DINO VILLATICO
SOLUZIONE FINALE
1.
BIRKENAU. La cella della morte. Quasi buio. Un uomo, nudo1, cosparso di lividi e ferite, sanguinante, in piedi, stretto tra due pareti ai lati e la parete alle spalle, in un vano che s’immagina non più grande del suo corpo. Non può muovere né braccia, né gambe, salvo, tra atroci dolori, stringere i pugni, alzare e abbassare le dita dei piedi. Può muovere la testa, un po’ all’indietro, un po’ in avanti, e completamente a destra e a sinistra, Ma ogni movimento provoca insopportabili sofferenze. Ciononostante l’uomo non grida mai, ma si lamenta. Esce dalla sua bocca tutt’al più qualche breve gemito, o il soffio del respiro trattenuto. Quando parla, la sua voce è calda, ma fioca. Parla perciò con fluida musicalità, come se nell’estremo confronto con la fine della vita, unico linguaggio possibile resti il canto.
L’UOMO Dio, Dio, perché mi hai abbandonato?2
Una spugna inzuppata nell’aceto
già sarebbe sollievo3. Mi sarebbe
delizia il colpo secco d’una lancia
che trapassi le costole e si ficchi
nel cuore4. La delizia mi sarebbe,
con quel colpo, la fine. Quale orgoglio
mi spinse dunque, amico, inascoltato,
inappellato amico, desolato,
fuggitivo silenzio dei discorsi,
tra l’odore dei forni e l’acre tanfo
del dormitorio, a credermi capace,
o mio sconforto, di sostituirti,
pezzo per pezzo, membro dopo membro,
fracassate, spezzate, frantumate,
tutte le ossa, anche quelle delle mani,
e dei piedi, capace di scambiare
col mio corpo di morto, con la salma
d’un uomo, il tuo divino allontanarti
dall’uomo? Se bestemmia ti parrebbe
ogni confronto, qui, ora, te lo chiedo,
più di Giobbe lo esigo, lo pretendo,
non importa se di cristiana voce
o di severo, silenzioso ebreo
che m’è vietato nominare, nome
di Dio o di nessuno. Non già, forse,
con te, non già per me. Ma sì con gli altri.
Anzi, con te, degli altri. Se qualcuno
oltre me, no, non oltre me, qualcuno
oltre gli altri, oltre tutti gli altri, è voce
che mi possa rispondere, parola
che io possa ascoltare, quando dico
“tu”. Tante volte, certo, tante volte
ho detto “tu”. Talora m’è bastato
guardare, e con lo sguardo già dicevo
“tu”. Sempre un dire, sempre immaginarmi
io voce, l’altro non solo una voce,
come me, ma l’orecchio che mi ascolta,
e la sua voce allora la parola
dell’ascoltarmi. Gli uomini talvolta
rispondono. Tu no. O mi risponde,
per te, la lingua delle ossa spezzate?
Il femore che m’urla dentro, fino
alla gola, e quest’urlo m’attraversa
le vertebre, trascorre una per una
tutte quante le costole, ricasca,
come cristallo frantumato, dentro
le braccia, dalle scapole nell’ulna,
giù giù fino alle mani, e poi risale
alla cervice, esplode, grida, grida,
dentro il cranio? Ma lo senti? Dimmi:
lo senti? L’urlo, adesso, non ha voce.
Ha le parole del mio corpo. E’ nervo,
vena, corrente, sangue. Tira il nodo
del muscolo sfibrato, proprio al punto
dove s’infilza come tizzo l’osso
frantumato: mi dice che non basta,
che non finisce, che non ha parole,
che non le avrà, che questo è il suo linguaggio.
Parole che non trafiggono la pelle,
che squarciano con inconsueti nessi
i nervi, compattate da uno spasmo,
contratto in inaudite ellissi il corso
delle vene, coaguli del sangue
a raggrumarsi nelle fenditure
delle ferite, l’ultimo aforisma
è loro, il più loquace, l’aforisma
finale del silenzio. Ma venisse.
Sì, sì, venisse. Sgombro finalmente
il campo delle ipotesi. Inattese
tutte le nostre stupide domande,
che credevamo non tanto risposte,
o già premessa di risposte, e dunque
in qualche modo già definizione
di una certezza, no, non questo, quanto,
più sottilmente, più ingannevolmente,
chi sa, ma chi può dirlo? se certezza,
o punto fermo, punto di partenza,
punto d’arrivo, in ogni caso dove?
non già certezza di una soluzione,
o, conoscenza estrema, ultimo appiglio
di una risposta, ma certezza almeno
di domandare, che anzi domandare,
a noi, più che permesso, è comandato.
Inavverate, invece, tutte quante
le attese: fin dal primo, estraneo,
vagito, che nemmeno nostra madre
sembra capace di ascoltare, fino
all’estremo richiudersi, e arrestarsi,
del rantolo. Non è, per me, l’inizio
di un tale arresto ancora incominciato.
Posso desiderarlo, sospirarlo.
E verrà. Ma non ora. Troppo presto.
E’ stato calcolato che tardasse,
che il suo passo venisse lento, lungo.
Il dolore non è un annuncio, ancora.
E’ solo il segno che verrà. Ma nulla
più di un sintomo. Come, sulle strade,
l’indicazione di una direzione.
Si sa che quella strada, da quel punto,
conduce a quella meta. Ma lontana
quanto la meta, se soltanto pochi
chilometri, o migliaia, centinaia,
meno di cento, durerà il percorso,
puoi sospettarlo, puoi perfino, forse,
da come ti si fa via via più ferma,
più forte l’abitudine al dolore,
ma non per questo meno viva, meno
persistente, ossessiva, sorda, dura,
puoi, sì, da questa sorta di declino
dei sensi, prevederlo, calcolarlo,
augurarlo, ma non con esattezza,
né quanto si avvicini o si allontani
il punto terminale dell’arresto.
Ecco. Adesso m’arriva, lancinante,
dall’anca, Persistente. Toglie il fiato.
Dio, non ti chiamo. Ma se tu da qualche
parte mi ascolti, no, non ascoltarmi.
E’ meglio. Non confonderò, sperando,
cercando un segno, il tuo abituale
silenzio con un tuo segreto modo
di ascoltarmi. Mi basterebbe, adesso,
soltanto l’ombra, il simbolo di un cenno.
Non ci sarà. Non voglio perpetuare
l’inganno anch’io che ci consuma tutti,
quando si giunge al punto della ruota
in cui io sono giunto: interpretare
come l’atteso segno il desiderio
di un segno. No, non ascoltarmi. Parlo
per me, per me soltanto. Conficcato
in questa cella, come dentro un pozzo,
o come già calato in una fossa,
sepolto già, prima del tempo, come
Giuseppe, dentro la mia tomba. Vano,
però, per me, sperare in un soccorso
dal di fuori. Non parlo per nessuno
che, spiandomi, possa, dal di fuori,
ascoltarmi. da qui, non ho più fuori.
Non lo vedo, non posso immaginarlo:
non lo sento, non c’è. Da qua, là fuori,
non c’è spazio né tempo, non c’è nulla.
Il buco dentro il quale sono stato
scagliato è tutto. Fino a quando? Fino
all’estinguersi estremo d’ogni dopo.
Poche ore di dottrina, la tua scuola
era già scuola di silenzio. Forse
immaginaria la visione d’una
rinascita, non sei rinato. Tutto
era già morto, prima di ascoltarti.
Sono rimasto quello che mio padre
mi ha fatto, mi facesse all’eresia,
alla dissipazione del passato,
all’oblio di chi sono, non mi servi,
non mi salvi, nemmeno tu, l’illuso
Salvatore d’un’altra religione,
o della mia, di quella che dovrebbe
essere sì la mia, che, peggio ancora,
la tua venuta, il tuo soccorso, sembri
destinarli a un ignoto calendario.
Non chiedermi preghiere. Mancheresti
la risposta. Mi spezzo. Sono stato
spezzato. Non mi salvi. Me ne vado
da me, senza che tu mi spinga dentro
la fossa, dentro il buco di me stesso.
Pensavo di sfuggire a questo imbuto,
al sangue che vi cola dentro. Sono
sempre quello che grida, che ha gridato,
uno dei tuoi reietti, il tuo relitto.
Aspetto, senza sforzo, che finisca
la commedia: di te, che mi redimi,
di me che chiedo, imploro redenzione.
Tu che la neghi. Io che resurrezione
mi fingo il tuo negarla. Non la chiedo.
Non te la chiedo. Ma poi: da che cosa?
La malattia non è mortale5. Morte
me la chiude, me la sigilla. Dopo,
al termine di questa stolta attesa,
senza lotta, una mano, chi la chiede
sugli occhi spalancati? No. Mortale
è presentirla, attenderla, vederla
raggrumarsi nei solchi doloranti
delle ferite, compattarsi sorda
nei battiti del sangue sulle tempie,
mortale è sospirarla, d’ora in ora,
ogni giorno, momento per momento,
non già come la fine della vita,
bensì come il placarsi, l’arrestarsi,
questa volta per sempre, del dolore.
Né che del tuo, solo del tuo, la fine
sogni e sospiri, è colpa che ti turba.
Il tuo, soltanto il tuo, ma non degli altri,
di tutti gli altri che hanno già sofferto
prima di te, che soffriranno dopo
di te. Che solo il tuo si plachi, solo
il tuo finisca, di dolore, niente
per te, niente per sempre. Sola fine,
quella fine, la fine del dolore.
Non ascoltarmi. Arriva da se stessa
quella che non ti chiedo, estrema punta
della mia tessitura, il tenue filo
che, tirato, distesse la mia trama
di maldestro scommettitore6, sfila
da lenti nodi le premonizioni,
che, scrutatore troppo spaventato,
per non riuscire distratto, da tempo,
osservando le mosse dei vicini,
origliando il brusio via via più forte
per le strade, ascoltando dalla radio,
leggendo sui giornali le minacce
d’assalto, anzi già vittime d’assalti
quasi noi tutti, mute, imprevidenti,
premonizioni, ottennero soltanto
d’intorbidarmi il sangue e d’appannarmi
gli occhi, che finalmente stanno al buio.
