domenica 10 novembre 2019

Roma, Teatro dell'Opera: Idomeneo







ROMA. TEATRO DELL’OPERA. WOLFGANG AMADEUS MOZART, IDOMENEO, RE DI CRETA. Libretto di Giambattista Varesco dalla tragédie lyrique di Antoine Danchet per André Campra.

Idomeneo, Charles Workman
Idamante, Joel Prieto
Ilia, Rosa Feola
Elettra, Miah Persson
Arbace, Alessandro Luciano
Gran Sacerdote, Oliver Johnston
Una voce (Nettuno), Andril Granchuck1

Direttore, Michele Mariotti
Regia, Robert Carsen

Maetsro del Coro, Roberto Gabbianui
Scene, Robert Carsen e Luis F, Carvalho
Costumi, Luis F. Carvalho
Luci, Robert Carsen e Peter Van Praet
Movimenti coreografici, Marco Berriel
Video, Will Duke

Orchestra e Coro del Tatro dell’Opera di Roma

Nuovo allestimento del Teatro dell’Opera di Roma, in coproduzione con il Teatro Real di Madrid, Der Kongelige Opera di Copenhagen, e Canadian Opera Company di Toronto

La rappresentazione teatrale di un mito o di una storia che si richiami ai racconti mitici della classicità grecoromana, spesso nasconde il nucleo violento, problematico, inquietante del mito e della storia. La bellezza delle scene, la grazie dei costumi, coprono con una patina educata, accattivante, quanto invece c’è di selvaggio, di feroce, nel racconto dei miti classici o anche nella storia della Grecia e di Roma. Roland Barthes osserva che i personaggi di Racine, anche quando indossano vesti classiche, hanno sempre qualcosa di ferino, che il linguaggio educato, quello della corte di Versailles adottato da Racine, non riesce a celare. Lo sapeva molto bene il pubblico antico, che il mito è terribile, e che rappresentarlo poteva ferire le coscienze. Aristotele lo teorizza addirittura. Gli ateniesi si sentirono insultati dalle Troiane di Euripide. L’accusa che, alla fine della tragedia, Ecuba lancia ai conquistatori greci della frigia Troia di essere loro i veri barbari, suscitò accese polemiche e costrinse Euripide, per prudenza, a lasciare per qualche tempo la città. Segno che la rappresentazione aveva toccato un nervo scoperto. La recente strage che gli ateniesi avevano, infatti, perpetrato di tutti i maschi dell’isola di Melo (che oggi si pronuncia Milo) e la conseguente deportazione delle donne, tutte ridotte in schiavitù, era troppo evidentemente allusa dalla stupenda e amarissima tragedia: il drammaturgo che aveva osato offenderli andava punito. Ulisse che chiede l’uccisione del bambino Astianatte, colpevole di essere il figlio di Ettore, assomigliava troppo ai tanti ateniesi che avevano ammazzato i bambini di Melo. 




Robert Carsen, per la messa in scena al Teatro dell’Opera di Roma (ma anche a Madrid, a Copenhagen e Toronto) dell’Idomeneo, re di Creta di Mozart deve essere partito da riflessioni simili. E i prigionieri troiani sono diventati prigionieri, migranti mediorientali. Migranti veri, che rappresentano sé stessi sulla scena. In fondo il mare. Da cui sono arrivati. In cui annegano. I video fanno vedere, a un certo punto, Aleppo distrutta. Il mostro scatenato da Nettuno perché non potrebbe essere un aereo che lancia bombe, un carrarmato che spara sulle case e sulla gente? La guerra di ieri, di secoli fa, non è diversa dalla guerra di oggi. E le guerre, come scrive Tolstoj, non sono esibizione di armi e di glorie militari, ma di carne macellata e di sangue. La vicenda è raccontata dal grammatico tardoantico Servio, nel suo commento all’Eneide di Virgilio, e ripresa nel XVII secolo da Fénélon nel suo romanzo Télémaque. Da qui Crébillon, nel 1705, trae l’argomento della sua terribile tragedia, e da Crébillon Antoine Danchet, nel 1712, trae spunto per la tragédie lyrique a cui mise mano André Campra. Dall’opera di Campra, il mediocre poeta Giambattista Varesco, attivo alla corte salisburghese del vescovo Colloredo, e dunque in qualche modo “collega” di Mozart, elaborò il libretto per l’opera che Mozart mise in scena a Monaco nel 1781. 

