TEATRO DELL’OPERA DI ROMA.
Teatro Nazionale
Un
romano a Marte
Opera
per attore, voce recitante, tre cantanti, orchestra ed elettronica
Libretto
du Giuliano Compagno
Musica
di Vittorio Montalti
Opera
vincitrice del premio di composizione del Teatro dell’Opera di Roma
Direttore John
Axelrod
Regia Fabio
Cherstich
Scene,
costumi e video Gianluigi Toccafondo
Luci Camilla
Piccioni
Orchestra
del Teatro dell’Opera di Roma
Ilaria
Occhini Rafaela Albuquerque*
Ennio
Flaiano Domingo Pellicola*
Kunt
il Marziano Timofei Baranov*
Un
Critico Gabriele Portoghese
Caterina
Martinelli Valeria Almerighi
Mimi
attori Martha Festa
Jacopo
Spampanato
Prima
rappresentazione: 22 novembre 2019
Repliche:
23. 24 novembre 2019
*dal
progetto “Fabrica” Young Artist Program del Teatro dell’Opera
A
quel che sembra, lo spettacolo nasce dalla collaborazione di tutti
coloro che l’hanno portato sulla scena: chi ha scritto il testo,
chi ha composto la musica, chi tiene insieme le fila della partitura
per l’esecuzione, chi ha immaginato la drammaturgia con cui rendere
visibile a tutti l’idea del lavoro. In altre parole: il
librettista, Giuliano Compagno; il compositore, Vittorio Montalti; il
direttore e concertatore, John Axelrod; il regista, Fabio Cherstich.
Fantasiosi, indispensabili, le scene, i costumi e soprattutto i
vertiginosi video di Gianluigi Toccafondo. Si vede, eccome se si
vede, l’accordo. Non so in realtà, a dire il vero, con quanto
accordo, con quanta discussione si sia arrivati al risultato finale,
ma l’effetto sullo spettatore è di una straordinaria omogeneità,
di una lodevole coerenza, visiva e teatrale. Tutto sembra stare dove
e come deve stare.
Un
marziano a Roma fu un’idea teatrale di Ennio Flaiano, messa in
scena nel 1960 al Lirico di Milano da Vittorio Gassman e Ilaria
Occhini. E fu un insuccesso clamoroso. Ma la commedia a sua volta
nasceva da un racconto del 1954, poi raccolto, insieme ad altri
scritti, nel volume Diario Notturno. Non sarà mai possibile
sopravvalutare l’importanza di Flaiano nella cultura italiana
dell’epoca del cosiddetto boom. Si pensi solo che le sceneggiature
di film come La dolce Vita, 8 e1/2, La Notte, portano la sua firma.
Dalla sera di quella prima, che fu appunto un fiasco, partono
Giuliano Compagno, scrittore del libretto, e Vittorio Montalti,
compositore della musica, per questo Un romano a Marte. Ma sarebbe
riduttivo immaginare che l’opera (in tutti i sensi, melodramma,
opera buffa, commedia per musica) sia speculare al racconto e alla
commedia di Flaiano. Lo è solo nel titolo. Che, preso così alla
lettera, sarebbe pure sbagliato, perché Marte non è una città ma
un pianeta, e dunque sarebbe stato più corretto Un romano su Marte,
ma si sarebbe perso il senso speculare con il racconto e la commedia,
e inoltre il Marte del titolo non è il pianeta ma un luogo
immaginario. Non è il solo “non-sense” del testo. I giochi
linguistici, la segmentazione delle parole, anzi, si sprecano, e sono
i benvenuti, perché poi ad essi corrisponde una speculare, questa
sì, frammentazione del tessuto musicale. E lo stesso impianto
drammaturgico non è costruito su una successione ordinata di eventi,
ma per accostamento di scene, che si succedono per analogia o per
contrasto.
L’effetto
è quello di un collage di cui s’intravede la logica, senza
riuscire tuttavia a individuarla. I personaggi tranne il marziano –
e a suo modo nemmeno quello, perché anche lui già personaggio della
commedia di Flaiano – sono persone storiche: Flaiano stesso, Ilaria
Occhini, la romana Caterina Martinelli, ammazzata nel 1944 dai
nazisti, e alla fine compare, sia pure solo come voce, Tonino Guerra.