Quando compresi, era la fine. Troppo
tardi per occultarmi. Vidi, bianca,
tutta la panna delle torte, tutta
la cioccolata delle cinque, tutto
il grasso delle cotolette, il grasso
delle salsicce, degli stinchi, osceno
grasso di porco, come un’iniezione
di crema nei bignè spalmati e sparsi
sotto la pelle, a gonfiare le guance,
le braccia, vidi, gli occhi cilestrini,
senza ciglia, sbarrati, con il bulbo
rosso di sangue, il dito della mano
teso, puntato contro di me, sì, vidi
la mia vicina, quella che contava,
quando rientravo a casa, i miei panini
nella cesta, chiedendosi, stupita,
dove li avessi mai comprati, dove
potessi, io, che non potevo andare
in nessuno dei forni dove andava
lei e dove di quei panini - Jesus! -
mai lei ne aveva visto uno, io potevo
invece averne quanti ne volevo,
che vergogna, che scandalo, la vidi
puntare il dito, vecchia strega, contro
di me, gridare a squarciagola: “Quello,
uno di loro! mi viveva accanto,
ma è anche lui invece uno di loro!”
La sentii che sbatteva la sua porta,
mentre venivo spinto per le scale,
a calci. Non udii nient’altro. Voce
non venne, che non fosse d’aguzzino,
a dirmi niente. Non un gesto, un moto
di simpatia, non uno sguardo, fosse
solo per dirmi, muto: ecco, ti ascolto.
Non ascoltarmi. Parlo, sì, ma deve
esserci un tu, se parlo? deve? quale,
da questo buco? quale, dentro il culo
del diavolo7? Se chiedo di tornare
fuori, chi mi risponde? chi mi chiama?
Mi ascoltavano, forse, gli altri, tutti
gli altri, là fuori, quando anch’io, da fuori,
gli parlavo? qua dentro, chi potrebbe
sentirmi? sì, sentirmi, non pretendo
mi si ascolti. Sentirmi, basterebbe.
Vorrei gridare. Dio, vorrei gridare.
Ma non posso. Pensare già mi squarcia
le tempie, mi frantuma il cranio. Sono
un otre di ossa sminuzzate, cuoio
la mia pelle. Mi reggono diritto
i muri. Una bisaccia di midollo
e di sangue. Tritate, dai bastoni
degli aguzzini - no, mio Dio, non voglio
nemmeno nominarli, che la loro
preda, la loro vittima, la loro
macelleria da me si possa dire
con un nome, no, no, se lo facessi,
luogo di sacrificio, luogo sacro,
marchierebbe la mia parola questo
scannatoio, non devo, no, non devo,
posso solo insultarli, stronzi, stronzi -
tritate coi bastoni tutte le ossa,
prima di conficcarmi, come un chiodo,
no, buttarmi, scaraventarmi come
un sacco di patate, nella melma
di sangue e di escrementi ch’è la traccia
di chi, qua dentro, fu gettato prima
di me e, come me, gettato dentro
per lasciarlo morire. Come un chiodo,
anche, però: sì, come un chiodo. Sopra
la testa, per calarmi, giù giù botte,
coi pugni, coi bastoni, come un chiodo,
un chiodo martellato con un sasso.
Un chiodo, Dio, mi scoppia. Sì, mi scoppia
la testa. Figurarsi, mi lasciassi
andare, mi lasciassi trascinare
dalle parole, dalla voglia pazza
di parole. Che cosa sono queste?
No, non sono parole. No, non parlo.
Se parlassi si sfascerebbe il petto,
s’aprirebbe il torace, come vecchia
carcassa arrugginita senza viti,
una Opel fracassata, abbandonata
sul ciglio della strada, che si lascia
come il corpo di un morto, una carogna
di latta, a poco a poco consumare
sotto la pioggia, sotto il sole, sotto
lo sguardo indifferente di mille occhi
che passano, che corrono, scappando,
che volano su nuove, luccicanti
carcasse, sulle stesse che saranno,
come questa, bucate, arrugginite,
Opel buttate via. Coi gas li fanno
finire. Qui funziona meglio. Mica
come le vecchie Opel, con i tubi
di scappamento regolati in modo
da riempire di gas tutto l’interno8.
Troppo lenta la morte, troppo pochi
per volta. Il nuovo gas sembra perfetto:
ne ammazza centinaia in una volta,
rapidamente. Un quarto d’ora, qualche
minuto più, qualche minuto meno.
Una carcassa, il corpo. Tutti quanti.
Carcasse da buttare nei rottami,
ammassarle, comprimerle, annientarle.
Tutti noi, tutti noi siamo carcasse.
Voglio gridare. Dio, voglio gridare.
Allora sì. Gli stronzi hanno pensato
anche questo. Che se uno grida, tutto
il corpo, tutte le ossa, tutto il sangue,
i muscoli, la pelle, i nervi, tutto
quanto, si fa materia di quel grido,
si fa grido, si fa l’urlante bocca
della carne che grida, sanguinose,
aperte labbra tutte le ferite.
Ho sete. Il sangue che mi cola lungo
le guance fino in bocca è troppo amaro
per dissetarmi, amaro, e troppo poco.
Quando non mi facessero morire
le ferite, a finirmi basteranno
questa sete, e la fame. Quanto tempo
posso durare? Il crocifisso muore,
dicono, dopo un giorno, dopo due.
Più lunga l’agonia dell’impalato.
Tre giorni, anche di più, se bene ha fatto
il boia il suo lavoro, e non toccato,
ficcando il palo, gli organi vitali.
Un’arte, per il turco. Tra i cristiani
c’è più delicatezza: si squartava.
Morte quasi immediata. Questi nuovi
pagani - sembra che così chiamati
li abbia il Papa: pagani, non cristiani -
questi nuovi pagani hanno più genio:
i sistemi di morire sono stati
perfezionati, sono adatti a molti
tipi di morte, a tutti. Tutti sono
scelti, secondo il caso. Il mio, d’esempio
per chi fugge, dieci sono conficcati
in questo buco. Dopo che a ciascuno
sono state spezzate tutte le ossa.
Genialità tedesca: fare d’ogni
intuizione un sistema. Regolare
con gelida esattezza ogni dettaglio.
Ma sì: Pio undicesimo ha ragione.
Pagani. Non cristiani. Forse meno:
aveva lo sterminio una sua legge
di guerra, per gli antichi. Quale legge
per costoro? quale ordine da imporre?
E, ipocrita sciacallo, sorridente
bianca iena romana, il nuovo Papa
tace. Tace la Croce Rossa. Tutti
tacciono. Tutti. Tutti sanno e tutti
tacciono. Ma che aspettano a parlare?
Io non posso gridarlo, da qua dentro.
Chi sopravvive, potrà raccontarlo.
Dovrà. Ma non potrà mai perdonarlo.
Io no. Io no. Io che non sopravvivo,
no. Dovrebbe ciascuno figurarsi
d’essere me. E non perdonerebbe.
Nessuno, mai, potrebbe perdonare.
Io no. Io non perdono. Maledico.
Il giorno che lo seppi e non compresi.
Il giorno che li vidi, come belve,
scagliarsi su di me, poi scaricarmi
come bestia nel carro del bestiame
sul treno che altre, molte, bestie, tutte
come me, conduceva al mattatoio
di questo campo, dove conficcato
muoio in un buco, solo perché un altro,
anche lui come me, di me più scaltro,
ce l’ha fatta a scappare dall’inferno
di questo scannatoio. Ch’egli possa
vivere, sopravvivere alla fuga,
e raccontare a tutti quanto ha visto.
Non lo odio. Non posso. Frantumato,
sminuzzato, poltiglia di midollo
e sangue, come sono, se potessi,
anch’io, in questo stesso istante, vivo
come ancora mi sento, scapperei
da qui, dal buco, dove, come un chiodo,
conficcato, gli stronzi, come un sacco
di patate buttato, e no, nemmeno
come un chiodo, ma niente, niente, niente,
solo un inetto, un vagabondo, un uomo,
Dio, ma com’è possibile buttarmi
qua dentro? come possono buttarmi
qua dentro, me che sono un uomo, sono
un uomo? Dio, ma che ci fa qua dentro
un uomo come me? Voglio svegliarmi,
sto sognando. Non sono conficcato
in questo buco. Sane sono tutte
le mie ossa, nessuno le ha spezzate.
Non è sangue che cola sulle labbra,
ho sete nel mio sogno, sto sognando
che ho sete e bevo sangue. Ora mi sveglio.
Tutto finisce. L’incubo finisce.
Mi sveglio. Torno sano. Torno sano
e libero. Non muoio. No, non muoio
in questo buco maledetto, in questa
oscena fossa, in questa ripugnante
tomba piena di sangue raggrumato
e di merda, non muoio in questo culo
dell’inferno, nel culo del Ribelle
in cui sono cascato e che mi espelle
come uno stronzo, un verme, un cancro,
la malattia di respirare in sogno,
ad occhi aperti, un altro mondo, un altro
sogno, da cui non voglio più svegliarmi.
Sarà così? Che dormo e sogno un altro
sogno dal sogno che m’ha qui cacciato
in questo buco, in questa buia tomba.
Posso sognarne un altro e risvegliarmi.
Mi sveglio, e sotto le lenzuola sento
che dal tepore del mio corpo sono
scaldate le mie vene, Dio, Dio,
e sono a casa, sono nel mio letto.
Mi sveglio e tutto l’incubo sparisce.
Dio, Dio, perché mi hai abbandonato?
2.
La stessa scena, qualche ora dopo. L’uomo è leggermente appoggiato su se stesso. Con qualche sforzo e attraverso atroci dolori cerca di sollevarsi, raddrizzarsi, di pesare meno sulle gambe, si addossa al muro con le spalle.
L’UOMO Ho dormito. Da quanto tempo sono
conficcato qua dentro? Quanto tempo
mi resta, prima di finire? Voglio
finire. Non resisto più. La bocca
mi brucia. Secca come un forno acceso.
La lingua mi si attacca, mi s’incolla
al palato, s’impasta con le guance,
sembra cascarmi in gola. Sento freddo.
Ho la febbre. Sto come mi venisse,
finalmente, a trovare, a visitare,
l’Angelo della Morte. Angelo mio,
che aspetti? Vieni, affrettati, ti prego,
ti prego. Non resisto più. Non muoio.