 

E’ un capolavoro complesso che da una parte guarda alla tradizione italiana dell’opera seria, ma dall’altra, pur prendendo nota della “riforma” di Gluck, in realtà avvia una vera e propria rivoluzione teatrale. Mozart non ama i programmi ideologici, le dissertazioni estetiche sulla verità dell’opera seria o della tragédie lyrique: vuole fare teatro, e come lo sa fare lui: adoperando tutte le forme musicali che la tradizione melodrammatica gli offre. La musica si appropria così dell’azione. Non si limita a seguire gli affetti dei personaggi, non li blocca in un’aria, come fa l’opera seria italiana, o a rappresentare i loro contrasti, in grandi scene corali, come fa Gluck. Mescola tutto, arie, e contrasti, scene corali, e azione condotta da un tipo di recitativo che rimarrà più o meno lo stesso ancora per almeno mezzo secolo, Rossini compreso. Il dramma diventa così materia incandescente di passioni in contrasto. E queste passioni asseconda Carsen momento per momento, in una rappresentazione che ci aggredisce con un crescendo mozzafiato di violenza. Idomeneo fa voto a Nettuno, durante una tempesta sul mare, di sacrificare il primo essere umano che incontrerà sulla terra, se si salva. La storia è come quella biblica di Jefte. L’essere che incontra è suo figlio. Servio ci dice che Idomeneo sacrificò suo figlio e che per questo crimine il popolo cretese lo cacciò via in esilio. Il crimine, per i cretesi e per Servio, ma poi anche per Crébillon e per Danchet e Campra, non è tanto il fatto di avere sacrificato il figlio, ma il fatto di avere concepito un voto che prevede il sacrificio di un essere umano. 

 

Varesco conclude la vicenda con un intervento di Nettuno che scioglie Idomeneo dal voto, ma lo condanna all’esilio. La scena del dio che interviene sembra presa dall’Alceste di Gluck. Mozart, però, è drammaturgo più vario e complesso di Gluck, la scena dell’apparizione del mostro – che ricorda insieme sia l’Ippolito di Euripide che la Fedra di Racine - è una pagina d’intensità drammatica estrema, Beethoven vi attinge a piene mani. Ma tutta l’opera è una prefigurazione del teatro che verrà. A cominciare dal teatro dello stesso Mozart, al quale restano solo dieci anni di vita. Ci sono già individuazioni musicali e drammaturgiche che fanno pensare sia a Così fan tutte sia al Flauto magico. E poi c’è l’orchestra. Mozart non scriverà mai più, per il teatro, prevedendo un’orchestra così ricca di colori e così prepotentemente presente per tutta l’azione. Con un uso contrappuntistico dei timbri strumentali destinato a sviluppi imprevedibili, e sul quale devono avere meditato a lungo Beethoven, Weber, Schubert, Mendelssohn e perfino Wagner (si dimentica troppo spesso che, per sua stessa confessione, Mozart fu per Wagner un modello di musica teatrale). 

