Teatro dell’Opera di Roma.
La Bohème di Giacomo Puccini. Libretto di Giuseppe Giacosa e Luigi
Illica dal romanzo Scene della vita di Bohème di Henri Murger.
Film-opera di Mario Martone. Trasmesso venerdì 8 aprile 2022 su RAI
3.
Interpreti:
Rodolfo, Jonathan Tetelman
Mimì,
Federica Lombardi
Musetta,
Valentina Naforniţă
Marcello.
Davide Luciano
Schaunard,
Roberto Lorenzi,
Colline,
Giorgi Manoshvili
Benoît,
Armando Ariostini
Alcindoro,
Bruno Lazzaretti
Un
venditore ambulante, Giordano Massaro
Parpignol,Vinicio
Cecere
Un
doganiere, Daniele Massimi
Sergente
dei doganieri, Maurizio Cascianelli
Orchestra
e Coro del Teatro dell’Opera di Roma
Direttore
del Coro, Roberto Gabbiani
Direttore
e Concertatore. Michele Mariotti
Federica Lombardi e Jonathan Tetelman
La
Bohème di Giacomo Puccini, libretto di Giuseppe Giacosa e Luigi
Illica dal romanzo Scene della vita di Bohème di Henri
Murger, andò in scena al Teatro Regio di Torino il 1 febbraio 1896.
Tre anni prima, sempre al Teatro Regio di Torino, sempre un 1
febbraio, andò in scena Manon Lescaut, il primo grande
successo di Puccini, un’opera che costò molta fatica e molti
ripensamenti, soprattutto per la stesura del libretto a cui misero
mano in molti – Luigi Illica, Marco Praga, Domenico Oliva ,
e vi partecipò lo stesso Puccini, ma che alla fine fu pubblicato
senza il nome di un autore. All’epoca la drammaturgia di Manon
Lescaut fu giudicata
incoerente, poco teatrale, sconclusionata, a dimostrazione di quanto
spesso i contemporanei non riescano a individuare le ragioni del
nuovo, e invece a noi oggi
appare modernissima, quasi cinematografica, quattro scene della
tragica vita di Manon apparentemente staccate l’una dall’altra,
ma che nella successione disegnano i momenti di svolta del degrado
sociale dell’infelice giovane, da ragazza di buona famiglia ad
amante di uno studente squattrinato, poi mantenuta di un ricco
debosciato, prostituta e truffatrice deportata nelle colonie francesi
d’America, morta di stenti nel deserto del Nuovo Mondo. Certo,
rispetto alla coerente e ininterrotta vicenda della Manon
di Massenet, andata in scena all’Opéra-comique di Parigi il 19
gennaio i884, l’opera di Puccini sembra incoerente, gli atti
scollegati l’uno dall’altro. Ma la vicenda acquista un colore
sinistro, tragico, che non ha l’opera francese, la quale, tuttavia,
disegna un ritratto assai più delicato e pieno di sfumature della
ragazza, mettendo in rilievo, più che le crisi psicologiche del
personaggio, il suo destino di vittima sociale degli appetiti
maschili, che in
quanto donna non ha altre risorse se non il sesso per prevalere sulla
loro prepotenza. Che è poi la tesi anche di uno straordinario
romanzo illuministico francese: Le
relazioni pericolose
di Chordelos de Laclos. Ma
in quei tre anni – dal
1893 al 1896 - il mondo
del teatro musicale, anche
in Italia, era cambiato.
Appena otto giorni dopo il successo di Manon
Lescaut al Teatro
Regio di Torino, un’altra opera andò in scena alla Scala di
Milano: il Falstaff
dell’ormai ottantenne Giuseppe Verdi. Era un’opera assolutamente
nuova, che spazzava via le differenze tra il melodramma di tipo
italiano e francese costruito su numeri musicali chiusi e il dramma
wagneriano di un flusso musicale ininterrotto. Si disse, e si
scrisse, già dall’Otello,
di sei anni prima, che
Verdi aveva ceduto al modello wagneriano. Ma
le cose stanno in altro modo. Verdi non rinuncia affatto alla forma
musicale chiusa. Cerca, come ha fatto fin dall’inizio della sua
carriera di drammaturgo, di costruire una continuità drammaturgica
musicale cucendo insieme le forme chiuse senza farne sentire la
cesura. Era del resto la lezione dell’ultimo Rossini. Donizetti
segue altre vie. Bellini vuole, invece, anch’egli costruire una
continuità drammaturgica, ma per vie tutte sue, attenuando le
differenze tra declamazione e aria, da una parte estendendo al
declamato la cantabilità dell’aria, e dall’altra introducendo
nell’aria la forza drammatica della declamazione. Esempio sublime,
il duetto finale tra Norma e Pollione, nella Norma.
