ROMA. TEATRO DELL’OPERA.
WOLFGANG AMADEUS MOZART, IDOMENEO, RE DI CRETA. Libretto di
Giambattista Varesco dalla tragédie lyrique di Antoine Danchet per
André Campra.
Idomeneo,
Charles Workman
Idamante,
Joel Prieto
Ilia,
Rosa Feola
Elettra,
Miah Persson
Arbace,
Alessandro Luciano
Gran
Sacerdote, Oliver Johnston
Una
voce (Nettuno), Andril Granchuck1
Direttore,
Michele Mariotti
Regia,
Robert Carsen
Maetsro
del Coro, Roberto Gabbianui
Scene,
Robert Carsen e Luis F, Carvalho
Costumi,
Luis F. Carvalho
Luci,
Robert Carsen e Peter Van Praet
Movimenti
coreografici, Marco Berriel
Video,
Will Duke
Orchestra
e Coro del Tatro dell’Opera di Roma
Nuovo
allestimento del Teatro dell’Opera di Roma, in coproduzione con il
Teatro Real di Madrid, Der Kongelige Opera di Copenhagen, e Canadian
Opera Company di Toronto
La
rappresentazione teatrale di un mito o di una storia che si richiami
ai racconti mitici della classicità grecoromana, spesso nasconde il
nucleo violento, problematico, inquietante del mito e della storia.
La bellezza delle scene, la grazie dei costumi, coprono con una
patina educata, accattivante, quanto invece c’è di selvaggio, di
feroce, nel racconto dei
miti classici
o anche nella storia della Grecia e di Roma. Roland Barthes osserva
che i personaggi di Racine, anche quando indossano vesti classiche,
hanno sempre qualcosa di ferino, che il linguaggio educato, quello
della corte di Versailles adottato
da Racine, non riesce a
celare. Lo sapeva molto bene il pubblico antico, che
il mito è terribile, e che rappresentarlo poteva ferire le
coscienze. Aristotele
lo teorizza addirittura.
Gli ateniesi si sentirono insultati dalle Troiane di Euripide.
L’accusa che, alla fine della tragedia, Ecuba lancia ai
conquistatori greci della frigia Troia di essere loro i veri barbari,
suscitò accese polemiche e costrinse Euripide, per prudenza, a
lasciare per qualche tempo la città. Segno che la rappresentazione
aveva toccato un nervo scoperto. La recente strage che gli ateniesi
avevano, infatti,
perpetrato di tutti i maschi dell’isola di Melo (che oggi si
pronuncia Milo) e la conseguente
deportazione delle donne, tutte
ridotte in schiavitù,
era troppo evidentemente allusa dalla stupenda e
amarissima tragedia: il
drammaturgo che aveva osato offenderli andava punito. Ulisse che
chiede l’uccisione del bambino Astianatte, colpevole di essere il
figlio di Ettore, assomigliava troppo ai tanti ateniesi che avevano
ammazzato i bambini di Melo.
Robert
Carsen, per la messa in scena al Teatro dell’Opera di Roma (ma
anche a Madrid, a Copenhagen e Toronto) dell’Idomeneo, re di Creta
di Mozart deve essere partito da riflessioni simili. E i prigionieri
troiani sono diventati prigionieri,
migranti mediorientali.
Migranti veri, che
rappresentano sé stessi sulla scena. In fondo il mare. Da cui sono
arrivati. In cui annegano. I
video fanno vedere, a
un certo punto, Aleppo
distrutta. Il mostro scatenato da Nettuno perché non potrebbe essere
un aereo che lancia bombe, un carrarmato che spara sulle case e sulla
gente? La guerra di ieri, di secoli fa, non è diversa dalla guerra
di oggi. E le guerre, come scrive Tolstoj, non sono esibizione di
armi e di glorie militari, ma di carne macellata e di sangue. La
vicenda è raccontata dal grammatico tardoantico
Servio, nel suo commento all’Eneide di Virgilio, e ripresa nel XVII
secolo da Fénélon nel suo romanzo Télémaque. Da qui Crébillon,
nel 1705, trae l’argomento della sua terribile tragedia, e da
Crébillon Antoine Danchet, nel 1712, trae spunto per la tragédie
lyrique a cui mise mano André Campra. Dall’opera di Campra, il
mediocre poeta Giambattista Varesco, attivo alla corte salisburghese
del vescovo Colloredo, e dunque in qualche modo “collega” di
Mozart, elaborò il libretto per l’opera che Mozart mise in scena a
Monaco nel 1781.
