Stridevano stridevano dai rami
gli
uccelli ma non so se lingua o canto
fosse
il folto tessuto di richiami
se
mai felicità o se compianto
o
l’anima voltatile e inquieta
muovesse
l’ugola forte – mai stanca
d’ogni
piccola gola
nell’ora
in cui la luce che dirada
ha
fatto il cielo di opaco argento
e
di piombo e di zinco la strada
ma
in quest’ora intonata – completa
una
cosa una sola mi manca.
Gabriella
Leto, Aria alle stanze, Einaudi, 2003.
Leggere
lentamente. E riflettere, parola per parola. E - soprattutto - in un
momento di diffusa sciatteria come oggi - riflettere ancora una volta
sulla necessità del controllo linguistico, qualunque cosa si scriva,
ma soprattutto quando si scrive poesia. Lessico, sintassi della
poesia italiana - e non solo italiana - hanno alle spalle secoli di
tradizione, e fanno parte di questa tradizione anche gli
sperimentalismi avanguardisitici, che poi non sono solo novecenteschi
- basti pensare al geniale Folengo, o all’Ariosto delle Commedie, e
a suo modo perfino l'Orlando Furioso è un magnifico esempio di
sperimentalismo narrativo e poetico. Credo che a quest’ultima
affermazione dal suo luogo di attuale silenzio la stessa Gabriella
Leto mi sorrida e consenta a questo nome. Su 12 versi, 8 finiscono
con la vocale a, due addirittura in rima – inquieta completa - ,
quattro in assonanza - stanca dirada strada manca, la prima, 6°
verso, e l'ultima, 12° vero in rima: stanca manca, l’ultima, 8°
verso, fa rima con il secondo verso dell’ultima quartina: dirada
strada - e gli altri quattro versi, i primi, sono a rima alternata -
rami/canto /richiami/compianto. E c'è anche una consonanza interna -
intonata, completa – intonata fa assonanza interna con la parola
che chiude il verso precedente: dirada, di modo che dirada da una
parte è in rima con strada, dall’altro s’inserisce in una catena
di assonanze: stanca dirada strada manca, di cui due in rima. -
L'andamento
ritmico non è meno complesso: a dare l’intonazione ritmica
principale è dell'endecasillabo, interrotto solo da un settenario,
al settimo posto (coincidenza?), e da tre decasillabi, gli ultimi tre
versi. La scansione del nono verso è però ambigua, se si fa cesura
tra di e opaco è un endecasillabo, Se però la i di di e la o
iniziale di opaco si assimilano allora, per quanto irregolarmente
accentato, è un decasillabo; ma potrebbe anche essere, più
regolarmente, un doppio quinario. In questo caso la poesia avrebbe i
primi quattro e gli ultimi quattro versi raggruppati in due blocchi
metrici simmetrici, ma distinti per misura di versi e tipo di rima.
La quartina interna è unita da versi che terminano tutti in a. Non
credo che tutto questo sia casuale. Potrà esserlo in parte, ma
durante la scrittura, nel controllo finale, la coerenza ritmica e la
catena delle assonanze, consonanze, rime sono riequibrate e volute, a
formare un’unità stilistica coerente. Insomma: fare poesia è ars,
non impulso irrazionale. L'impulso dà l'attacco. Ma poi interviene
l'ars. Non ultima catastrofe della trasformazione del latino in
volgare è la perdita della ricchezza semantica di certi vocaboli, o
addirittura il loro cambio semantico. Ars non è arte. E officium non
è né ufficio né dovere. La poesia, per un poeta, e non solo
antico, dovrebbe essere simultaneamente ars e officium.
Ma
se questa è l’analisi metrica della poesia, il suo esame
stilistico e la considerazione di ciò che vi si esprime non fanno
apparire la sua elaborazione di minore coerenza.
L’attacco
non può ingannare chi ami la musica, e in particolare il melodramma.
