che anzi spiega perché c’è
quella
poesia e non un’altra. Baglini in quel Ländler
ci affonda, vi si abbandona. E ci lascia così, con un’eco
indimenticabile di bellezza che non guarisce, ma che
ci
rende più comprensibile, il dolore del mondo. E’ questo è
l’ufficio della musica, della poesia, dell’arte: rendere
comprensibile l’incomprensibile del vero. Lo aveva già capito
Aristotele quando afferma, nella
Poetica,
che in qualche modo la poesia è filosofia, perché non
ci rappresenta la cronaca di una vicenda,
ma
ci
rappresenta, e
concretamente, visibilmente,
un “universale” che altrimenti non sapremmo afferrare.