E’
un capolavoro complesso che da una parte guarda alla tradizione
italiana dell’opera seria, ma dall’altra, pur prendendo nota
della “riforma” di Gluck, in realtà avvia una vera e propria
rivoluzione teatrale. Mozart non ama i programmi ideologici, le
dissertazioni
estetiche sulla verità dell’opera seria o della tragédie lyrique:
vuole fare teatro, e come lo sa fare lui: adoperando tutte le forme
musicali che la tradizione melodrammatica gli offre. La musica si
appropria così dell’azione. Non si limita a seguire gli affetti
dei personaggi, non li
blocca in un’aria,
come fa l’opera seria italiana, o a rappresentare i loro contrasti,
in grandi scene corali, come fa Gluck. Mescola tutto, arie, e
contrasti, scene corali, e azione condotta da un tipo di recitativo
che rimarrà più o meno lo stesso ancora per almeno mezzo secolo,
Rossini compreso. Il dramma diventa così materia incandescente di
passioni in contrasto. E queste passioni asseconda Carsen momento per
momento, in una rappresentazione che ci aggredisce con un crescendo mozzafiato di
violenza. Idomeneo fa voto a Nettuno, durante una tempesta sul mare,
di sacrificare il primo essere umano che incontrerà sulla terra, se
si salva. La storia è come quella biblica di Jefte. L’essere che
incontra è suo figlio. Servio ci dice che Idomeneo sacrificò suo
figlio e che per questo crimine il popolo cretese lo cacciò via in
esilio. Il crimine, per i cretesi e per Servio, ma poi anche per
Crébillon e per Danchet e Campra, non è tanto il fatto di avere
sacrificato il figlio, ma il fatto di avere concepito un voto che
prevede il sacrificio di un essere umano.
Varesco
conclude
la vicenda con un intervento di Nettuno che scioglie Idomeneo dal
voto, ma lo condanna all’esilio. La scena del dio che interviene
sembra presa dall’Alceste di Gluck. Mozart, però, è drammaturgo
più vario e complesso di Gluck, la scena dell’apparizione del
mostro – che ricorda insieme sia l’Ippolito di Euripide che la
Fedra di Racine - è una pagina d’intensità drammatica estrema,
Beethoven vi attinge a piene mani. Ma tutta l’opera è una
prefigurazione del teatro che verrà. A cominciare dal teatro dello
stesso Mozart, al quale restano solo dieci anni di vita. Ci sono già
individuazioni musicali e drammaturgiche che fanno pensare sia a Così
fan tutte sia al Flauto magico. E poi c’è l’orchestra. Mozart
non scriverà mai più, per il teatro, prevedendo un’orchestra così
ricca di colori e così prepotentemente presente per tutta l’azione.
Con un uso contrappuntistico dei timbri strumentali destinato a
sviluppi imprevedibili, e sul quale devono avere meditato a lungo
Beethoven, Weber, Schubert, Mendelssohn e perfino Wagner (si
dimentica troppo spesso che, per sua stessa confessione, Mozart fu
per Wagner un modello di musica teatrale).
