Il teatro di Fausto Paravidino stimola
lo spettatore a farsi molte domande. Nascono dal testo, e dalla recitazione. Ma
non è il testo, né tantomeno la recitazione, a porle. Sono suggerite dal
dialogo dei personaggi, dal comportamento dei personaggi. E’ il carattere che
subito colpisce, di questo teatro. Che non fa domande, né tanto meno dà
risposte. Ma da subito, dalla prima scena, colloca non solo i personaggi, ma
anche lo spettatore, in situazioni che non contengono in sé nulla
d’inspiegabile, di complicato, o di irrisolto, di problematico, e tuttavia
sembrano interrogarsi sul perché, sul come, sull’esito della situazione, senza
però dichiararlo esplicitamente, nessun personaggio dice: perché mi accade
questo? che cosa significa? e che cosa ne verrà fuori? Le domande sorgono
immediate nel cervello dello spettatore, senza che se ne accorga, quasi, e
quando se ne accorge, hanno già preso corpo nella sua testa. I personaggi ne
sembrano inconsapevoli: agiscono quasi per caso, o semplicemente agiscono, e
basta, come facciamo noi tutti i giorni, a casa, per la strada, guidando
un’automobile. Il teatro di Paravidino è un teatro profondamente problematico,
che s’interroga e interroga il pubblico, sull’esistenza, sul suo significato,
sulla convivenza, sui rapporti affettivi, o solo di conoscenza, di “vicinato”,
ma nessun personaggio se lo chiede, o dà delucidazioni. Le domande – e mai le risposte – stanno
sempre, e solo, nell’azione teatrale pura e semplice. Come nei grandi classici.
Shakespeare, prima di tutti. Ma anche i tragici greci. Sofocle non spiega mai
perché a Edipo succede ciò che succede. Ma porta sulla scena le vicende di
Edipo. Accade, allora, che Edipo si ponga alcune domande – quasi sempre
sbagliate – e non trovi risposte. Quando la realtà stessa gli darà la risposta,
e di tutt’altro genere da quella che Edipo si aspettava, Edipo sa, a questo
punto sa, che nemmeno quella è la risposta. E chiude la propria esistenza con
un’altra domanda, questa volta l’unica vera, l’unica giusta. Ma non la chiede
agli dei, al fato, al destino; la chiede a un altro personaggio, a Téseo: “Non
sapevo di uccidere mio padre e di accoppiarmi con mia madre. Ero dunque
innocente di questi crimini. Ma perché io?” Lo chiede nell’”Edipo a Colono”.
Naturalmente Téseo non conosce la risposta. E nemmeno il Coro. Che però così
commenta: “La vita umana è infelice. Dunque meglio morire giovani. E meglio
ancora, non nascere affatto”. Non è una
risposta. Ma è il significato della tragedia. Di ogni tragedia: che sorga una
domanda simile: perché io? e un commento che non spiega niente, come quello del
Coro. Il Destino della Tragedia non è una Divinità, o un’istanza soprannaturale,
trascendente, incomprensibile. Ma ciò che accade a ognuno di noi. Gli dei greci
sono immanenti, sono la realtà. Io, che sto scrivendo queste riflessioni, per
esempio: perché nasco italiano, e da una famiglia d’intellettuali, mio padre
matematico e mia madre insegnante? e nasco a Roma, non a Torino o a Venezia?
potevo nascere in una famiglia povera, o ignorante, in un altro paese, magari
in guerra, e non in pace come l’Italia. Ma il mio Destino è stato di nascere a
Roma da un padre matematico e da una madre insegnante. Non l’ho scelto io, come
Edipo non ha scelto di risolvere l’enigma della Sfinge: se l’è trovata sulla
strada. Quanto al padre, lo ha ucciso perché gli sbarrava la via, non voleva
lasciargli il passo, e lui non sapeva che quell’uomo, Laio, fosse suo padre.
Come non sapeva che Giocasta, la donna concessagli in premio per avere sciolto l’enigma
della Sfinge, fosse sua madre. E allora si capisce tutta la forza,
l’ineluttabilità, della domanda finale: perché io? Edipo, al silenzio di Téseo,
e degli dei – solo le Erinni lo chiamano: che aspetti? - si nasconde nel
boschetto da dove lo chiamavano le Erinni, e si lascia morire. Nessuno sa la
risposta. Ma tutti restano con quella domanda nel cervello, che rode l’animo: perché
io? Proprio perché non ha risposta, la domanda turba, corrode l’animo.
Sembra un giro di divagazioni
assai lungo, per riflettere sulla commedia “I vicini” di Fausto
Paravidino. E invece no, perché da
queste riflessioni nasce un’osservazione essenziale: il teatro di Paravidino,
come il teatro dei grandi classici del teatro, pone domande, anche inquietanti,
ma non ha, non conosce le risposte a queste domande. Come non le conoscevano
Sofocle, Euripide, Shakespeare, Calderón, Racine, Alfieri, Pirandello. Per questo mi ha attratto subito, e vi ho
riconosciuto lo stigma di un vero drammaturgo. Non è naturale nell’Italia di
oggi. Capisco il suo successo in Francia, in Inghilterra, negli USA. Gli autori
teatrali italiani di oggi, o di cinema, gli scrittori, e perfino i poeti
italiani, salvo poche eccezioni, non solo le domande le esplicitano, le
ripetono fino all’ossessione, ma danno anche le risposte e le spiegazioni delle
risposte. Perciò risultano così spesso
prevedibili, banali, noiosi. Nel racconto di un film, di una commedia, sullo
svolgimento del racconto prevale la spiegazione del significato del racconto.
