domenica 24 novembre 2019

Un romano a Marte

 


TEATRO DELL’OPERA DI ROMA. Teatro Nazionale
Un romano a Marte
Opera per attore, voce recitante, tre cantanti, orchestra ed elettronica
Libretto du Giuliano Compagno
Musica di Vittorio Montalti

Opera vincitrice del premio di composizione del Teatro dell’Opera di Roma

Direttore John Axelrod
Regia Fabio Cherstich

Scene, costumi e video Gianluigi Toccafondo
Luci Camilla Piccioni

Orchestra del Teatro dell’Opera di Roma

Ilaria Occhini Rafaela Albuquerque*
Ennio Flaiano Domingo Pellicola*
Kunt il Marziano Timofei Baranov*
Un Critico Gabriele Portoghese
Caterina Martinelli Valeria Almerighi

Mimi attori Martha Festa
Jacopo Spampanato
Prima rappresentazione: 22 novembre 2019
Repliche: 23. 24 novembre 2019

*dal progetto “Fabrica” Young Artist Program del Teatro dell’Opera

A quel che sembra, lo spettacolo nasce dalla collaborazione di tutti coloro che l’hanno portato sulla scena: chi ha scritto il testo, chi ha composto la musica, chi tiene insieme le fila della partitura per l’esecuzione, chi ha immaginato la drammaturgia con cui rendere visibile a tutti l’idea del lavoro. In altre parole: il librettista, Giuliano Compagno; il compositore, Vittorio Montalti; il direttore e concertatore, John Axelrod; il regista, Fabio Cherstich. Fantasiosi, indispensabili, le scene, i costumi e soprattutto i vertiginosi video di Gianluigi Toccafondo. Si vede, eccome se si vede, l’accordo. Non so in realtà, a dire il vero, con quanto accordo, con quanta discussione si sia arrivati al risultato finale, ma l’effetto sullo spettatore è di una straordinaria omogeneità, di una lodevole coerenza, visiva e teatrale. Tutto sembra stare dove e come deve stare.

Un marziano a Roma fu un’idea teatrale di Ennio Flaiano, messa in scena nel 1960 al Lirico di Milano da Vittorio Gassman e Ilaria Occhini. E fu un insuccesso clamoroso. Ma la commedia a sua volta nasceva da un racconto del 1954, poi raccolto, insieme ad altri scritti, nel volume Diario Notturno. Non sarà mai possibile sopravvalutare l’importanza di Flaiano nella cultura italiana dell’epoca del cosiddetto boom. Si pensi solo che le sceneggiature di film come La dolce Vita, 8 e1/2, La Notte, portano la sua firma. Dalla sera di quella prima, che fu appunto un fiasco, partono Giuliano Compagno, scrittore del libretto, e Vittorio Montalti, compositore della musica, per questo Un romano a Marte. Ma sarebbe riduttivo immaginare che l’opera (in tutti i sensi, melodramma, opera buffa, commedia per musica) sia speculare al racconto e alla commedia di Flaiano. Lo è solo nel titolo. Che, preso così alla lettera, sarebbe pure sbagliato, perché Marte non è una città ma un pianeta, e dunque sarebbe stato più corretto Un romano su Marte, ma si sarebbe perso il senso speculare con il racconto e la commedia, e inoltre il Marte del titolo non è il pianeta ma un luogo immaginario. Non è il solo “non-sense” del testo. I giochi linguistici, la segmentazione delle parole, anzi, si sprecano, e sono i benvenuti, perché poi ad essi corrisponde una speculare, questa sì, frammentazione del tessuto musicale. E lo stesso impianto drammaturgico non è costruito su una successione ordinata di eventi, ma per accostamento di scene, che si succedono per analogia o per contrasto.