Verdi lo tiene presente
per tutta la vita. E mira a reinventare da una parte la grande forma
rossiniana, così bene individuata da Dahlhaus nel
suo saggio sulla musica dell’Ottocento,
una forma che equilibra le necessità stilistiche di una forma
musicale chiusa – che però non sia la singola aria - con la sua
funzione drammaturgica, e dall’altra a proseguire la via di una
declamazione melodica piegata alla situazione drammatica come gli
pareva suggerita da Bellini. Il finale del Ballo
in maschera già
individua e realizza perfettamente questa via. Nel Falstaff
il processo giunge al suo compimento. C’erano nel melodramma due
forme che si prestavano a questo sviluppo. L’Introduzione,
e il Finale.
Verdi le coniuga, le mescola, e costruisce l’intera opera come una
successione di introduzione e finale ininterrotta. Crea così quello
che poi verrà chiamato stile di conversazione. L’opera non si
spezza in singoli momenti formali ma si presenta come una successione
ininterrotta di conversazione tra i personaggi. Puccini coglie la
novità, e il compimento di una tradizione alla quale nemmeno lui
voleva rinunciare. Nasce così La
Bohème. Un’opera di
perfetta conversazione ininterrotta tra i personaggi, con i suoi
momenti lirici che però non spezzano la continuità, sarebbe infatti
sbagliato considerarli, come spesso si fa, arie o romanze: sono il
momento lirico del dialogo, la sviluppo musicale necessario di ciò
che precede e la premessa ugualmente necessaria di ciò che segue. Il
dialogo – e non duetto! - tra Rodolfo e Mimì che chiude il primo
atto ne è un esempio
mirabile. La
situazione – i due restano al buio, cercano la chiave, si parlano –
non conosce un solo attimo di sosta, e ciò che sembra un arrestarsi
dell’azione – non cercano più la chiave – è solo uno
svilupparsi del sentimento dei due che si scoprono alla fine
innamorati, l’azione dunque si trasferisce dai gesti esterni
all’interiorità dei personaggi. Quella sorta di concertato finale
che chiude il dialogo, con le voci degli amici fuori scena, è un
riportare l’azione interiore al movimento indispensabile dei due
innamorati che escono per raggiungere gli amici. La continuità
drammaturgica è raggiunta, ma senza soffocare lo slancio lirico dei
sentimenti nei momenti in cui il sentimento deve effondersi.
Mimì e Rodolfo
Tutto
ciò, questa continuità musicale dell’azione, è manna per un
regista. Tanto più per un regista che voglia trarne un film. Mario
Martone conclude, per il Teatro dell’Opera di Roma, con questa
bellissima Bohème,
trasmessa venerdì scorso
da RAI 3, il percorso
iniziato con Il
Barbiere di Siviglia e
proseguito con la Traviata,
creando una trilogia teatrale e cinematografica di straordinario
interesse. Perché non fa teatro, solo teatro, ma nemmeno cinema,
solo cinema. E tanto meno mette in scena un melodramma, anzi sarebbe,
nel caso della Bohème,
di dire
dramma musicale, opera, e non melodramma. Fa qualcosa di assai più
complesso: fa tutte queste tre cose insieme: mette in scena un dramma
musicale, fa teatro e facendo teatro fa un film, un film che è la
rappresentazione di come si mette in scena un dramma musicale senza
fare vero e proprio teatro, ma in realtà poi costruendo un’azione
teatrale al quadrato, che è anche un film che mostra come si fa un
film che non è cinema, ma è teatro che si fa cinema. Martone,
come aveva già fatto con Il
barbiere di Siviglia e
la Traviata,
non si propone di fare un film dell’opera, trasferendo pari pari
l’azione che si sarebbe vista a teatro in un’azione
cinematografica, mantenendo cioè l’illusione di assistere a una
vicenda, come in un vero film, con la differenza che i personaggi,
invece di parlare, cantano. No, l’origine teatrale-musicale
dell’azione non è mai trascurata, è anzi esibita. Il
film, così, appare come una riflessione su come si fa o si può fare
oggi un film d’opera. E per di più proprio il soggetto della
Bohème,
un gruppo di giovani che credono di poter cambiare il mondo, si
presta a una nostalgica rievocazione della nouvelle
vague francese,
l’insegna del
Café Flore, nel
quartiere Latino, frequentato, tra gli altri intellettuali del
periodo, anche da Sartre, a un certo punto appare, fuggevolmente,
dove ci aspetterebbe il Café
Momus. Questa
rievocazione di una certa Francia
conferisce al
film un tono di perpetua e
nostalgica tristezza, di
malinconia che l’allegria e lo slancio vitale giovanile non
riescono a reprimere. Ma
del resto non è tipica proprio dei giovani più fantasiosi e
visionari una profonda malinconia, un desiderio della morte, e la sua
paura, un senso smodato di solitudine e d’inadeguatezza? Chi sa che
sia questo il senso profondo della Bohème
di
Puccini.
