mercoledì 5 febbraio 2020

Hyperion di Maderna all'Università di Roma







ISTITUZIONE UNIVERSITARIA DEI CONCERTI
AULA MAGNA DELL’UNIVERSITA’ DI ROMA “LA SAPIENZA”

HYPERION di Bruno Maderna
Carmelo Bene, voce in absentia
Gianni Trovalusci, flauto, flauto in sol e ottavino
Christian Schmitt, oboe, musetta, oboe d’amore
Ensemble Ars Ludi, percussioni
Ready-Made Ensemble, coro da camera
Giuliano Mazzini, maestro del coro
Orchestra Sinfonica Abruzzese

Marcello Panni, direttore

Lukács lo chiama “giacobino mascherato”. Sognò, insieme a Hegel e Schelling, suoi compagni di studio nello Stift di Tubinga, che la rivoluzione francese si estendesse anche nei paesi tedeschi. Schelling nel 1793 tradusse in tedesco la Marsigliese. Ma la distanza tra il sogno e il vissuto era immensa. “Un segno siamo noi, che non significa niente” scrive Hölderlin in Zeichen, il segno, appunto per Mnemosine. E in Hyperion, gli fa dire, al suo eroe fallito, al greco di una rivoluzione inattuata: “L’uomo è un dio quando sogna, un mendicante quando s’llude”.

Io non ho nulla da dire ch’è mio” sussurra, spento, Carmelo Bene.

Non si crede alle date. Tra il 1792 e il 1797. Questo il periodo della stesura del romanzo. Due anni prima, nel 1790, Beethoven scrive una cantata per la morte dell’Imperatore Giuseppe II. Nel 1805 quella musica diventa la musica che c’introduce nella cisterna dove sta rinchiuso Florestano. E rimarrà fino all’ultima versione del Fidelio, del 1812. Un fa minore cupo, tombale. Come i versi giovanili di Hölderlin:

Come la mia felicità, il mio canto. Vuoi nel tramonto
Bagnarti lieto? Già s’è spento, e la terra è fredda,
E frulla l’uccello della notte
Sinistro innanzi ai tuoi occhi.
(La brevità, traduzione, bellissima, di Giorgio Vigolo)



Nel 1964 Bruno Maderna concepisce una sorta di oratorio drammatico, che chiama Lirica in forma di spettacolo, intorno alla figura di Iperione, un giovane greco esule in Germania, che scrive le sue lettere all’amico Bellarmino, come Werther poco più di venti anni prima, all’amico Guglielmo. L’opera va in scena al Teatro La Fenice di Venezia per la Biennale Musica il 6 settembre 1964. La messa in scena è di Virginio Puecher, e nella stessa serata è in scena anche il Don Giovanni di Malipiero. Maderna infila insieme composizioni già terminate. Poi rimette mani al progetto per un’edizione da concerto, finché nel 1980, e dunque 40 anni fa, Marcello Panni e Carmelo Bene rimontano insieme vari pazzi – Maderna era morto nel 1973 – e nasce la storica esecuzione dell’Accademia Nazionale di Santa Cecilia. Ora, Panni rielabora la composizione proprio di quel concerto, recupera la voce di Carmelo Bene, “in absentia”, toglie l’aria finale del soprano, e ripropone l’opera all’Aula Magna dell’Università di Roma “La Sapienza” per la stagione concertistica dell’Istituzione Universitaria dei Concerti.

Chiariamo subito alcuni punti. Hyperion è da subito, fin dal 1964, un work in progress. Verrebbe da dire che lo è già il romanzo di Hölderlin, mai compiuto. Perché fa ampio uso dell’alea. Sulla quale molto è stato detto e più scritto, a proposito e a sproposito.

Cominciamo con lo spiegare la parola. Ecco la definizione che ne dà il Dizionario Treccani: “àlea s. f. [dal lat. alea «gioco di dadi»]. – 1. ant. Gioco d’azzardo. 2. Rischio, sorte incerta: correr l’a., affrontare il rischio, tentare la sorte. Nel linguaggio giur., a. normale del contratto, quel grado di incertezza economica che è implicito in tutti i contratti, in quanto dall’avverarsi di circostanze estrinseche e future può dipendere il vantaggio dell’una o dell’altra parte”.