L’effetto è quello di un collage di cui s’intravede la logica, senza riuscire tuttavia a individuarla. I personaggi tranne il marziano – e a suo modo nemmeno quello, perché anche lui già personaggio della commedia di Flaiano – sono persone storiche: Flaiano stesso, Ilaria Occhini, la romana Caterina Martinelli, ammazzata nel 1944 dai nazisti, e alla fine compare, sia pure solo come voce, Tonino Guerra. Il titolo poi ha un sottotitolo tra parentesi: (Ennio e gli altri). Compare, all’inizio, una scena di teatro, un’inserviente che spazza (Caterina Martinelli, interpretata da Valeria Almerighi, presente sulla scena per tutto lo spettacolo, e l’avevamo già vista sbirciare il pubblico ficcando la testa nella fessura del sipario), in mezzo alla scena una sorta di barella con un corpo coperto da un lenzuolo, un morto? Dall’alto, tutto vestito di rosso, vistosamente albino, come lo era Gassmann a Milano, cala Kunt, il marziano. Solleva il lenzuolo, e si alza Ennio Flaiano. Sulla scena circola un esagitato critico (Franco Cordelli?) che non canta, ma parla, parla, spiega l’azione, i fatti, i personaggi, inarrestabile. Elegantissima, tra Elisabeth Taylor e Alida Valli, ma soprattutto sé stessa, nipote di Papini, viso abbagliante di 8 e ½, Ilaria Occhini.

Eh sì, sono quelli gli anni. Si girava Cleopatra, Liz Taylor, e si spettegolava del suo flirt, che flirt non era, con Richard Burton. E Roma, che allora credevamo provinciale, non lo era affatto. Lo è oggi, che si crede moderna, ma è litigata da mafiette, anche politiche, di seconda e terza categoria. Vuoi mettere un Andreotti, un Piccioni, un Fanfani, un Rumor, la banda della Magliana? Il caos allora era caos. Oggi è un perfino non troppo aggrovigliato pasticcio. Questo caos noi vediamo affaticarsi e poi capitolare sulla scena. Era comunque la Roma di Moravia e di Pasolini. Ma anche di Fellini e di Antonioni (L’Eclisse). Ma anche di Fantasmi a Roma, di Pietrangeli e dei Soliti ignoti, di Monicelli.



La musica di Montalti asseconda il collage accostando varie tipologie di teatro musicale, in cui include anche il teatro parlato (il critico, che parla, non canta). Afferma di avere giocato con la parola “opera”, considerandola non il singolare femminile di opera/operae, ma il plurale neutro di opus/operis. E ci sta. Afferma che l’idea gli fu suggerita da Berio. Ma è un’idea che funziona. L’opera, il melodramma, è sempre stato un genere composito, renitente a tutti i tentativi di riforma omologante in un genere compatto e uniforme. Già il fatto che la parola si canti invece di essere detta, la rende bifronte. Poi, agli strumenti si aggiunge anche l’elaborazione elettronica. E perché no? Fin dalle sue origini il melodramma ha assorbito tutti i generi di musica.

Da questo complesso, ma intrigante, coacervo di forme, di sollecitazioni insieme verbali e musicali, nasce uno spettacolo di straordinaria continuità e coerenza. Ma si badi: continuità di senso, non di azione. E gli interpreti ce la mettono tutta a renderlo vivace, attraente. I tre cantanti, Rafaela Albuquerque, Domingo Pellicola e Timofei Baranov, rispettivamente nelle parti di Ilaria Occhini, Ennio Flaiano e Kunt, il marziano, provengono tutti e tre dal progetto “Fabrica”, una scuola di formazione di cantanti attori promossa dal teatro dell’Opera di Roma, che ha per sigla Young Artist Program. Il pubblico, foltissimo, della prima decreta per tutti un caloroso successo.

Ma a questo punto sorge spontanea una domanda: uno spettacolo così nuovo e così stimolante, perché proporlo solo per tre sere? E perché non portarlo in giro anche in altri teatri? Un tempo i teatri producevano solo opere contemporanee. Se proprio non si vuole tornare a quel felice periodo perché però mortificare le nuove opere con una così scarsa presenza nel teatro di produzione e nessuna diffusione in altri teatri?