Le
riprese sono girate, con bellissimi effetti e splendide inquadrature, nei
Laboratori di Scenografia del Teatro dell’Opera di Roma, in via dei
Cerchi: un edificio di archeologia industriale, tra officine per
scenografi-pittori, depositi immensi di costumi e attrezzeria scenica
e una falegnameria. Negli esterni si vedono le rovine del Circo
Massimo e del Palatino. L’orchestra s’inserisce più volte nella
rappresentazione, inquadrata nello spazio immenso del laboratorio. Il
direttore, Michele Mariotti, è più volte inquadrato, nei momenti di
più intima concertazione strumentale, in primi piani che mettono in
evidenza la realtà di un’esecuzione musicale e non di una finzione
realistica che racconti una vicenda. Niente è realistico, gli
ambienti non sono quelli del libretto, ma è il laboratorio, i vari
spazi del laboratorio, le sue terrazze. E tuttavia, il realismo
cacciato via dalla porta, rientra dalla finestra dei primi pieni dei
volti dei personaggi o meglio degli interpreti. Rare volte si sono
visti un Rodolfo così verosimile, una Musetta così accattivante,
una Mimì così credibile, Federica
Lombardi, nonostante
il fisico denunciasse uno stato di ottima salute, e non una malata di
tisi. Avrebbe potuto essere una contraddizione in una
rappresentazione che
avesse voluto presentarsi come
realistica,
è invece
un
elemento
in più di
intensità emotiva proprio perché non è abolita la differenza tra
interprete e personaggio, ma è
anzi
esibita. È l’interpretazione che restituisce il personaggio, non
la sua verosimiglianza visiva. Sono, anzi, proprio
i primi piani dei volti degli interpreti a condurci nell’evoluzione
dei sentimenti che muovono le azioni
dei personaggi. Indimenticabile il volto di Mimì che nel terzo atto
ascolta il colloquio tra Rodolfo e Marcello, dal quale apprende sì
che Rodolfo la ama, ma anche di essere condannata dalla malattia. Gli
interpreti
vanno lodati tutti. Qualcuno, come il Rodolfo del tenore cileno
Rodolfo Tetelman ha l’efficacia di un fisico adattissimo al ruolo,
di un bel giovane dall’aspetto ingenuo, ma in realtà introverso,
complicato. Ma gli altri non sono da meno, il Marcello di Davide
Luciano e la Musetta di Valentina Nafornita, moldava, Schaunard è
Roberto Lorenzi, Colline è Giorgi Manoshvili. Impagabile
Benoit, Armando Ariostini. E musicalmente? All’effetto
visivo corrisponde quello musicale. Straordinaria l’omogeneità
del cast. Nessuno fuori tono o sopra le righe. Segno di un lungo
lavoro di preparazione. E Michele Mariotti tiene insieme le complesse
fila dell’interpretazione su un piano di perfetto adeguamento di
ciascuno all’insieme. Un film da vedere e da rivedere, che è
insieme una splendida interpretazione dell’opera e una lezione di
come oggi una rappresentazione che non sia anche riflessione sulla
rappresentazione appaia inadeguata, poco credibile, per quanti sforzi
si facciano, magari anche polemicamente, programmaticamente, quasi
come un’utopia di una fedeltà inesistente o impossibile, di
rispettare, come da alcune parti vanamente si continua a dire e a
proclamare, le prescrizioni del libretto e della partitura. Che non è
vero, perché l’arte del teatro – e del cinema - muta assai più
rapidamente di quanto l’ingenuo spettatore
o teatrante, fiduciosi nella verisimiglianza delle convenzioni
teatrali, possano immaginare.
Altrimenti
dovremmo rappresentare Shakespeare affidando ad attori uomini anche
le parti femminili, rialzare l’orchestra
al livello del palcoscenico per l’opera prima della riforma
wagneriana, in Italia almeno fino al primo novecento, e riportarla
sulla scene per le rappresentazioni rinascimentali e del primo
Seicento. Rileggersi,
per convincersene, le pagine, può darsi definitive, che Carl
Dahlhaus, nel saggio I
drammi musicali di Richard
Wagner
(Marsilio, pur troppo esaurito, si può però leggere l’edizione
originale tedesca oppure la sua traduzione inglese), dedica alle
messe in scena dei drammi wagneriani.
Marcello