E non resisto più, non duro. Come
potrei se non resisto, ma non muoio,
aspettarla da te, spietato servo
di un Dio nascosto, questa che ti chiedo
desiderata fine del dolore?
Un dolore insoffribile, che il gelo
del tuo silenzio mi costringe invece
ugualmente a soffrire. Povere ossa!
che disumano strazio sopportare
ciò che non si sopporta! Questo è il punto.
Ora ascoltami bene, giustiziere
dei miei stivali, e dimmi se mi sbaglio.
Si dice che una sofferenza estrema
come la mia, nessuno può soffrirla:
eppure, ecco, la soffro, e resto vivo.
Ho fame. Come posso, conficcato
qua dentro, come un chiodo, come un sacco
di patate, buttato, e spezzettato,
appoltigliato, nudo, come posso
sentire fame? come posso ancora
pensare e dirmi di sentire fame?
come posso pensare? come posso
pensare di pensare? come posso,
io, un uomo ch’è solo un mucchio d’ossa
frantumate che m’urlano il dolore
di finire, mi succhiano nel ventre
come vermi il mio sangue, come posso
conficcato qua dentro, come posso
credere di pensare? come posso?
come posso pensare di pensare? -
Sto diventando pazzo. Non arriva.
qua dentro, nulla, di ciò che là fuori
ancora accade. Non un suono, un grido,
un rumore. No so se piove. Piove
sempre in questo paese,. Se sia notte,
se sia giorno, non posso, conficcato
come un chiodo nel buco, no, non posso,
scaraventato come un sacco rotto
di patate qua dentro, dentro questa
lurida fossa, io non posso saperlo.
Non so niente di ciò che fuori accade.
Peggio che in una tomba. Perché dentro
non vi giace un cadavere, ma il corpo
di uno ch’è ancora vivo. Udissi il vento.
Udissi almeno tra le fronde secche
fischiare il vento. Fuori era già inverno
quando m’hanno buttato come un sacco
di patate qua dentro. Quanto tempo,
da quel giorno, sarà dunque passato?
L’inverno in questa terra è lungo, è duro.
Udissi il canto dei compagni, dentro
la baracca. Che fine ha fatto Jakob?
Scriveva i nostri canti. Cantavamo
tutte le sere insieme, cantavamo
i suoi canti. Ce li scriveva apposta.
Perfino gli aguzzini, quando noi
cantavamo, venivano, ridendo,
ad ascoltarci. Dopo qualche volta,
non ridevano più. Da noi quei canti,
dissero, non pensavano davvero,
così belli e soavi, e con dolcezza
così dolce cantati, di poterli
ascoltare. Non credevate? Certo.
Ci fate meno degli uccelli. Meno
di qualunque animale. Siamo meno
delle bestie. Non siamo che un ammasso
ripugnante d’insetti. Scarafaggi.
Blatte. Pidocchi. Tutti da schiacciare.
Permettete? Non siamo solo questo.
No, non lo siamo. Siamo, mi dispiace,
anche qualcosa ch’è di più. Sapete?
Siamo uomini. Voi non lo credete.
Ma noi, sì, noi, qua dentro, siamo tutti
uomini. Noi che vi sembriamo tutti
solo pidocchi, scarafaggi, blatte,
e perciò voi qua dentro conficcati
ci rinchiudete, tutti quanti siamo,
chi nel buco, chi nelle docce, dove
invece che con l’acqua, ci lavate
col gas, noi che cantiamo, siamo tutti
uomini, ed è per questo che cantiamo.
Cantiamo, sì, ma non la nostra cupa
disperazione, quella la lasciamo
alla vostra memoria, alla memoria
di chi dopo, quando anche voi sarete
scomparsi, si ricorderà di voi,
cantiamo, invece, noi, per noi, la nostra
speranza. Quale? di che cosa? Quella
che ci lasciate. La speranza, e basta.
La speranza dei morti. La speranza
di durare, che non scompariremo,
perché, schiacciati, resterà qualcuno
sempre che vi sarà sfuggito, sempre
qualcuno resterà che non avrete
voi potuto schiacciare. Tutti noi
saremo, dopo, da costui per sempre
ricordati e dai figli di costui,
e dai figli dei figli di costui,
sempre, fino alla fine d’ogni tempo,
ricordati. L’amore, ricordato,
anche, di noi, con noi, per tutti quelli
come noi, conficcati, sminuzzati,
schiacciati. Dalle bocche i nostri
canti usciranno allora più soavi,
perché saranno i canti di chi è stato
liberato. Ma ricordato l’odio,
anche, che fece di noi tutti solo
un popolo di morti. Con quell’odio,
ricordato, per sempre, il vostro nome.
Ricordato da noi com’è per sempre
il nome dell’imperatore Tito,
la delizia di cui non conoscemmo,
dispersa, oppressa gente, la dolcezza.
Ma con chi parlo? Quale tu mi ascolta?
Sempre un tu, sempre questo tu che vince
qualunque solitudine, che sfonda
le porte d’ogni cella, che perfora
i lucchetti di botole nascoste,
che penetra nel buio dell’inferno,
s’infila in questo buco, dentro il culo
del diavolo, mi stana, mi trafigge
il cranio e scuoia i nervi del pensiero.
Quale tu? quale orecchio? quale bocca?
Non c’è nessuno. Io stesso, qui, non sono,
per me stesso, nessuno; quanto penso,
lo penso per nessuno. Non riesco
ad essere per me, qui dentro, io stesso,
nemmeno un tu, nemmeno la memoria
di un tu, di un corpo che abbia bocca, orecchio,
che fu sangue, saliva, che fu sperma,
desiderio di sperma e di cervello.
Versarlo, il seme. A fecondare un grembo.
Sgocciolarlo il cervello, come spugna,
a sbrodolare sillabe, parole,
a snocciolare nessi di parole,
a intrecciare pensieri, raccontare,
raccontarmi, raccogliere me stesso,
raccogliermi in un aforisma, farmi
il punto di me stesso che ritorna
su di me, che ritorna più completo
su di me, dopo il giro di me stesso.
Ma costruito, quindi, l’edificio
che mi rispecchia, mi vedrò costretto
a spalancarne tutte le entrature,
a riflettermi a volta a volta in tutti
gli occhi che vi si affissano, leggendo
nelle nere pupille incuriosite
il buio di me stesso, e nello sguardo
in cui mi specchio a catturare l’ombra
del mio che lo riflette. Il buco nero
di me stesso, che il lampo di uno sguardo
nel precipizio assorbe d’ogni vista,
è nel vortice in cui scompaio, il buio
che ingoiandomi dentro mi fa cieco,
e anticipa la mia abolizione.
L’incubo è questo buco. Il sogno è sogno
di uscirne, di non crederlo che un sogno,
sogno di libertà, di continuare.
Ma continuare, come? Continuare,
che cosa? Questa sete che mi brucia
la bocca? Questa fame che mi morde
le viscere? Mi pare di sognarla,
la mia morte. Ora che la sto vivendo,
mi pare invece, credo di sognarla.
La sto vivendo? Vivere la morte?
Forse per questo credo di sognarla.
Nell’incubo il mio sogno è di sognarla.
Sognandola, può darsi, il mio risveglio
me la dissolve. Meno vera, forse,
la sento, se la sogno. Non ho freddo,
non sento intirizzirsi, rattrappirsi
i muscoli dal gelo. Non si agghiaccia
il sangue nelle vene, il cuore in petto.
Quest’orribile gelo si dissolve.
Sognarla, la mia morte, è quanto resta,
può darsi, quanto serve al mio cervello
per non morirne, prima di morire.
Forse, anzi, no, così, così m’arriva:
sognandola che arriva. Il mio risveglio
sarà perciò, ma sì, non risvegliarmi.
Oh, Dio, quando? Non reggo, non resisto.
Peggio delle ossa, il freddo mi trapassa
le gambe, il petto, il ventre, tutto il corpo.
No, non resisto più. Dio! non resisto.
Ma dovrei forse fare proprio questo:
non resistere, alzare i tacchi come
un vigliacco, lasciare vuoto il campo:
e l’Angelo verrà, con le ali alzate,
silenzioso a portarmi il suo silenzio.
O piuttosto sforzarmi di aiutarlo:
sollevare i calcagni scorticati,
spingere dentro, spingere i ginocchi,
respirare profondamente, urlare,
infilzarmi da me, con una scheggia
di costola spezzata, e addormentarmi
finalmente nel sonno degli estinti.
O quanto meno: farmi testimone
muto del grido che mi demolisce,
non pensare, ma regredire, invece,
all’animale che non parla, indietro,
al microbo insenziente, al vegetale
inerte, al virus debellato, al sasso.
E l’Angelo mi soffierà sugli occhi,
e sentirò le palpebre abbassarsi,
chiudersi, e poi non sentirò più niente.
Perché dunque non taccio? Perché tesso
quest’inutile tela di pensieri,
come potesse il solo soffio, il solo
sbuffo delle parole, ridonarmi
ciò che da me va via, va via per sempre?
Lentamente, con perfida lentezza,
ma va via. Dietro, non mi lascio niente.
Né ricordi, né subdoli rimpianti.
Meglio così. Se ricordare è bello,
più bello ancora essere ricordati,
i ricordi si scontano: li paghi,
li paghi tutti, quelli belli e quelli
brutti. Li paghi come se dovessi
di viverli pagarne ancora il prezzo.
Non si ricorda l’attimo che passa
mentre ancora sta trascorrendo, solo
lo si ricorda quando è già trascorso.
La memoria mi sembra, più che il libro
dei profitti o la stanza dello scrigno
in cui si custodiscono i tesori
ammucchiati nel corso di una vita,
il libro degli ammanchi, o la dimora
svuotata dopo un’asta. Custodisce
ombre, ne fa l’elenco, le incolonna,
ti piazza il libro sotto gli occhi e dice:
“Tutto quello che leggi, l’hai perduto,
è come questa stanza vuota dopo
il trasloco dei mobili venduti”.
Nessuna cassaforte, di nessuna
banca, nessuno scrigno di nessuna
stanza, nessun registro di nessuna
ragioneria, ti custodisce niente.