E
qui sta uno degli aspetti più accattivanti di questa produzione
romana. Michele Mariotti ha colto perfettamente la funzione
drammaturgica di questo contrappunto dei timbri strumentali,
l’inserirsi degli strumenti nelle intelaiature delle voci sulla
scena. Ma ha anche compreso come la concezione musicale mozartiana
non sia quella di un susseguirsi di episodi musicali ciascuno in sé
conchiuso, ma al contrario in una successione coerente di forme
musicali tra loro intimamente legate, sia per elaborazione tematica,
sia, e soprattutto, per organicità armonica. Senza afferrare la
concezione che fissa l’organicità dell’opera nella sua
strutturazione insieme tematica e armonica, oltre che ritmica, di
quasi matematica coerenza, non si entra nel teatro di Mozart, non si
entra, anzi, nella concezione insieme musicale e drammaturgica di
Mozart. Tutto è forma sonata, anche l’aria col da capo. E tutto è
concepito come un grande affresco sinfonico, l’intero atto, un
movimento, e tutta l’opera come una sinfonia. Ma non per
privilegiare la musica sul teatro. Bensì, al contrario, per fare
teatro con la musica. Era tanto, che non ascoltavo un direttore
penetrare così lucidamente la drammaturgia musicale di Mozart.
Sulla
scena gli interpreti si ammirano per la totale omogeneità
dell’interpretazione. Qualcuno più sicuro qualcuno meno o dai
mezzi vocali non proprio adeguati. Ma conta poco. Perché conta
l’insieme. Tuttavia non si può non restare conquistati
dall’intensità e dalla giustezza del canto e della recitazione di
Rosa Feola nella parte di Ilia. L’Idamante di Joel Prieto appare
meno sicuro, ma di uguale intensità. E di ammirevole corrispondenza
tra canto e scena, è la vittima predisposta, su di lui si giocano i
destini degli altri. E sembra comprenderlo. Il sublime quartetto
“Andrò ramingo e solo” esce fuori così come una naturale
conseguenza dell’azione e delle passioni dei personaggi, ma
soprattutto come una scelta tragica di rinuncia dell’eroe di quel
momento, Idamante. Nobile l’Idomeneo di Charles Workman, che appare
fin dall’inizio piegato dalla consapevolezza di un crimine, di una
sventura. Molto brava Miah Persson nella parte di Elettra. Ma la voce
non l’aiuta con la necessaria consistenza e soprattutto con il
necessario volume a rappresentare il furore, la rabbia, la
disperazione. Perfettamente adeguati ai ruoli gli altri interpreti.
Successo quasi trionfale, com’era giusto, per tutti, con ripetute
chiamate al proscenio, alla fine dello spettacolo. Splendida la
partecipazione del coro. E ammirevole l’adesione dell’orchestra
alle intenzioni del direttore.
Nella
memoria, uscendo dal teatro, resta impressa la scena dei prigionieri
troiani, vinti esuli o migranti di oggi, addossati alla rete che li
divide dai vincitori. Il mare, in fondo, che si muove appena, come la
lapide di una tomba, che si alzi un poco solo per ingoiare le
successive salme. Il naufragio di Idomeneo e quello dei prigionieri
accomuna vincitore e vinti nella stessa sconfitta davanti alle forze
oscure del destino, il mostro inviato da Nettuno, la guerra perduta.
Per tutti in realtà la rabbia che non si è saputa seppellire nel
cuore: eccoli adesso là tutti a piangere invano l’irreparabile. Il
lieto fine è possibile solo in teatro. Ma anche in teatro, Omero,
Euripide, Crébillon, non l’avevano previsto. E forse questo ci
vuole suggerire Carsen: che il lieto fine o è una finzione, o è una
speranza. E tutti i personaggi smettono gli abiti militari per
presentarsi con gli abiti di tutti i giorni, come in tempo di pace.
Quella pace che per tre atti (che diventano due tempi, oggi in
teatro) nessuno avrebbe potuto prevedere. La speranza come utopia? La
pace come sogno? Mozart – e Carsen – sembra dirci che così
stanno le cose. E si pensa, allora, al finale del Fidelio di
Beethoven, la cui scrittura ricorda in più punti Mozart, e in
particolare questo Idomeneo (la scena del mostro): anche nel Fidelio
la liberazione dal carcere di Florestano è un finale teatrale. E’
un’utopia, un sogno. Ma davanti alle reti, ai muri che dividono chi
perde da chi vince, come rifiutarsi all’utopia, al sogno?
1Dal
progetto “Fabbrica” Young Artist Program del Teatro dell’Opera
di Roma
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