Teatro Potlach: Immigrant Song (2.0)


Teatro Potlach di Fara in Sabina
Autunno a Teatro
Festival 2019
Immigrant song (2.0) Compagnia Hellequin (L’Arlecchino errante)
23 novembre 2019

La pioggia battente ha scoraggiato gli appassionati di teatro che frequentano il Teatro Potlach di Fara in Sabina ad affrontare la strada che dai borghi vicini conduce al bel borgo sabino arroccato su una collina, e al teatro proiettato sulla sommità della stessa, dentro le corti di un antico palazzo. Peccato. Hanno perso l’occasione di confrontarsi con una sorta di saggio sul senso del teatro oggi. E non spaventi il termine “saggio”, niente di didattico o di noiosamente accademico, ma un esempio di come uno spettacolo possa raccogliere in sé lo studio di una lunga, lunghissima tradizione (quella della commedia dell’arte) e insieme proiettarsi sulle angosce dell’oggi. Si tratta di Immigrant song (2.0) messo in scena dalla Compagnia Hellequin, di Pordenone, regia di Ferruccio Merisi, attrice Lucia Zaghet. Il filo rosso dello spettacolo è una fiaba di Saramago sulla fine del mondo (dell’Occidente).

Il titolo rimanda a una famosa canzone dei Led Zeppelin. Nella quale invero si parla dei vichinghi, non dei migranti africani. Ma tant’è. Il succo è lo stesso. Intorno alla fiaba, però, Merisi e Zaghet costruistono una complessa rete di racconti, simboli, gesti teatrali, rappresentazioni della memoria come manifesto dell’oggi. E Lucia Zaghet è magnifica nel prestare il proprio corpo, la propria voce, alla costruzione di questi simboli. Appare, all’inizio, come un Pulcinella ripiegato su sé stesso. Che ogni tanto fa smorfie di dolore che si convertono in una risata liberatoria di gioia quando da sotto il suo mantello bianco spunta, come in un parto – e il genere della maschera è abolito! -, un mandolino.

Lucia Zaghet ricostruisce la recitazione stilizzata, tutta mosse, e gesti, della commedia dell’arte. Anche la voce ha gesti. La risatina è quella tradizionale di Pulcinella. L’ascoltavo bambino al Pincio, dai burattini che lì vi si esibivano ogni domenica. Ma la mimica stilizzata, invece di attenuare, inacerbisce il senso della rappresentazione, perché ne fa non un caso singolo, realistico, di questo e di quell’individuo, di questo o di quell’evento, ma una storia universale, proprio nel senso in cui dice Aristotele che la tragedia (leggi: il teatro) è più universale della storia. Piano piano la favola del re che vuole il deserto intorno a sé e la storia del migrante che muore dentro un TIR si mescolano, si confondono. L’età mitica e l’oggi ci assalgono, ci violentano, con u racconto che non è più qualcosa di lontano da noi, ma qualcosa che ci riguarda, e molto da vicino. Il sasso che si sporca di sangue per il povero ammazzato e il sangue che diventa mare, sono uno specchio tutt’altro che assolutorio dell’oggi.

Pochi oggetti occupano la scena: un carrello della spesa, come se ne vedono nei supermercati (e diventa la pancia del TIR dentro cui muore il migrante, allusione forse al paradiso perduto del consumismo occidentale, irraggiungibile dagli esternamente esclusi), casette di presepe, pupazzi, e altri oggetti, che alla fine Pulcinella rimette alla rinfusa nel carrello, e se ne va via di scena, togliendosi e togliendoli alla vista dello spettatore – occidentale. Ma Pulcinella, levandosi la maschera aveva prima fatto intravedere una seconda maschera, non nera, bensì marrone, ch’è la maschera del migrante. E così le due maschere, quella dell’escluso, dell’emarginato Pulcinella, e quella del migrante - un Brighella, un Truffaldino? - finiscono con il sovrapporsi, con l’immedesimarsi. La trasformazione di Pulcinella in Migrante è furibonda, una danza scatenata, come s’immaginano le danze degli africani, il danzante sempre di spalle.

Ma l’operazione più interessante è quella di avere separato l’attore dalla figura che l’attore rappresenta. La maschera dell’arte diventa così un segno, un simbolo visivo del teatro stesso, in cui la verità della rappresentazione sta nell’altro che l’attore rappresenta. Diderot scrive, in una bella pagina sul senso della musica, che il canto gli pare sempre una stilizzazione del grido. Ecco: Diderot coglie l’essenza di qualsiasi arte, anche di quella che apparentemente si avvicina di più alla vita, che sembra imitarla più da vicino: il teatro. Perché la verità della rappresentazione non sta nella realtà alla quale la rappresentazione allude, bensì nella rappresentazione stessa, cioè nella stilizzazione del reale. Il canto non è il grido, ma la sua stilizzazione. La vicenda del migrante, o la fiaba del re che vuole desertificare il mondo (da Saramago), non sono l’oggetto della rappresentazione. L’oggetto della rappresentazione è Pucinella che, sulla scena, rappresenta la fiaba e la storia del migrante.