Nessun tesoro nella cassaforte,
o nello scrigno, e pura fantasia
l’elenco del registro. Prima ancora
che si potesse la combinazione
mandare a mente, o girare la chiave,
la cassaforte è stata scassinata,
ed è stato svuotato anche lo scrigno.
Un frego sulle pagine del libro
contabile registra la rapina.
Si viene consegnati tutti a questo
sciupio di vite, all’insensato spreco
di lacrime e di sperma che perpetua
le perdite, e ci riproduce come
cavallette i carnefici, ma come
chicchi di grano insemina e raccoglie
sparse per tutto il mondo, in ogni
tempo, tutte le vittime. Che schifo!
Non è questa mattanza un’eccezione,
una stortura, un’improvvisa insania
della storia: nei secoli passati,
nei millenni, molte altre in ogni parte
si sono viste del pianeta e molte,
molte ancora pur troppo ne verranno.
No, no: non voglio piangere i ricordi,
non voglio, ricordando, sciacquettarmi
la faccia con le lacrime. Nemmeno
voglio che, dopo la mia morte, un pianto
sterile, senza frutto, un pianto idiota,
che non ridona ciò che fu perduto,
si scoli con il moccio, con la bava,
dal naso, dalla bocca, tra le rughe
impiastricciate, la barba unta, grassa,
di chi è sopravvissuto. Non aspetto
posteri, non li voglio. La commedia
finisce qua. Spettacolo stupendo
noi tutti abbiamo dato di noi stessi.
Meglio finirlo qui. Lo chiudo. Basta. –
Bastasse dire: basta. Mi snervassi,
così spezzate, come dentro sento
l’ossa, così spaccato il corpo, e rotto
il perno che sostiene tutta quanta
la macchina, lo dico a chi? che cosa,
basta? Il cammino del mio desiderio
non è il cammino delle cose. Quando
parlo, parlo per me. Ci sono io solo
ad ascoltarmi. Io solo e nessun altro.
Il mio tu è di scarto. Un surrogato,
in mancanza di meglio. Forse il solo
destinatario d’ogni mio discorso,
il solo che mutasse in un colloquio,
il mio disancorato soliloquio.
Nemmeno lui mi salva. Caterina
me lo diceva: “Non m’ascolti, David,
tu non m’ascolti, non ascolti mai
nessuno, non ascolti che te stesso”.
Dovevo dunque, per accontentarti,
ascoltare te sola? Ti perdevi,
Caterina, con me. T’avrebbe, infatti,
questo lurido circonciso, questo
ebreo, te pura, te cristiana, figlia
di padre ariano, l’incontaminata
purezza intossicata del tuo sangue,
t’avrebbe questo impuro, questo nudo
scarto della creazione, questo virus
subumano, olocausto criminale,
travolta nel suo sangue, nella melma
di questo buco, nella fossa dove
muoiono quelli come me, poltiglia
di midollo e di merda, crudo impasto
di sangue e di sudore, l’escremento
di un dio distratto. E che diresti, adesso,
al figlio che chiedevi, Caterina?
Meglio morire come muoio, senza
figli, che spaventarmi, nel morire,
per ogni vento che sussurri morte
anche per lui. Non cambiano le cose.
Il vento che oggi ci travolge, il vento
che mi scaglia nel buco dove muoio,
non è sterile vento. Soffia, soffia
da molte bocche. Una generazione
non gli basta. Rinasce e si rinforza
d’una in altra generazione, sempre
nuovo, dapprima quasi sconosciuto,
ma poi toglie la maschera, la bocca
spalancata, che soffia, lo rivela.
Ma è troppo tardi per fermarlo. Cresce.
Soffia, uccide, travolge tutto e tutti.
E’ facile per lui. Dai padri i figli
non imparano niente. Basta poco,
perché l’orrore sia dimenticato.
Basta che non si voglia ricordarlo.
L’oblio è merce a buon mercato, merce
diffusa, la si vende facilmente
da Berlino a Madrid, da Mosca a Roma,
da Parigi a Belgrado, da Varsavia
a Londra, chi la vende, chi la svende
è bravo, passa il mare, passa tutti
gli oceani, lo incontri sulle strade
di New York, ma s’è già dimenticato,
com’è del resto sua natura, il giorno
che lo hai visto mischiato nella folla
di Tokyo, di Pekino, che gli hai stretto
la mano in una libreria di Sidney.
3.
La stessa scena. L’uomo sta quasi sulla punta dei piedi, come nell’atto di ascoltare qualcosa che viene da fuori. Presto, però, ricasca su se stesso, sfinito dai dolori. Da quando è stato chiuso nella cella della morte è già passato, tutto intero, un giorno.
L’UOMO M’è parso di ascoltare dal di fuori
un suono, un canto, credo, un nostro canto.
Lo cantavano qua vicino. Credo.
Lo cantavano - se qualcuno, fuori,
veramente cantava - questo canto,
per me? ma come sanno che ficcato
qua dentro, in questo buco sporco e buio,
è proprio me che ci hanno condannato?
Chi gli ha detto che la mia cella è questa?
La loro voce, l’ho sentita. Come,
se l’ho sentita. Gemiti di sangue
mi strappavano dalla nuda pelle
le loro voci. Come mi versasse
sulle ferite aperte acido sale
ogni lacrima, incandescente zolfo
l’inascoltato pianto. Tutto questo:
per me? sono venuti qui davanti,
perché li udissi? E come dirgli adesso,
se ancora stanno qui davanti, ancora
aspettano un segnale, come dirgli
che li ho sentiti, o farmi udire, fargli
sentire i miei lamenti? E ci riuscissi,
mi sentissero: ma che cosa dico
a loro che mi cantano dei nostri
dolci canti il più dolce, il più sereno,
il canto del commiato? Non un altro,
vero? nessuno, nell’esilio dove
ci estinguiamo? Mi pensano, gli amici.
Mi ricordano. Anch’io. Ma il mio ricordo
che voce può ridire, e quale orecchio
riascoltare senza tremarne? Posso
credere solo mio il mio destino?
Quanti altri, dopo me, carcere uguale
al mio potrebbe incarcerare? E grido,
come questo, gridare inascoltato?
Come spaccare il muro che divide
l’angoscia della mia disperazione
dalla disperazione della loro
impotenza? Dovrei gridare. Come
fare giungere un grido, se gridare,
da questa bocca, dal torace rotto,
non è più, no, nemmeno desiderio,
ma soltanto ricordo? Se gridassi,
se potessi gridare, inoltre, come,
di là da questi muri di cemento,
fuori di questo buco, arriverebbe
la mia voce? Ma non arriverebbe.
Come, dunque, però, m’è giunta, prima,
la loro? come fino alle mie orecchie
m’è giunto il canto? Forse non è giunto?
Io, forse, l’ho sognato? Sogno il canto?
Anche questo, soltanto una visione,
un’allucinazione dissennata
del desiderio? No, no, non visione,
e nemmeno allucinazione. Solo
il flebile fantasma della voce
d’un coro, il coro della mia baracca.
Io non ho visto niente, ho solo udito,
udito bene, l’ho riconosciuto,
nota per nota, l’ho riconosciuto,
il nostro canto, il nostro dolce canto
del commiato. Non era sogno udirlo.
O sì? come, del resto, pochi, certo,
pochissimi, venuti fino al muro
della cella, potrebbero venire
senza essere veduti? è notte? è buio?
Ma il canto, dopo, quello, il canto, è vero,
se, conficcato come sono dentro
questa fossa, l’ho udito anch’io, anch’io
mi sono teso, tutto, ad ascoltarlo,
mordendomi le labbra, trattenendo
il respiro, tirando indietro il pianto,
asciugandomi gli occhi col pensiero,
perché la vista, sì, anche la vista,
sprofondato nel buio, resti chiara,
mi resti ora più chiara, che non vedo,
e l’orecchio più acuto, più accogliente,
ora che non arrivano rumori
se non del sangue che mi scorre, ardendo,
sulle tempie, tra le ferite, in petto,
sulle cosce, nell’inguine che trema,
la punta delle schegge d’ossa infitte
nei muscoli, raschiandomi rabbiose
le budella; se, dunque, sminuzzato,
dentro questo canale di tritume,
coi piedi nella melma di cacate
infinite, di sangue e di midollo,
cacata, sanguinata, sgocciolata
la propria vita, il proprio agonizzare,
da chi m’ha preceduto in questa fine,
se quel canto l’ho udito, da qua dentro,
anch’io, come gli altri, gli aguzzini,
fuori, non l’hanno udito? E se quel canto
quelli là l’hanno udito, gli aguzzini,
com’è che non ho udito grida, spari,
che non l’hanno interrotto? quale ignota
pietà, nei loro ammuffiti cervelli,
li ha sorpresi? da quale sconosciuta
pazienza quei bastardi, finalmente,
sentine d’impazienza e incontinenza,
hanno permesso d’essere invasati
e dominati? Dominare? Dunque
soggiacciono anche loro alle pulsioni
dei nervi. Ma non hanno grado, i nervi.
Non comandano. Sono sbrigativi:
chiedono un’immediata esecuzione,
ignorano divise e coscrizioni,
Conoscono soltanto l’ubbidienza.
E senza discussione. Sotto il loro
influsso, ogni particola del corpo
cede all’imposizione. I sottomessi
agiscono, si torcono, sgomenti.
Sgomentare un tedesco? Ma può darsi
Che nemmeno tedeschi sono, quelli.
Belve, mostri, che nascono già persi,
già sgomentati. Se l’accanimento
che devasta, che uccide ciò che incontra,
sembra ferocia, forse, chi sa, solo
perché ne siamo vittime, ci sembra
tale, ma se guardiamo, se possiamo
guardare dal di fuori, distaccati,
l’accanimento, il gas, le fosse, i forni,
e quella che beffardi, gli aguzzini,
chiamano di nascosto soluzione
finale, vale a dire lo sterminio
definitivo, l’eliminazione
dalla faccia del mondo di noi tutti,
luridi ebrei che ci tagliamo il cazzo
per offrire un piacere più furente
alle puttane delle nostre donne:
sono previsti sedici milioni,
per cancellarci dalla terra, quanti
siamo noi tutti sparsi per l’Europa,
ma dalla storia cancellarci, come
vorrebbero, quand’anche di nessuno
non restasse che il corpo incenerito,
non potranno, e saranno giudicati,
se considereremo tutto questo,
se possiamo e, chi sa, forse dobbiamo,
guardare distaccati quest’orrore,
l’accanimento con cui si programma
e si organizza e si attua questa infamia,
non ci parrà ferocia, ma paura.