Spesso, in chiave ideologica. E sono caratterizzati in modo manicheo i personaggi:
positivi e negativi, buoni e cattivi.
Talora con una conversione, un ravvedimento finale, o un sentimento “buono”,
che salva il cattivo. La terrorista della “Meglio gioventù” si commuove e
piange alla vista della bambina sua figlia. Ben altra durezza si trova in
“Heimat” di Reitz, a ritrarre i terroristi. Ma anche i personaggi “normali” di Heimat non sono definiti una volta
per tutte. Perché non c’è una vera divisione tra buoni e cattivi. Ma una
rappresentazione del “puramente umano”, direbbe Wagner. I personaggi di
Paravidino hanno i nostri difetti, le nostre avversioni e le nostre simpatie,
anche il nostro furore logico, se afferrati da una situazione che vogliono
capire. Ma come noi non sanno le ragioni dell’avversione, o dell’attrazione, o
della necessità di argomentare, di ragionare su ciò che avvertono e non
capiscono. Il fantasma fa paura. Nessuno lo vede. Ma Greta lo avverte. E poi
anche l’altra donna, Chiara, ne sente la presenza. Lo temono. E tuttavia
potrebbe essere solo un’allucinazione, una proiezione di paure inconfessate o
ignorate. Se esiste, la donna che abitava la casa dei vicini, potrebbe essere
lei ad avere paura, come l’aveva quando era viva. Paura degli estranei. Perché
gli altri, chi sa perché, fanno sempre del male. Magari è solo questa paura di
lei che non c’è, che sorge ora nell’animo di chi c’è. Le domande potrebbero
continuare. Come la diffidenza, e poi la simpatia, e poi di nuovo la diffidenza
per i vicini. Il cibo li unisce, ma subito li divide. Come il sesso: scambio di
coppia? Forse sì, forse no. Importante saperlo? Importa che il tradimento sia
percepito, e in modo furibondo da uno dei personaggi: guarda caso, il vicino.
Proprio il vicino di cui invece l’uomo della coppia, il marito di Greta,
sospettava una tresca con la propria moglie. O davvero la tresca c’era stata?
Ma in fondo che cosa sanno costoro l’uno dell’altro? e che cosa di sé stessi? E
perché prima si attraggono e poi si odiano? I personaggi dialogano molto. E
parlano anche dei massimi sistemi. Di Dio, per esempio. Apparentemente come se
ne parla spesso in conversazioni private tra sconosciuti, o al bar. Dio, o il
capo del governo, il calciatore famoso, fa lo stesso. Se ne sa soprattutto lo
stesso, di Dio, quanto se ne sa del calciatore e del capo del governo. E
rimasta sola, la vecchia vicina, il fantasma, nello spazio (abusivamente?)
abitato dalle due nuove coppie, sembrano calmarsi le sue inquietudini, tornare
il silenzio, la pace, in quello spazio, ch’era stato abitato da uomini così umorali,
così fragili e così pericolosi. Ora, abitato da un fantasma? dai morti? Buio.
Non lo sapremo mai.
Lo spettacolo, prodotto dal
Teatro Stabile di Bolzano, vede lo stesso Paravidino nel ruolo del marito. Io l’ho
visto al Piccolo Eliseo di Roma, mercoledì 13 aprile. Ho provato una grande emozione
e un piacere intellettuale profondo. La recitazione di Paravidino cattura
subito, per un che di estraneo, di non accademico, l’accento marcatamente
genovese, ma senza caricatura. Leggera, anche, la recitazione di tutti gli altri
attori, Iris Fusetti che fa Chiara, Davide Lorino il vicino, Sara Putignano,
Chiara, e Barbara Moselli, la vecchia. La regia è dello stesso Paravidino.
Scene di Laura Benzi. Costumi di Sandra Cardini. Luci di Lorenzo Carlucci. Dura
un’ora e quaranta minuti senza intervallo. E’ stato scritto che si pensa al
teatro inglese. In parte, è vero. Ma anche a Woody Allen, soprattutto per la
recitazione di Paravidino, che tuttavia sembra mirare più in alto. Però,
scrittura e recitazione appaiono tipicamente italiane. Per fortuna, non quelle
abituali di oggi. Sembrano cadere quasi per caso, le battute. nessuna enfasi,
nessuna sottolineatura, e soprattutto nessuna imitazione sciatta del parlato. O
se può sembrare parlato, è un parlato tra parentesi, sopra le righe, che fa
cogliere ogni virgola del testo. Ma fa cogliere, in particolare, la presenza di
un sottotesto che non viene mai esplicitato. Si resta inchiodati alla poltrona,
senza tirare il fiato. Si prova quasi disagio. Si ride, anche. Ma con la strana
sensazione che si sta ridendo di sé stessi. E sorge una domanda, la domanda:
chi sono, i personaggi, e chi siamo noi che li ascoltiamo parlare? Ci
assomigliano? sono come noi, un nostro doppio? Ma veramente ci comportiamo
così? E ci accusano? ci additano agli altri, a noi stessi? Tutte queste domande
restano senza risposta. Ma ci si accorge che l’importanza di ciò che si è visto
e ascoltato non sta nelle domande - implicite, ripeto, mai esplicite – che la commedia
ci ha fatto sorgere nel cervello, bensì, appunto, nel fatto che siano sorte,
che ce le siamo poste, che ci siamo sentiti obbligati a porcele. E che il
senso, forse il senso più profondo, della commedia stia qui: nell’inquietudine
di quelle domande che non hanno risposta, non possono avere risposta, ma che
sono sorte spontanee nel nostro cervello assistendo alla commedia. Se non è
questo vero teatro, che cosa è teatro?
Dino Villatico
Fiano Romano, 18 aprile 2016