Bravissimi Ferruccio Merisi, il regista, e Lucia Zaghet, l’attrice, a farcelo capire. Il pubblico si lascia conquistare fin dall’inizio e alla fine esplode in entusiastiche ovazioni, prima di tutto alla bravissima Zaghet, ma anche a tutto l’emozionante e coinvolgente spettacolo. Quando si esce, commossi, e pensosi, la pioggia cade ancora, e battente, furibonda più di prima.

domenica 10 novembre 2019

Roma, Teatro dell'Opera: Idomeneo







ROMA. TEATRO DELL’OPERA. WOLFGANG AMADEUS MOZART, IDOMENEO, RE DI CRETA. Libretto di Giambattista Varesco dalla tragédie lyrique di Antoine Danchet per André Campra.

Idomeneo, Charles Workman
Idamante, Joel Prieto
Ilia, Rosa Feola
Elettra, Miah Persson
Arbace, Alessandro Luciano
Gran Sacerdote, Oliver Johnston
Una voce (Nettuno), Andril Granchuck1

Direttore, Michele Mariotti
Regia, Robert Carsen

Maetsro del Coro, Roberto Gabbianui
Scene, Robert Carsen e Luis F, Carvalho
Costumi, Luis F. Carvalho
Luci, Robert Carsen e Peter Van Praet
Movimenti coreografici, Marco Berriel
Video, Will Duke

Orchestra e Coro del Tatro dell’Opera di Roma

Nuovo allestimento del Teatro dell’Opera di Roma, in coproduzione con il Teatro Real di Madrid, Der Kongelige Opera di Copenhagen, e Canadian Opera Company di Toronto

La rappresentazione teatrale di un mito o di una storia che si richiami ai racconti mitici della classicità grecoromana, spesso nasconde il nucleo violento, problematico, inquietante del mito e della storia. La bellezza delle scene, la grazie dei costumi, coprono con una patina educata, accattivante, quanto invece c’è di selvaggio, di feroce, nel racconto dei miti classici o anche nella storia della Grecia e di Roma. Roland Barthes osserva che i personaggi di Racine, anche quando indossano vesti classiche, hanno sempre qualcosa di ferino, che il linguaggio educato, quello della corte di Versailles adottato da Racine, non riesce a celare. Lo sapeva molto bene il pubblico antico, che il mito è terribile, e che rappresentarlo poteva ferire le coscienze. Aristotele lo teorizza addirittura. Gli ateniesi si sentirono insultati dalle Troiane di Euripide. L’accusa che, alla fine della tragedia, Ecuba lancia ai conquistatori greci della frigia Troia di essere loro i veri barbari, suscitò accese polemiche e costrinse Euripide, per prudenza, a lasciare per qualche tempo la città. Segno che la rappresentazione aveva toccato un nervo scoperto. La recente strage che gli ateniesi avevano, infatti, perpetrato di tutti i maschi dell’isola di Melo (che oggi si pronuncia Milo) e la conseguente deportazione delle donne, tutte ridotte in schiavitù, era troppo evidentemente allusa dalla stupenda e amarissima tragedia: il drammaturgo che aveva osato offenderli andava punito. Ulisse che chiede l’uccisione del bambino Astianatte, colpevole di essere il figlio di Ettore, assomigliava troppo ai tanti ateniesi che avevano ammazzato i bambini di Melo. 