Paura, sì, paura: più di quanto,
solo a sentirli, tutti noi tremiamo,
solo a vederli, l’anima sentiamo
dal panico strappata via dagli occhi,
e dentro il cranio mangiarci la paura
tutto il cervello. Ma la nostra è solo
paura di finire. Quella invece
che rosicchia la mente di costoro
è paura di non avere ancora
nemmeno incominciato quel progetto
di uniformare il mondo e, sgomentati,
si sentono perciò dalla paura
addentati di non valere niente,
di non essere niente. E sono niente,
sono meno di niente queste sciocche
caricature del furore, questi
animali sbraitanti che ci stanno
sterminando. Non sono altro che niente.
Bestie da circo. Il loro sterminato
dominio è l’escrescenza d’una crosta
di sterco, sì, la crosta di una schianza,
la malattia da cui anch’io guarire
voglio, e dimenticarli, cancellarli.
Ma questa notte i poveri compagni
della nostra baracca hanno cantato.
Hanno cantato. Hanno cantato sotto
questo muro, l’intera notte udito
ho questo canto. Hanno cantato solo
per me. E gli aguzzini hanno ascoltato,
li hanno lasciati per tutta la notte
cantare il nostro canto di commiato.
Ma come so che non è un sogno? come
ch’era notte? poteva appena alzarsi
il giorno, essere comandato il canto.
Vogliono che le mie ferite solo
non siano ferite della carne,
delle ossa, del sangue che s’inquina,
impastandosi tra le fenditure
aperte dalla tibia che s’infilza
nel ginocchio. M’addentano con denti
più aguzzi, adesso. Ficcano aghi lunghi,
acuti, tra le costole. Perversa,
però, molto di più, dentro il cervello,
gli aguzzini m’infiltrano sapienti
la nostalgia di vivere, l’incanto
di tornare di nuovo un uomo sano.
E io ci casco, stupido, ci casco
dentro come una pera cotta, affondo,
un gemito, un sussurro, un lievitare
miracoloso del dolore, e sento
che vengo accolto, che m’accoglie il canto
di commiato dei miei compagni come
una berceuse, un Wiegenlied, la ninna
nanna del mio dolore che m’invita
a dormire, a sognare, che m’invita
a morire. M’avvolge, m’addormenta.
Mi culla piano piano. Ricordare?
Nel sonno in cui mi placo, che mi toglie
all’istante, al pensiero dell’istante,
che mi sottrae al tempo, al minuzioso
computo delle trafitture, al tetro
numero della notte che m’ingoia.
Ricordare? Ma posso, ancora, posso,
io, rimasuglio di me stesso, posso
ricordare? che cosa? come? quando?
in quale tempo? Fuori, forse, fuori
di questo tempo? fuori di ogni tempo?
Fuori, e basta? Non qui? non ora? e dove?
quando? L’interminabile schedarsi,
contro di me, del polverio di sensi
intorpiditi, no, non s’interrompe.
Una vecchia grattugia arrugginita
che mi scortica i nervi. Ricordare?
Non sono padre. Ma fui figlio. Ci hanno
divisi quasi subito, una volta
arrivati nel campo. Spinto a forza
nella baracca dove un ufficiale
m’aspettava, per depredarmi il poco
che avevo ancora addosso, l’orologio,
l’anello di mio nonno, la catena
d’oro con la medaglia, l’incisione,
una stella di David, le mie cifre
sul dorso: I. L ., Itzhak9 Lewy, nudi
li ho visti, tutti e due, dalla finestra
della baracca, nudi, in mezzo ad altri
vecchi, e nudi, anche, sporchi, accanto a loro,
le file dei bambini, visti, visti,
io, Itzhak Lewy, ma per i cristiani
David, il mio secondo nome, visti,
li ho visti con questi occhi, sì, li ho visti
in mezzo a quella folla di morenti
ancora vivi, mio padre e mia madre,
nudo mio padre, nuda anche mia madre,
che correvano verso il fondo, sotto
la pioggia, staffilati dai soldati
della guardia. Sentivo gli urli, udivo
il fischio delle staffilate. Nudi
come maiali verso il mattatoio.
Non sanno comandare senza urlare,
gli aguzzini. Non sanno commentare
senza strilli, quei rabidi sciacalli.
Grosso come un gorilla, come un orso,
ma calvo, un energumeno strillava
non so che cosa, dava calci a tutto,
ai bidoni, alla vecchia sventurata
che cascava, al bambino rotolato
per terra, lo coprì di calci, calci
dovunque, sulla pancia, sulle braccia,
alle gambe, alla testa, sulla faccia,
e lo finì col calcio del fucile
buttato giù più volte sul suo cranio.
E mentre l’energumeno gridava
a quel bambino: “muori, su, giudeo!
Ci liberiamo, sì, ci liberiamo
finalmente di tutto il vostro schifo”,
e mentre quello là così gridava,
a quel bambino, gli altri secondini
giù staffilate, anch’essi urlando, ai vecchi
che correvano. Ed una staffilata
colpì mio padre sulla faccia. Vidi
un lungo filo rosso disegnarsi
sulla sua guancia, un lungo filo rosso
dall’occhio fino al mento. Non lo vidi
mai più. Di lui ricordo il filo rosso
che rigava dall’occhio fino al mento
la sua guancia. Non altro. Non riesco
più a ricordare la sua faccia senza
lo sfregio di quel lungo filo rosso.
E’ quasi un marchio. No, quasi un sigillo
del ricordo. Il sigillo del dolore
sul volto di mio padre a ricordarmi
ch’era un distacco, che da quella volta
io non l’avrei mai più rivisto. Il lungo
filo rosso di sangue sulla guancia
era la fine della mia visione,
era l’ultima volta che potevo,
vedendolo, sia pure col pensiero,
dirgli. “T’amo, papà!”. Scomparve. Intanto
avevo anche seguito con lo sguardo
i movimenti di mia madre in mezzo
alle donne. Mia madre già non era,
infatti, accanto a lui. Un altro gruppo,
di sole donne, già s’era avanzato
fino al fondo del campo. E là scomparve
anche mia madre, insieme alle altre donne.
Ricordo il grande culo che scompare
nel buio. Di mia madre, gli aguzzini,
ultimo e solo ricordo lasciato
m’hanno quel grande culo che scompare,
inghiottito dal buio. I forni, quella
volta, non hanno smesso di bruciare
tutta intera la notte. Poi per giorni,
sospeso con il fumo sopra il campo,
l’odore aspro di carne abbrustolita,
denso, si mescolava con l’odore
acre dell’ammoniaca. Proibito
manifestare nausea. L’inferno
per noi, non era ancora incominciato.
Ma quando, dove, c’era stato un Eden?
Forse, chi sa, perduto, immerso, sperso,
tra le strofe di Saffo, tra le righe
di Tucidide, riconosciuto, amato
nei trimetri di Sofocle, adorato
nei giambi di Aristofane. Mio Dio!
E che ci fa, qua dentro, adesso, il canto
di costoro? quest’altro nudo canto?
Come me, nudo, come nudo mio
padre, e nuda mia madre. Come nudo,
nell’isola di Lemno, Filottete.
Anche allora già gli odi e l’abbandono,
e già la solitudine. Che serve,
Antigone, che serve rifiutare
l’odio10? La storia dentro cui smarriamo
le nostre scelte, dentro cui manchiamo
l’appuntamento che ci salverebbe,
ricomincia da capo sempre il corso
della sua fuga, ma non torna indietro.
E quale atto si recita qua dentro
della tragedia del fuggiasco? Il primo?
l’ultimo? Sempre noi Ebrei fuggimmo,
sempre fuggiamo, come Ulisse fugge
le Sirene. Respinti e attratti, un canto
che ogni volta crediamo dell’inizio,
ma è canto della fine. Questa fine,
la mia, uguale a tutte le altre fini.
L’atto non s’interrompe. Nel teatro
antico la vicenda si svolgeva
senza una interruzione, dalla prima
all’ultima parola. E si faceva
orgia di danza il canto senza rima
che commentava gioie e sofferenze
dei personaggi, per la disistima
dei crimini additando le indecenze
dell’uomo, che deturpano l’eroe.
Questa grandezza dunque reclamava
continuità. Che si precipitasse
dal fasto, dalla gloria, nel cordoglio
dell’infelicità, come succede
a Serse nei Persiani, senza un punto
di rottura, cadendo senza fine
nel baratro del male, dal cui fondo
non nascere ci salva solamente.
O giovani morire11. I sapientoni
d’Alessandria e con loro, dopo, i dotti
di Bisanzio hanno sezionato i testi,
li hanno divisi in atti, scene, cori.
Che arroganza! dovevano restare
indivisi. Lo scorrere del giorno
scorre intero nei versi, ininterrotto,
dal primo verso al verso che conclude,
nel nome delle Parche, la visione
del nostro nulla. Aveva in questo modo
anche la nullità dell’uomo aspetto
e onore di grandezza, la miseria
dignità di compianto. S’illudeva
così lo spettatore antico, come
chi ha visto bene in faccia il male,
di uscire dal teatro risanato,
purificato, e dunque assai migliore
di quando v’era entrato. Ma che serve?
Gli antichi sono antichi, sono morti.
Ci sarà sempre qualche professore
impettito, magari un professore
che occupa una cattedra usurpata
- la mia, può darsi? da cui venni a calci
scacciato via come un appestato?
Eh già! L’ebreo li contaminava,
li corrompeva, poveri ragazzi!
li guastava sfoggiando erudizione,
innalzando la dignità dell’uomo
a valore, a valore dei valori,
come mi permettevo? indegno, impuro
gnomo dal naso adunco, come osavo,
storpio folletto, démone ingobbito,
sentina d’una indegna, contraffatta,
iniqua erudizione, come osavo,
io stesso indegno, contraffatto, impuro,
mescolarmi alla schiera degli eletti,
io, l’errante, il lenone, lo strozzino,
figura della folla dei reietti? –
ci sarà sempre un professore, in qualche
parte del mondo, che darà la baia,
lui, l’astuto, ambizioso carrierista,
lo svelto, scaltro scartabellatore,
all’improvvisazione dei poeti.