Ricordante Dante? “Quando si parte il gioco della zara”? E’ l’attacco del sesto canto del Purgatorio, quello in cui a un certo punto s’impreca sulla “serva Italia” ridotta a “bordello” (sono passati sette secoli, ma mi pare che siamo rimasti là). Il gioco dei dadi è l’intervento del caso nella successione degli avvenimenti, o, più precisamente, come dice Mallarmé, l’atto “che abolisce il caso”. Il colpo di dadi, infatti, introduce nella successione delle scelte una decisione. Che non dipende dal soggetto ma dal dado. Il contrario, dunque, di ciò che il senso comune pensa: il tiro di dadi non è l’intrusione del caso, ma l’introduzione di un atto che decide. Su questa ambiguità gioca – sì, gioca – la teoria musicale dell’alea.

Nella musica, una decisione estranea alle intenzioni e alla volontà dell’autore c’è sempre stata. L’idea dell’individuo creatore unico dell’opera nasce nel romanticismo ed è un’idea quanto meno approssimativa del vero lavoro dell’artista e perfino, se si vuole, dell’opera compiuta. Chi legga una poesia di Leopardi, per quanto voglia e possa indagare le reali intenzioni del poeta aggiungerà sempre le proprie emozioni, la propria visione della poesia, la prospettiva della propria formazione culturale: Croce non legge Leopardi come lo leggono De Robertis o Timpanaro o Luporini. In qualunque esecuzione musicale il dosaggio delle dinamiche è operato dall’interprete. Quale forte rispetto a quale piano? Sulla carta non c’è scritto. 
 

Ora, Cage ebbe l’idea di organizzarla questa intrusione di un intervento esterno nella costruzione dell’opera. E ne fece uno dei “formanti dell’opera stessa. Maderna va ancora oltre. Nessuno degli esecutori suona una sola nota che non sia scritta sul pentagramma, compresi i cluster, e i punti in cui la zona, il registro d’emissione sono suggeriti in maniera indeterminata. In questo modo l’opera non conosce mai una versione definitiva. Ogni esecuzione è una nuova e diversa versione dell’opera. Se io l’ascolto registrata, sarà la versione registrata, ma non l’opera definitiva. Marcello Panni, anche lui compositore, questo meccanismo non solo lo conosce, ma lo ha vissuto sulla propria pelle, nella propria testa e nella pratica musicale. Ed è per questo che ieri sera, all’Aula Magna dell’Università, guardando l’affresco di Sironi e ascoltando la nuova versione che Panni ci ha offerto dell’Hyperion, mi sono commosso.

Mi sono sentito riprecipitato a quaranta anni fa, quando, sia pure con altri interpreti e in altra forma, l’avevo ascoltato a Santa Cecilia, un Hyperion di Maderna. Filo di connessione, tra quello ieri e l’oggi, la voce di Carmelo Bene, riascoltata “in absentia” dai microfoni. Gli interpreti della serata, però, sono stati tutti all’altezza del compito. L’Orchestra Sinfonica Abruzzese, l’Ensemble Ars Ludi, con lo strepitoso percussionista Antonio Caggiano e i suoi amici, Gianni Trovalusci ai diversi flauti, struggenti certi lunghi assoli; Christian Aschmitt all’oboe, alla musetta, acuti stridenti, lancinanti, e all’oboe d’amore; il Reay-Made Ensemble, magnifico coro da camera guidato da Giuliano Mazzini, duttilissimo nel passare dalla dizione al sussurro, dal canto al grido; e Marcello Panni, la testa, la mano, l’incantatore che ricrea questo mondo.

Riflettevo: si continua a rimproverare alle avanguardie del secondo novecento una loro supposta rigidezza dogmatica. Ma dove? Ma quando? Non c’è un compositore che assomiglia a un altro. Ieri, tornando a casa, alla radio, ho sentito Mauricio Kagel – sì, lui! l’ultravanguardia darmstadtiana – dirigere le musiche di scena di Beethoven per l’Egmont di Goethe. Interpretazione intensissima, che scava negl’interstizi delle strutture musicali per cavarne fuori l’anima più profonda del dolore libertario di Beethoven. Che cos’ha in comune la musica di Kagel con quella di Stockhausen, Boulez, Nono?