Il titolo poi ha un sottotitolo tra parentesi: (Ennio e gli altri).
Compare, all’inizio, una scena di teatro, un’inserviente che
spazza (Caterina Martinelli, interpretata da Valeria Almerighi,
presente sulla scena per tutto lo spettacolo, e l’avevamo già
vista sbirciare il pubblico ficcando la testa nella fessura del
sipario), in mezzo alla scena una sorta di barella con un corpo
coperto da un lenzuolo, un morto? Dall’alto, tutto vestito di
rosso, vistosamente albino, come lo era Gassmann a Milano, cala Kunt,
il marziano. Solleva il lenzuolo, e si alza Ennio Flaiano. Sulla
scena circola un esagitato critico (Franco Cordelli?) che non canta,
ma parla, parla, spiega l’azione, i fatti, i personaggi,
inarrestabile. Elegantissima, tra Elisabeth Taylor e Alida Valli, ma
soprattutto sé stessa, nipote di Papini, viso abbagliante di 8 e ½,
Ilaria Occhini.
Eh
sì, sono quelli gli anni. Si girava Cleopatra, Liz Taylor, e si
spettegolava del suo flirt, che flirt non era, con Richard Burton. E
Roma, che allora credevamo provinciale, non lo era affatto. Lo è
oggi, che si crede moderna, ma è litigata da mafiette, anche
politiche, di seconda e terza categoria. Vuoi mettere un Andreotti,
un Piccioni, un Fanfani, un Rumor, la banda della Magliana? Il caos
allora era caos. Oggi è un perfino non troppo aggrovigliato
pasticcio. Questo caos noi vediamo affaticarsi e poi capitolare sulla
scena. Era comunque la Roma di Moravia e di Pasolini. Ma anche di
Fellini e di Antonioni (L’Eclisse). Ma anche di Fantasmi a Roma, di
Pietrangeli e dei Soliti ignoti, di Monicelli.
La
musica di Montalti asseconda il collage accostando varie tipologie di
teatro musicale, in cui include anche il teatro parlato (il critico,
che parla, non canta). Afferma di avere giocato con la parola
“opera”, considerandola non il singolare femminile di
opera/operae, ma il plurale neutro di opus/operis. E ci sta. Afferma
che l’idea gli fu suggerita da Berio. Ma è un’idea che funziona.
L’opera, il melodramma, è sempre stato un genere composito,
renitente a tutti i tentativi di riforma omologante in un genere
compatto e uniforme. Già il fatto che la parola si canti invece di
essere detta, la rende bifronte. Poi, agli strumenti si aggiunge
anche l’elaborazione elettronica. E perché no? Fin dalle sue
origini il melodramma ha assorbito tutti i generi di musica.
Da
questo complesso, ma intrigante, coacervo di forme, di sollecitazioni
insieme verbali e musicali, nasce uno spettacolo di straordinaria
continuità e coerenza. Ma si badi: continuità di senso, non di
azione. E gli interpreti ce la mettono tutta a renderlo vivace,
attraente. I tre cantanti, Rafaela Albuquerque, Domingo Pellicola e
Timofei Baranov, rispettivamente nelle parti di Ilaria Occhini, Ennio
Flaiano e Kunt, il marziano, provengono tutti e tre dal progetto
“Fabrica”, una scuola di formazione di cantanti attori promossa
dal teatro dell’Opera di Roma, che ha per sigla Young Artist
Program. Il pubblico, foltissimo, della prima decreta per tutti un
caloroso successo.
Ma
a questo punto sorge spontanea una domanda: uno spettacolo così
nuovo e così stimolante, perché proporlo solo per tre sere? E
perché non portarlo in giro anche in altri teatri? Un tempo i teatri
producevano solo opere contemporanee. Se proprio non si vuole tornare
a quel felice periodo perché però mortificare le nuove opere con
una così scarsa presenza nel teatro di produzione e nessuna
diffusione in altri teatri?