Ma dove si rintana, dove fugge
ora la mia memoria? Quasi fino
alle lacrime, sì, mi commuoveva,
era capace di rapirmi, un verso
di Sofocle, di Euripide, di Saffo.
Ma conficcato in questo buco, in questo
buio inferno, nell’umido pertugio
d’una disperazione senza scampo,
che me ne importa delle insulse beghe
dei professori, delle stolte, vane
diátribe di filologi e linguisti,
delle meschine, turpi sgomitate
dei colleghi? Quel mondo ormai da tempo
non è il mio mondo, m’è lontano, come
mai il mio piede non avessi messo
nei corridoi, nell’aula, negli uffici
di un’università. Se penso invece
che proprio quello era il mio mondo un tempo
e mi pareva un vero mondo, il mondo
della mia libertà. Dal punto adesso
da cui lo guardo, limitato, chiuso
m’appare, quasi più del buco sconcio
in cui vivo mi fanno agonizzare.
Sì: piccolo e lontano. Mi prosciugo.
M’avvicino alla fine e mi prosciugo.
Mi prosciugo perfino di ricordi.
Non voglio ricordare. No, non voglio
più. L’ufficiale mi spogliò di tutto.
Anche del mio violino. Anche dei libri,
pochi, una Bibbia, un Sofocle, un Omero,
un Tucidide. Un’altra volta vinte,
perché ragioni della parte inerme,
le ragioni dei Melî. Ma sapevo
tutto il passo a memoria. Lo gridai,
come uno schiaffo, tutto, in greco antico,
alla testa di paglia che m’ha messo
qua dentro, prima che mi frantumasse
l’ossa. Storse la bocca. Lo credette
ebraico. La lingua degli Elleni,
che credono il modello d’ogni pura
lingua ariana, confusa con la lingua
d’Israele! Sta bene. La parlai,
allora, questa lingua, la cantai,
alta, sonora, dura, con le parole
di David: tu, di che ti vanti, sciocco?
di che t’inorgoglisci, prepotente?
Dio ti distruggerà. Te dalla terra
rimosso che calpesti, te per sempre
escluderà dal ceppo dei viventi12.
Qui tacqui e cominciarono in quel punto
a stendermi e spezzarmi tutte le ossa.
Nemmeno il mio violino, gli aguzzini,
m’hanno lasciato. Ne sentivo, i primi
tempi soltanto, la mancanza. Dopo,
con quali mani, quali dita, tutte
secche, tutte rugose, rattrappite,
lo avrei suonato? Cantavamo. Peggio,
fin dall’inizio, mentre fuori, nudi,
vedevo con mia madre incamminarsi
alla morte mio padre e l’ufficiale
mi spogliava di tutto e c’era l’altro,
l’orango, che sbraitava, che ammazzava
un bambino col calcio del fucile,
peggio fu quando l’ufficiale prese
tra le mani la Bibbia: non sapeva
da che parte guardarla, la girava
e la voltava di sopra e di sotto
la ruotava a sinistra, a destra, e dopo
la riguardava torvo. Ma d’un tratto
comprese, diede un urlo, la sua bocca
si storse in una smorfia, e disse: “Al fuoco,
nel forno, insieme a loro!” Si distese
allora finalmente la sua faccia,
ammiccò sorridente al suo sergente,
ed infine scoppiò, convulso, bieco,
in una gigantesca, rumorosa
risata. Seppi allora che avrei fatto
la stessa fine. Non ebbi paura.
Nemmeno, forse, odio. Non provai
disgusto. Forse quegli esseri biondi,
quasi albini, slavati, una spalmata
di panna sulla torta, quelle bestie
unte, grasse, le dita appiccicose,
quelle pance gonfiate dalla birra,
quelle cosce ripiene di salsiccia,
forse quegli animali urlanti
non erano davvero della specie
alla quale appartiene l’animale
che sono io, davvero, forse, siamo
non di due razze, ma di due diverse
specie, cugini, forse, non fratelli,
come la scimmia e l’uomo, come i cani
e gli sciacalli, il gatto e il topo: loro
sbiancati dalle notti delle selve,
noi cresciuti nell’onda degli ulivi,
abbronzati dal sole del deserto,
allevati tra nudi scogli e spiagge
bianche nel mare tra le terre antiche
di Pindaro, di Giuda e di Giuseppe,
d’Annibale, di Orazio e di Lucano,
inebriati dal frutto che inebriava
il Patriarca – risero i suoi figli
della sua nudità, noi, figli eletti
d’un Dio che ci sorride e che c’inebria,
loro, assassini furenti d’un dio
notturno, un dio di morti orbo e furente.
Ma da quel punto un obbligo fu certo
per me: m’imposi di mai più guardare
negli occhi l’animale che mi stava
di fronte. Hanno ragione. I nostri corpi
non nascono da grembo uguale. Siamo
due specie differenti. Non potremo
mai incontrarci sulla stessa strada.
Uno di noi dovrà lasciarla all’altro,
e incamminarsi per un’altra strada.
4.
La stessa scena. L’uomo ha perso molto sangue, per i continui sforzi di cambiare posizione. Il corpo è tutto percorso da una specie di sudore rosso, che traspira dalla pelle, cola giù a piccole gocce per tutta la durata della scena.
L’UOMO Figlio di David, quando per la prima
volta lessi il tuo testo13, ne rimasi
perturbato, ma non ti riconobbi.
Io non immaginavo, quando lessi,
che la visione di così deserto
e devastato territorio fosse
non lo sconforto e l’astio di un perdente,
ma lo scarno racconto di chi siamo.
Raccontarci, però, chi siamo, forse,
più che la prevedibile sconfitta
di un’illusione, può condannarci
all’esequie finale della bella
illusione di crederci e sperarci
diversi. Ma possiamo noi davvero,
noi che guardiamo e che viviamo tutto
questo male, nutrire l’illusione
che la vita è diversa, che diverso
è l’uomo che la vive, che diverso
anche è l’uomo che ce la fa subire
come un inferno senza vie d’uscita?
Se tutto è male, e non esiste il bene
se non come speranza defraudata,
come illusione sempre rinviata
di una vita migliore, e non contiene
il nostro cuore altro che i nostri errori,
e l’odio del carnefice misura
l’odio della sua vittima, che dura
l’orrido tempo della sua tortura,
se non altro reale c’è nei cuori
di chi subisce che la sua paura,
e non altro che indomita sciagura
ricolma il vuoto della sfaldatura,
se non altro che un torbido furore
rimescola le viscere del vile
che infligge ai sottoposti il suo rancore
di non essere di sé che lo scurrile
palinsesto di più grande abiezione,
se solo accoglie il grido del morente
ciò che finisce, ed altro il sofferente
di sé non sa che la disperazione,
io che qua dentro soffro e mi racconto
la mia morte già prima di morirla,
che cosa guarderò? quale illusione
ricacciarmi nel cuore e soffocarla
nello stomaco vuoto, come pasto
di scartato animale, quale vita,
se la mia sofferenza è che sperare
una via di salvezza, figurarmi
che c’è da qualche parte una di fuga,
nemmeno come sogno, come vano
delirio posso crederlo reale?
Ora comprendo bene, Salomone,
il senso tutto delle tue parole.
Orgogliosa ripulsa, o ribellione,
può darsi, alle inflessibili lezioni
di morale che alla recalcitrante
mia giovinezza, con una snervante
assiduità mio padre m’imponeva,
furono l’abbandono ed il rifiuto
della preghiera nella sinagoga.
Ma mio padre m’accorsi che l’amavo,
che disperatamente, sì, l’amavo,
quando nudo lo vidi insieme agli altri
vecchi correre sanguinante verso
le docce, ma sapevo che la corsa
era verso la morte. Come adesso,
ma da fermo, la mia. Con il ritorno
di quell’amore, dalla mia memoria
mi ritorna l’amore, non di Dio
- chi amare può quel Dio che vede questo,
e lo permette? - ma della parola
che crediamo la sua. Nessuno crede,
a dire il vero, che così dettata
abbia Dio la parola, che crediamo
sua, se davvero un Dio l’abbia dettata.
Ora, però, chiunque le dettasse,
Dio, Salomone, o chi si proclamava
Salomone, quelle parole tutto
a un tratto si chiariscono, si fanno
verità, ma non la verità del mondo:
la verità di me, che sto qua dentro.
Nell’inverno dei sensi, in questa notte
della ragione, dentro questo buio
del buco in cui sprofondo, ormai spezzati,
oltre che l’ossa, anche tutti i miei nervi,
la mente mi s’illumina e capisco.
Mi ripeto di nuovo le parole
che ascoltai da bambino, ne ripeto
nella mia mente l’eco, che se allora
fu di premonizione, non compresi,
ne accolsi inerte e sordo la minaccia.
Ora il suono lontano e ormai straniero
delle parole che mio padre, calmo,
declamava, mi strugge con il dolce
sfinimento del rivenire vano,
e soffocato, di un’ombra, la spenta,
opaca ombra, vivente ancora, d’una
infanzia irreversibile e perduta.
E perduta, con essa, l’innocenza
delle parole. Anch’io, ora, mi perdo.
Non torno indietro. Passo. Mi concludo.
Come passiamo tutti. Tutto è niente.
Una generazione passa, un’altra
viene, l’uomo non resta. Il sole nasce,
e tramonta, ritorna nello stesso
punto, rinasce, ritramonta. I fiumi
finiscono nel mare, acqua nell’acqua,
ma il mare non trabocca. Il vento soffia
a ovest verso il pascolo dei morti.
Il vento gira e si rigira, torna
sui suoi giri. Non resta del passare
del vento che il passare d’altro vento.
Ma non resta dell’uomo ch’è passato
nemmeno il suo passaggio. Come nulla,
nel nulla l’ombra spenta si dilegua.