 

E qui sta uno degli aspetti più accattivanti di questa produzione romana. Michele Mariotti ha colto perfettamente la funzione drammaturgica di questo contrappunto dei timbri strumentali, l’inserirsi degli strumenti nelle intelaiature delle voci sulla scena. Ma ha anche compreso come la concezione musicale mozartiana non sia quella di un susseguirsi di episodi musicali ciascuno in sé conchiuso, ma al contrario in una successione coerente di forme musicali tra loro intimamente legate, sia per elaborazione tematica, sia, e soprattutto, per organicità armonica. Senza afferrare la concezione che fissa l’organicità dell’opera nella sua strutturazione insieme tematica e armonica, oltre che ritmica, di quasi matematica coerenza, non si entra nel teatro di Mozart, non si entra, anzi, nella concezione insieme musicale e drammaturgica di Mozart. Tutto è forma sonata, anche l’aria col da capo. E tutto è concepito come un grande affresco sinfonico, l’intero atto, un movimento, e tutta l’opera come una sinfonia. Ma non per privilegiare la musica sul teatro. Bensì, al contrario, per fare teatro con la musica. Era tanto, che non ascoltavo un direttore penetrare così lucidamente la drammaturgia musicale di Mozart. 

 

Sulla scena gli interpreti si ammirano per la totale omogeneità dell’interpretazione. Qualcuno più sicuro qualcuno meno o dai mezzi vocali non proprio adeguati. Ma conta poco. Perché conta l’insieme. Tuttavia non si può non restare conquistati dall’intensità e dalla giustezza del canto e della recitazione di Rosa Feola nella parte di Ilia. L’Idamante di Joel Prieto appare meno sicuro, ma di uguale intensità. E di ammirevole corrispondenza tra canto e scena, è la vittima predisposta, su di lui si giocano i destini degli altri. E sembra comprenderlo. Il sublime quartetto “Andrò ramingo e solo” esce fuori così come una naturale conseguenza dell’azione e delle passioni dei personaggi, ma soprattutto come una scelta tragica di rinuncia dell’eroe di quel momento, Idamante. Nobile l’Idomeneo di Charles Workman, che appare fin dall’inizio piegato dalla consapevolezza di un crimine, di una sventura. Molto brava Miah Persson nella parte di Elettra. Ma la voce non l’aiuta con la necessaria consistenza e soprattutto con il necessario volume a rappresentare il furore, la rabbia, la disperazione. Perfettamente adeguati ai ruoli gli altri interpreti. Successo quasi trionfale, com’era giusto, per tutti, con ripetute chiamate al proscenio, alla fine dello spettacolo. Splendida la partecipazione del coro. E ammirevole l’adesione dell’orchestra alle intenzioni del direttore. 



 

Nella memoria, uscendo dal teatro, resta impressa la scena dei prigionieri troiani, vinti esuli o migranti di oggi, addossati alla rete che li divide dai vincitori. Il mare, in fondo, che si muove appena, come la lapide di una tomba, che si alzi un poco solo per ingoiare le successive salme. Il naufragio di Idomeneo e quello dei prigionieri accomuna vincitore e vinti nella stessa sconfitta davanti alle forze oscure del destino, il mostro inviato da Nettuno, la guerra perduta. Per tutti in realtà la rabbia che non si è saputa seppellire nel cuore: eccoli adesso là tutti a piangere invano l’irreparabile. Il lieto fine è possibile solo in teatro. Ma anche in teatro, Omero, Euripide, Crébillon, non l’avevano previsto. E forse questo ci vuole suggerire Carsen: che il lieto fine o è una finzione, o è una speranza. E tutti i personaggi smettono gli abiti militari per presentarsi con gli abiti di tutti i giorni, come in tempo di pace. Quella pace che per tre atti (che diventano due tempi, oggi in teatro) nessuno avrebbe potuto prevedere. La speranza come utopia? La pace come sogno? Mozart – e Carsen – sembra dirci che così stanno le cose. E si pensa, allora, al finale del Fidelio di Beethoven, la cui scrittura ricorda in più punti Mozart, e in particolare questo Idomeneo (la scena del mostro): anche nel Fidelio la liberazione dal carcere di Florestano è un finale teatrale. E’ un’utopia, un sogno. Ma davanti alle reti, ai muri che dividono chi perde da chi vince, come rifiutarsi all’utopia, al sogno? 



 
1Dal progetto “Fabbrica” Young Artist Program del Teatro dell’Opera di Roma

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