Robert Carsen, per la messa in scena al Teatro dell’Opera di Roma (ma anche a Madrid, a Copenhagen e Toronto) dell’Idomeneo, re di Creta di Mozart deve essere partito da riflessioni simili. E i prigionieri troiani sono diventati prigionieri, migranti mediorientali. Migranti veri, che rappresentano sé stessi sulla scena. In fondo il mare. Da cui sono arrivati. In cui annegano. I video fanno vedere, a un certo punto, Aleppo distrutta. Il mostro scatenato da Nettuno perché non potrebbe essere un aereo che lancia bombe, un carrarmato che spara sulle case e sulla gente? La guerra di ieri, di secoli fa, non è diversa dalla guerra di oggi. E le guerre, come scrive Tolstoj, non sono esibizione di armi e di glorie militari, ma di carne macellata e di sangue. La vicenda è raccontata dal grammatico tardoantico Servio, nel suo commento all’Eneide di Virgilio, e ripresa nel XVII secolo da Fénélon nel suo romanzo Télémaque. Da qui Crébillon, nel 1705, trae l’argomento della sua terribile tragedia, e da Crébillon Antoine Danchet, nel 1712, trae spunto per la tragédie lyrique a cui mise mano André Campra. Dall’opera di Campra, il mediocre poeta Giambattista Varesco, attivo alla corte salisburghese del vescovo Colloredo, e dunque in qualche modo “collega” di Mozart, elaborò il libretto per l’opera che Mozart mise in scena a Monaco nel 1781. 

 

E’ un capolavoro complesso che da una parte guarda alla tradizione italiana dell’opera seria, ma dall’altra, pur prendendo nota della “riforma” di Gluck, in realtà avvia una vera e propria rivoluzione teatrale. Mozart non ama i programmi ideologici, le dissertazioni estetiche sulla verità dell’opera seria o della tragédie lyrique: vuole fare teatro, e come lo sa fare lui: adoperando tutte le forme musicali che la tradizione melodrammatica gli offre. La musica si appropria così dell’azione. Non si limita a seguire gli affetti dei personaggi, non li blocca in un’aria, come fa l’opera seria italiana, o a rappresentare i loro contrasti, in grandi scene corali, come fa Gluck. Mescola tutto, arie, e contrasti, scene corali, e azione condotta da un tipo di recitativo che rimarrà più o meno lo stesso ancora per almeno mezzo secolo, Rossini compreso. Il dramma diventa così materia incandescente di passioni in contrasto. E queste passioni asseconda Carsen momento per momento, in una rappresentazione che ci aggredisce con un crescendo mozzafiato di violenza. Idomeneo fa voto a Nettuno, durante una tempesta sul mare, di sacrificare il primo essere umano che incontrerà sulla terra, se si salva. La storia è come quella biblica di Jefte. L’essere che incontra è suo figlio. Servio ci dice che Idomeneo sacrificò suo figlio e che per questo crimine il popolo cretese lo cacciò via in esilio. Il crimine, per i cretesi e per Servio, ma poi anche per Crébillon e per Danchet e Campra, non è tanto il fatto di avere sacrificato il figlio, ma il fatto di avere concepito un voto che prevede il sacrificio di un essere umano. 

 

Varesco conclude la vicenda con un intervento di Nettuno che scioglie Idomeneo dal voto, ma lo condanna all’esilio. La scena del dio che interviene sembra presa dall’Alceste di Gluck. Mozart, però, è drammaturgo più vario e complesso di Gluck, la scena dell’apparizione del mostro – che ricorda insieme sia l’Ippolito di Euripide che la Fedra di Racine - è una pagina d’intensità drammatica estrema, Beethoven vi attinge a piene mani. Ma tutta l’opera è una prefigurazione del teatro che verrà. A cominciare dal teatro dello stesso Mozart, al quale restano solo dieci anni di vita. Ci sono già individuazioni musicali e drammaturgiche che fanno pensare sia a Così fan tutte sia al Flauto magico. E poi c’è l’orchestra. Mozart non scriverà mai più, per il teatro, prevedendo un’orchestra così ricca di colori e così prepotentemente presente per tutta l’azione. Con un uso contrappuntistico dei timbri strumentali destinato a sviluppi imprevedibili, e sul quale devono avere meditato a lungo Beethoven, Weber, Schubert, Mendelssohn e perfino Wagner (si dimentica troppo spesso che, per sua stessa confessione, Mozart fu per Wagner un modello di musica teatrale). 