Ho visto le oppressioni, ho visto tutte
le oppressioni che sotto il sole, sempre
nuove, l’uomo sull’uomo, in ogni parte
fa subire del mondo. E tutte ho visto
le lacrime che colano dagli occhi
degl’innocenti, ma nessuno, al mondo,
che le asciughi, nessuno che ne plachi
la sofferenza. Ho visto l’impotenza
di chi vorrebbe contrastare il male,
resistere al furore dissennato
della violenza, ma la mano amica
che ci sollevi dal dolore, il braccio
che ce ne tragga fuori, da nessuna
parte m’è stato dato di vederli.
Ma può l’inaccettabile occultare
e fingersi un’uscita dall’inferno
chi nell’inferno vive sprofondato?
La differenza tra la dannazione
del mio dolore e della mia sicura
fine, e lo scampo che apparentemente
libera gli altri da quest’inferno,
è un bell’inganno crederla illusione
che non arriverà la fine. Arriva,
ed arriva per tutti: moriranno,
un giorno, anche questi aguzzini, poco
importa in che momento. Uguale sempre
una falce recide, e le pareggia,
tutte l’erbe del campo. Prima o dopo,
che importa? C’è chi ascolta, e chi rifiuta
di ascoltare. O se ascolta, non risponde.
Natura, forse, del divino, solo
il silenzio. Se grido giorno e notte,
il grido resta inascoltato. Il trono,
davanti a cui lo grido, è vuoto. O vuoto
ciò che solo da noi supposto è trono,
ma che potrebbe essere un sogno, quello
d’immaginarci al mondo più importanti
di un microbo, di un verme, di una pietra.
Se mi guardo, che sono? Un corpo, un tronco,
che scende nella fossa, un uomo solo,
cui non giunge soccorso, abbandonato
come il cadavere di un appestato,
in un sepolcro improvvisato, quello
che nessuno ricorda, cui nessuno
innaffia un fiore sulla tomba. M’hanno
conficcato in un buco, sprofondato
in una tomba, questa dove, vivo,
già dormo la mia morte: e sono solo.
Proclamo che beati sono i morti,
e più felici quelli che non sono
nati. Nessuno sbocco all’infelice
che non vede altro buio che l’orrenda
notte della sua tomba, dove vivo
giace sepolto. Maledico il giorno
in cui nacqui, la notte in cui si disse:
“E’ stato concepito un uomo”. Il resto,
non è per me. Conosco la risposta.
Questa: “Dov’eri tu quando gettavo
le fondamenta della terra? dove,
quando fissavo gli astri nella volta
del cielo?”14 Sì, lo so: non c’ero. Colpa
non esserci? morirne come muoio,
forse una punizione? Ancora sento
intatto il mio cervello. Non so come,
funziona ancora. Casco sulle stesse
ferite, ogni millimetro che affondo,
un grido che non grido, chiusa dentro
ogni bocca, fermata ogni parola,
che non sia la mia pelle, il sangue, il ventre
lacerato da turbini improvvisi,
violenti, di non so che cosa, sento
solo l’amaro che m’arriva in bocca,
e questa furia d’aria che mi squarcia
le viscere. Non sono che il fantasma
di me stesso. Ma, non so come, ancora
il cervello funziona. Scotta, esplode,
ma funziona. Con questo mio cervello,
allora, anch’io rispondo, ti rispondo.
Non c’ero, no. Ma qui, ora, ci sono.
Tu, dove sei? Ti avevo chiesto, appena
chiuso qua dentro, di non ascoltarmi.
Non ascoltarmi. Tanto, la risposta,
che tu mi ascolti o no, sarebbe sempre
quella: “Dov’eri tu?” Qua, qua, qua, sono
Che mi frega dov’ero, che mi frega
di saperlo dov’ero prim’ancora
di nascere! Qua sono!
Non mi vedi?
No, non mi vedi. Tu non hai né occhi
né mani. Tu non vedi. Tu non tocchi.
Non hai bocca, non parli. Non ti siedi
su nessun trono, il cielo in cui risiedi
è una favola buona per gli sciocchi
che ci credono, da lassù non scocchi
fulmine alcuno, né grazie concedi.
T’hanno inventato il gelo e la paura
della morte, ti ha dato una figura
il nostro sogno di consolazione.
Ma nei giardini e nei deserti niente
sembra una tua parvenza. Indifferente
guardi l’uomo e la sua disperazione.
Storce la bocca in una smorfia di dolore.
Come ora guardi me, ma non dai segno
né di vedermi, né di avere voglia
di mandarmene qua qualcuno. Degno
non ritieni il mio corpo che si sfoglia
né d’un tuo sguardo né d’una parola.
Io chiamo l’aria, invoco il buio, chiedo
parole al muro. Non ho che una sola
risposta: un tu farsesco al quale cedo
l’immaginario dio che non risponde.
Ma che altro tu, ficcato in questa nuda
solitudine, ora, mi corrisponde
se non il muto ghigno che denuda?
Sarò, tra breve, un ghigno. Quanto prima,
tanto meglio. Non lo vedrò. Veduto
da chi lo volle, spero, come un’infima
smorfia che dice: “Anche tu sei fottuto”.
Ora, però, fottuto, qua, ci sono
solo io, io e questo tu maligno
che non mi lascia in pace. Grida, freme,
dentro di me, m’insulta. Lo detesto.
Una specie di sosia. Un solitario
testimone del mio degrado. Quale
altro interlocutore mi dovrebbe,
del resto, dare retta? e dove? dentro
questo merdaio? sprofondare, tutto,
mi sento dentro. Il corpo, tutto quanto,
non solo i piedi, il corpo, dalle piante
dei piedi, su, su, su, fino ai capelli,
tutto quanto una merda. Le pareti
del buco sono diventate lastre
di merda, umide, scivolose, quasi
mi viene voglia di leccarle, ho sete,
la lingua è gonfia, gonfia, ma rasposa,
secca, sembra uno scorfano che gratti
la mia bocca, mi scortica il palato,
ho sete, se leccassi le pareti
del buco, mi berrei, mi calmerei
la mia fame, la sete, è merda, piscio,
sudore, ma si beve, ma si mangia.
Per fare che? per vivere? protrarre
l’agonia? No, resisti, pazzo, devi
resistere, vuoi prolungare questo
tuo prosciugarti? vuoi alimentare
il morso della bestia che dilania
il tuo tempo? sospenderlo nell’aria,
il dente pronto a perforarti, il labbro
già disposto a succhiarti, dalla vena
isterilita, l’ultima tua goccia
di sangue? Sogni di affamato. Sogni
di affamato che il gelo rattrappisce,
che si morde, gelato, dentro il ventre,
le budella, che succhia il proprio
sangue, come liquore stagionato,
la vita, tutta la tua vita, idiota,
che si raggruma in qualche sorso. Sogni
che tu devi respingere, non fanno
che rallentare ciò che tu vorresti
immediato, improvviso, più veloce
di un fulmine, istantaneo come un lampo.
Finisce. Sì, finisce. La minaccia
di una continuazione mi spaventa,
qualunque essa mi giunga, da qualunque
parte, in qualunque modo, da chiunque?
Ridicolo aspettarla dal fantoccio
ch’io mi fingo mio interlocutore.
Come se dire, come se parlare,
perfino se in un giorno come questo,
senz’altri testimoni che la voce
stessa che parla, come se pensare,
o - anche - solo gemere, soffrire,
non ci fosse possibile che quando
qualcuno ascolta, ci risponde, fosse
questo qualcuno anche la nostra voce,
il nostro orecchio. L’interlocutore
di chi parla, nessuno lo ascoltasse,
è il suo stesso parlare. L’esercizio
della parola è un dialogo. S’inventa,
se non c’è, l’altro che si faccia voce,
ma soprattutto, che ci ascolti, muto.
Che cosa credi? Questo sei. Sì, questo:
una mia invenzione. No, nemmeno
la proiezione di un mio desiderio,
ma una solitaria, punitiva
invenzione. Una sorta di onanismo
mentale. Questo, sì, non altro. E dunque,
mio caro, non esisti. T’ho inventato,
in un momento in cui la fantasia
dormiva. E non mi sembri un’invenzione
originale, proprio no. Sei stato
già molte volte, da molti altri, in molte
occasioni, inventato. Troppe volte,
chi sa. Non fosse che la mia paura
ti rifiuta, ti dessi retta - come,
non lo so - ti lasciassi aperto il campo
della mia mente, tu che dici? allora
starei meglio? vivrei? la scamperei
da questo buco? e tu mi salveresti?
o morrei prima? e il modo del soccorso
il modo di salvarmi, proprio in questo
consisterebbe? che mi affretteresti
la mia fine? e mi precipiteresti,
finalmente, nel grande vuoto, dentro
quell’altro buco, dove scompariamo
tutti: il buco del tempo già trascorso,
del tempo che non è più tempo, il niente
che chiamiamo passato, ma ch’è solo
ricordo, e non ricordo di chi parte,
ricordo di chi resta, se qualcuno
c’è, per me, ci sarà, che mi ricordi.
e ricordando, tutto ciò che vissi
prenda per lui figura di passato?
Altra figura non si dà per noi,
in nessun modo, di sopravvivenza.
Questo, mi accresce o calma la paura?
Mi getta nell’angoscia o mi solleva
dal terrore del nulla in cui sprofondo?
Ma io voglio che sia nulla. O non lo voglio?
Ora che sento avvicinarsi il punto
del distacco, che sento dalle gambe,
su per le cosce, fino al ventre, fino
all’ombelico, quasi, intorpidirsi,
le trafitture del dolore, i nervi
farsi al tratto distesi, meno acuti,
come un addormentasi a poco a poco,
di tutti i sensi, ora che sopraggiunge
l’ora invocata, l’ora sospirata,
del mio definitivo annientamento,
ho paura, mi coglie smarrimento
del mio stesso smarrirmi, del mio stesso
finire e già sentirmi di finire.
Questo, è morire? Questo, ciò che invano
fino adesso, gemendo, rivoltando
uno per uno su se stessi tutti
i miei pensieri, vomitando grumi
di parole, imprecando, bestemmiando,
affondato com’ero nella mia
stessa pietà di me, nella miseria
di quella mia pietà, questo imploravo,
supplicavo, chiedevo, richiedevo,
esigevo, non so da chi, né come,
che per me finalmente si compisse?
ch’io cioè scomparissi, m’annientassi,
precipitassi nell’eterno niente
da cui veniamo e al quale tutti andiamo?