Il dolore libertario di Beethoven è lo stesso di Hölderlin: l’utopia di una libertà che non riesce a prendere corpo sulla terra. E anche la libertà musicale è immagine di questa utopia. Si ascolti il Canto del Destino per oboe d’amore e orchestra (il testo è lo stesso intonato da Brahms, e con lo stesso struggimento): l’oboe, strumento assai caro a Maderna, che inventa il genere dell’Aulodia, musica per oboe e strumenti, eco o riflesso moderno dell’antico aulós greco, che è appunto un oboe e non un flauto. E la musica si distende nei millenni, a cantare sempre, di nuovo, il lamento dell’uomo, infelice, separato dalla beatitudine degli dei. La demenza caló su Hölderlin a salvarlo dalla disperazione del presente, perché “gli uomini preferiscono ciò ch’è presente”. Penso agli uomini di questo presente.

Hyperion è il romanzo dell’inadeguatezza. Ed ecco questa musica che sembra cercare, indagare, penetrare la materia del suono prima che essa sia organizzata, e allora quando interviene l’organizzazione, essa è così precisa, così capillare da produrre la sensazione del caos, un’entropia, una freccia del tempo che coglie come bersaglio sé stessa, come se si arrotolasse in un fulminare d’istanti che aboliscono il tempo. Filosofia? Può darsi. Ma è dal tempo di Bach che la musica ci ha abituati a pensare, ci ha abituati anzi a pensare che la musica stessa è pensiero. O addirittura prima, dall’Ars Nova francese del Trecento, quando Machaut scrive, nel suo bellissimo francese antico, che “musique est une science / qui veut qu’on rie, chante et dence”, musica è una scienza-arte / che fa ridere, cantare e danzare. Non c’era ancora la separazione tra arte e scienza. E del resto già Pitagora immaginava che la musica terrestre fosse specchio di una musica degli astri.

Ma qui fermiamoci. Ripercorriamo dentro di noi il percorso di questo Hölderlin Maderna, o Maderna iperionizzato. Il fallimento di una rivoluzione diventa esso steso la rivoluzione. Perché nell’atto con cui la rievoco e la invoco, la sto provocando, se non altro nella testa di chi ascolta. Era questo il messaggio delle avanguardie novecentesche. Hanno fallito il bersaglio? Sono fallite esse stesse? Sembrerebbe di sì, se si guarda la desolazione del presente, l’irrigidimento del pensiero in pochi slogan che non significano niente, l’illibertà di chi non ammette altra forma d’arte di quella immediatamente comprensibile, immediatamente fruibile. Che allora si tengano Sanremo, ma non proibiscano a chi vuole altro, anche l’incomprensibile, di attuarlo. L’avventura delle avanguardie era l’avventura del molteplice. Quella di oggi sembra l’avventura dell’univoco. Certo che c’erano intolleranze, arbitrii, violenze. Perché, oggi no? L’intolleranza che oggi condanna tutto ciò che anche minimamente possa assomigliare a una riproposta di avanguardia non è poi tanto diversa, anzi mi pare più radicale, di quella imputata alle avanguardie di non sopportare altre forme d’arte che le proprie. Berio ha pur composto i Folk songs. Boulez ha chiamato Frank Zappa a suonare a Parigi. Quanti, oggi, sono disposti a fare lo stesso con chi non è del coro?

Il discorso è assai più complesso, lo so. E certi ostracismi di allora bruciano ancora. Ma perché vendicarsi con ostracismi di segno opposto? Possibile che non si riesca a interrompere l’insopportabile ciclo di figli che uccidono i padri, perché i padri, prima, avevano tentato loro di uccidere questi figli?

Un poeta, un grande poeta degli anni novanta, allora ai margini della poesia in voga, perché anche lui non apparteneva al coro, scrive un verso memorabile, lancinante, che potrebbe essere il manifesto della nostra situazione di sopravvissuti alla catastrofe che ha azzerato tutti i linguaggi: “non ho vita che per tenerti in vita” (Ferruccio Benzoni).

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