 

E qui sta uno degli aspetti più accattivanti di questa produzione romana. Michele Mariotti ha colto perfettamente la funzione drammaturgica di questo contrappunto dei timbri strumentali, l’inserirsi degli strumenti nelle intelaiature delle voci sulla scena. Ma ha anche compreso come la concezione musicale mozartiana non sia quella di un susseguirsi di episodi musicali ciascuno in sé conchiuso, ma al contrario in una successione coerente di forme musicali tra loro intimamente legate, sia per elaborazione tematica, sia, e soprattutto, per organicità armonica. Senza afferrare la concezione che fissa l’organicità dell’opera nella sua strutturazione insieme tematica e armonica, oltre che ritmica, di quasi matematica coerenza, non si entra nel teatro di Mozart, non si entra, anzi, nella concezione insieme musicale e drammaturgica di Mozart. Tutto è forma sonata, anche l’aria col da capo. E tutto è concepito come un grande affresco sinfonico, l’intero atto, un movimento, e tutta l’opera come una sinfonia. Ma non per privilegiare la musica sul teatro. Bensì, al contrario, per fare teatro con la musica. Era tanto, che non ascoltavo un direttore penetrare così lucidamente la drammaturgia musicale di Mozart. 

 

Sulla scena gli interpreti si ammirano per la totale omogeneità dell’interpretazione. Qualcuno più sicuro qualcuno meno o dai mezzi vocali non proprio adeguati. Ma conta poco. Perché conta l’insieme. Tuttavia non si può non restare conquistati dall’intensità e dalla giustezza del canto e della recitazione di Rosa Feola nella parte di Ilia. L’Idamante di Joel Prieto appare meno sicuro, ma di uguale intensità. E di ammirevole corrispondenza tra canto e scena, è la vittima predisposta, su di lui si giocano i destini degli altri. E sembra comprenderlo. Il sublime quartetto “Andrò ramingo e solo” esce fuori così come una naturale conseguenza dell’azione e delle passioni dei personaggi, ma soprattutto come una scelta tragica di rinuncia dell’eroe di quel momento, Idamante. Nobile l’Idomeneo di Charles Workman, che appare fin dall’inizio piegato dalla consapevolezza di un crimine, di una sventura. Molto brava Miah Persson nella parte di Elettra. Ma la voce non l’aiuta con la necessaria consistenza e soprattutto con il necessario volume a rappresentare il furore, la rabbia, la disperazione. Perfettamente adeguati ai ruoli gli altri interpreti. Successo quasi trionfale, com’era giusto, per tutti, con ripetute chiamate al proscenio, alla fine dello spettacolo. Splendida la partecipazione del coro. E ammirevole l’adesione dell’orchestra alle intenzioni del direttore. 



 

Nella memoria, uscendo dal teatro, resta impressa la scena dei prigionieri troiani, vinti esuli o migranti di oggi, addossati alla rete che li divide dai vincitori. Il mare, in fondo, che si muove appena, come la lapide di una tomba, che si alzi un poco solo per ingoiare le successive salme. Il naufragio di Idomeneo e quello dei prigionieri accomuna vincitore e vinti nella stessa sconfitta davanti alle forze oscure del destino, il mostro inviato da Nettuno, la guerra perduta. Per tutti in realtà la rabbia che non si è saputa seppellire nel cuore: eccoli adesso là tutti a piangere invano l’irreparabile. Il lieto fine è possibile solo in teatro. Ma anche in teatro, Omero, Euripide, Crébillon, non l’avevano previsto. E forse questo ci vuole suggerire Carsen: che il lieto fine o è una finzione, o è una speranza. E tutti i personaggi smettono gli abiti militari per presentarsi con gli abiti di tutti i giorni, come in tempo di pace. Quella pace che per tre atti (che diventano due tempi, oggi in teatro) nessuno avrebbe potuto prevedere. La speranza come utopia? La pace come sogno? Mozart – e Carsen – sembra dirci che così stanno le cose. E si pensa, allora, al finale del Fidelio di Beethoven, la cui scrittura ricorda in più punti Mozart, e in particolare questo Idomeneo (la scena del mostro): anche nel Fidelio la liberazione dal carcere di Florestano è un finale teatrale. E’ un’utopia, un sogno. Ma davanti alle reti, ai muri che dividono chi perde da chi vince, come rifiutarsi all’utopia, al sogno? 



 
1Dal progetto “Fabbrica” Young Artist Program del Teatro dell’Opera di Roma