Come sappiamo che Gabriella Leto amava. La ripetizione del verbo
rinvia inequivocabilmente a un’aria famosa – che come questa
poesia non è una regolare poesia strofica nemmeno l’aria alla
quale allude è un’aria convenzionale che rispetti la forma
dell’aria - e il ricordo dell’aria musicale racchiude subito il
lettore nel tema della poesia: il lamento per un distacco. Si tratta
dell’aria che Cavaradossi canta nell’ultimo atto della Tosca di
Puccini, prima della fucilazione. Ecco il testo dell’aria:
E
lucevan le stelle... e olezzava
la
terra... ~ stridea l'uscio
dell'orto...
~ e un passo sfiorava la rena...
entrava
ella, fragrante,
mi
cadea fra le braccia...
Oh!
dolci baci, o languide carezze,
mentr'io
fremente
le
belle forme disciogliea dai veli!
Svanì
per sempre il sogno mio d'amore...
l'ora
è fuggita...
e
muoio disperato!
E
non ho amato mai tanto la vita!…
La
poesia si attacca al verbo che evoca un ricordo: stridea. Stridea
l’uscio dell’orto. Suono che preludeva la gioia di un incontro
indimenticato, indimenticabile. Come
adesso il canto o lingua della poesia. Se felicità o se compianto.
Ciò che annunciava una felicità oggi ricorda un compianto. Il canto
come promessa – e ricordo – di gioia. L’ugola, la voce, non è
mai stanca di cantarlo. Ma nel momento in cui la gioia è cantata
vuole anche dire che se ne registra la scomparsa. Una cosa una
sola mi manca. Anche qui l’aria di Cavaradossi lo aveva suggerito:
svanì per sempre il sogno mio d’amore. C’è perfino un richiamo,
un’eco lessicale: l’ora, il tempo che è fuggito, che non c’è
più, che manca: nell’ora in cui la luce che dirada. La strada che
s’è fatta i zinco rievoca il sentiero, la rena sfiorata dal passo
di Tosca, Ma il ricordo del melodramma è solo uno degli echi che la
poesia fa risuonare. Come non rammemorare l’amato Catullo e il
passero di Lesbia? Un uccello, anche qui, un passero: qui nunc it per
iter tenebricosum.
Qualcuno,
anzi, l’ha rimproverata, anni fa, di essere troppo “professoressa”,
quasi che all’ars fosse preferibile il ciarpame degli ormai troppi
e sciatti pseudoversi che ci tocca leggere. Il petrarchismo, certo,
può generare sazietà e disamore, per i troppi non poeti che
diluviano versi solo perché sanno contare gli accenti e combinare le
rime. Senza Petrarca, tuttavia, non avremmo nemmeno Shakespeare e
Baudelaire. Ma i tanti che oggi vomitano i propri irrefrenabili
impulsi, o confessano le proprie banali minuzie quotidiane oppure si
abbandonano a insensati automatisimi linguistici, senza un controllo,
senza una regola, scarabocchiando parole inerti che vanno a capo
perché in poesia si va a capo non perché lo richieda il ritmo,
ebbene, allora costoro si rileggano la “professoressa”, non per
imitarla, sarebbe la prima inorridirne, bensì per trarne la lezione
di una severa, costante, faticosa ma indispensabile disciplina di
scrittura. E nella poesia la scrittura è tutto. Se hai qualcosa da
dire. Se invece non ha niente da dire, non scrivere, taci. Arriveremo
a distinguere, comunque, anche oggi, i poeti, che ci sono, e qualcuno
davvero entusiasmante, dai tanti che scimmiottano la poesia solo per
voglia di apparire poeti.
En
passant: il titolo, Aria alle stanze. Aria è l’aria in cui cantano
gli uccelli, che respiariamo uomini e uccelli, ma anche l’aria di
un melodramma, di un concerto, di una sonata, le variazioni su ...
Quanto alle stanze, sono le nostra stanze private, le stanze di un
ufficio, ma anche le stanze di una canzone, di una poesia. Quai al
poeta che pensi che ogni parola abbia uno e un solo significato.