E adesso che comincia ne ho paura?
Il buio, ora, qua dentro, meno spesso
mi sembra. Credo di vedere il muro,
davanti a me, non più solo sentirne
l’odore, il tanfo, di salnitro, muffa,
piscio, sangue. Mi pare di vedere
qualcosa che si muove, un’ombra, il guizzo
di un’ombra, di una luce, sotto il naso,
davanti al naso, fino agli occhi - cazzo!
l’ho perso. No. Ritorna. Scende piano
fino al naso. Qualcosa che mi sembra
scendere, scivolare fino al naso.
Qualcosa di umidiccio, di molliccio,
una limaccia, credo di vederne
il dorso maculato. Viene lenta
verso il mio naso. Si protende, annaspa
nell’aria, ecco, mi tocca. Dai capelli
alla pianta dei piedi mi trascorre
il ribrezzo, vorrei morire in questo
punto. Un brivido fitto mi sconquassa.
Tremo tutto. La sento - dio, che schifo -
la sento scivolarmi sulle labbra.
E’ viscida, bavosa, puzzolente.
La mangiassi? Chi sa, la finirebbe
di tormentarmi. E io mi sentirei
finalmente qualcosa sotto i denti.
No, che schifo, non posso. Se volevo
mangiarmi anche la merda, prima! Devo
affrettarmi, lasciarla entrare dentro,
sì, dentro la mia bocca, devo fare
presto, prima che strisci via, che scappi,
che mi sfugga. La bocca, devo aprire
la bocca. Dio, non ci riesco. Dagli.
Solo uno sforzo. Scende. Se no, scende. -
Evviva! ce l’ho fatta. Che sapore
ripugnante. Sapore, in ogni caso.
Si muove ancora. Dentro la mia bocca.
Si muove tutta dentro la mia bocca.
La stritolo, la mastico, la spremo
e me la ingoio. La sto masticando.
E’ un animale impuro. Ma lo mangio.
Un animale impuro come i polpi,
come il maiale, come il pescecane,
come questa limaccia che si torce
sulla mia lingua, e sputa bava, quanta,
dio, quanta, che schifo, un animale
che non ha squame, senza peli, nudo,
sì, nudo come me qua dentro. Faccio
schifo anch’io, nudo, come questa cosa
che mi spappolo adesso nella bocca.
Sembra una gelatina. Disgustosa.
E’ finita. Sta ferma. Non si muove
ormai più. L’ho ridotta una poltiglia.
Me la ingoio, La ingoio. L’ho ingoiata.
Non è accaduto niente. Un po’ di schifo,
il conato d’un vomito, la fitta
dall’inguine alla bocca, per la bava
che mi sputava sulla lingua. Basta.
Non c’è nient’altro. Niente. Un segno. Un segno
di vita, di sopravvivenza, dentro
questo sepolcro. Ho sempre fame. Ho sete.
Lecco il muro. Sì, lecco il muro. Posso
mangiare una limaccia o forse solo
un enorme lombrico, l’ho mangiato,
perché non posso, non dovrei leccare
questo muro che puzza di escrementi,
che suda sangue, sa di muffa, cola
strisce di piscio e di salnitro? Cola
giù dall’alto, come una pioggerella,
come scolo di un rubinetto guasto.
Magari gli aguzzini, là di sopra,
ci vengono a pisciare, ce la fanno
per sfregio, sulle nostre teste, come
se pisciassero sulle nostre tombe.
E io lecco. Lecco, stronzi, anche la piscia
che mi pisciate in testa. Ho sete, e lecco,
ve la lecco sul muro, dai! pisciate!
Calmatemi la sete. Filtra, non so come,
una lama di luce. Su, dall’alto.
Chi sa, qualcuno, forse, dal di sopra,
sta tentando di aprire la mia cella,
di alzare questa botola e guardare
qua dentro. Forse lo stesso che prima
m’è sembrato sentirmelo pisciare
in testa. Gli vorrei sputare in faccia.
Vorrei gridargli: sono vivo, sono
ancora vivo. Mi ci sforzo. Devo
sforzarmi. Sono vivo. Sono ancora
vivo, stronzo. Se sei venuto solo
per questo, sono vivo, sono ancora
vivo, non sono ancora morto. Devi
aspettare, aspettare. Devi ancora
aspettare. Non sono morto. E’ troppo
presto. Il lavoro è stato fatto bene.
E’ lunga, come vedi, l’agonia.
Non posso dirti quanto può durare,
ma dura, come vedi, dura ancora.
Ciao! ci rivediamo. No. Non credo.
Noi non ci rivedremo. Potrai, forse,
tu rivedermi. Ma io no. Non posso.
Sarò morto. Sì: finalmente morto.
Finalmente per te. Ma finalmente
anche per me. Sarà finita. Tutto
no, per te. Ma per me, sì, tutto, tutto
finito. Che liberazione! Adesso,
vattene, stronzo. Lasciami morire
da me, senza nessuno. Solo. Solo
con me stesso. C’è sempre quella lama
di luce. Quando te ne vai? che aspetti?
Assassino, che guardi? che non muoio?
Muoio, muoio, non ti preoccupare.
Vattene. Mica per pietà. Non sai
tu, la pietà, che cosa sia. Non voglio
io vederti, non voglio, lo capisci?
E’ l’ultimo mio desiderio. Credo
che ai condannati si conceda. Dunque,
stronzo, vattene. Voglio stare solo.
Voglio morire solo. Non ti voglio
vedere. Non ti voglio più vedere.
Non ti vedrò. Non ti vedrò per sempre.
Oh, questa è beatitudine. Pensare
che il grugno di animali come voi
non lo vedrò mai più, mai più, per sempre.
Ma che cosa mi striscia, ora, sul muro,
davanti agli occhi? Si protende, tocca
la mia fronte, mi scivola sul viso,
striscia sul collo, scende, scende, scende.
Eccone un altro. Già mi lecca il braccio.
Un terzo mi formicola sul dorso.
Ma che cos’è? Mi punge. Uno scorpione?
una blatta? una scolopendra? un ragno?
Eccone un altro ancora. Quanti sono?
Me li sento già tutti scivolare
addosso. Me li sento sulla pelle
di tutto il corpo, lunghi, scivolare,
strisciare, umidi, grassi, appiccicosi,
e lambirla, leccarla, cento, mille,
altri pelosi, me li sento lievi
solleticarmi, rovistarmi tutto
il corpo, penetrarmi nelle orecchie,
dentro il naso, nel culo, stuzzicarmi
la bocca dell’uretra, morsicarmi
l’ombelico, i coglioni, morsicarmi
dappertutto, anche dentro, ragni, blatte,
che cosa sono, dio, che cosa sono?
quei pungiglioni velenosi sento
che si ficcano, vanno giù come aghi,
che la morsicatura resta, brucia,
mi prude. Aiuto! Sento il morso dentro
il culo, dentro le budella, sento
che fuori e dentro sono divorato!
Ma basta, basta, non resisto, basta.
Una fetta di lardo sulla terra
assaltata da file di formiche,
una goccia di miele risucchiata
dal ronzio fitto d’uno sciame d’api,
la carogna d’un topo rosicchiata,
lambita, penetrata, visitata,
abitata da cento, mille vermi,
che strisciano, si torcono, vivaci,
per tutto il corpo, affondano nel nero
liquame della decomposizione,
questo ora sono, e vivo ancora, prima
di morire, così sono mangiato. -
Mio Dio, fossi anche solo la figura
di questa mia disperazione, solo
un interlocutore immaginario,
chiamato adesso dalla mia paura,
Dio d’Abramo, d’Isacco e di Giacobbe,
Dio, aiutami, non abbandonarmi.
Dammi l’istante che non ha memoria,
l’istante delle bestie, l’occhio vivo
che guarda e vede solo l’immediato,
dona ai miei nervi scoperchiati e tesi
l’inconsapevolezza delle piante,
oppure no, sprofonda la mia mente
nell’inerzia insensata delle pietre,
come il muro che mi sta qui davanti,
che mi vede morire, ma non grida,
che assorbe il sangue d’ogni condannato
senza fremere, assiste all’agonia
senza muoversi, sano, intatto, senza
screpolarsi, né gemere incrinato,
soltanto qualche lacrima d’orina
e di salnitro, il sangue raggrumato
di quelli che qua dentro, soli, sono
morti, prima di me. Fa’ ch’io li segua,
senza pentirmi di lasciare il mondo.
Una voce martella la mia mente.
Ripete, mi ripete, con il suono
stesso della mia voce, nell’orecchio
mi ripete suadente, dolce, sempre
la stessa cosa. Non so se consiglio,
se invito, se ricordo, che cos’altro.
Sopra i banchi di scuola lo leggevo,
e piano sulle labbra il ritmo, il canto
di quei versi tra me mi ripetevo.
Era la voce di un grande poeta.
Del poeta, anzi, che da quei lontani
giorni di scuola, m’è rimasto sempre
compagno, sempre amico, nell’orrore
della barbarie che mi depredava
della mia terra e della sua lingua: Goethe.
Con Beethoven, per me, l’unica voce
che credo, voglio credere tedesca.
Quei versi è Faust a dirli: è solo, adesso.
Lui che voleva tutto, adesso è solo.
Perché ritorna, e perché ora mi parla,
ripete, mi ripete, questa voce,
l’invito che bambino già cresciuto
leggevo sopra i banchi della scuola,
e già m’impressionava, mi smarriva,
mi lacerava dentro, come fosse
non di Faust quel lamento, ma mia voce,
un invito, un consiglio, che cos’altro,
un ricordo, il ricordo di me stesso
bambino che leggevo il mio ricordo?
Rinunciare. Nient’altro. Rinunciare.
E sia! del resto, che altro posso fare?
La mente che si spappola, il cervello
che s’annacqua. Morire, non è questo.
Questo è guardarla, prima di morire,
la morte che si muore. Già mi vedo
liquame. Già mi sento putrefatto.
Penso dentro il cadavere che sono
diventato. Non mi spaventa. Sogno.
Sogno di sopravvivere a me stesso
come altra cosa. Il corpo si distacca
dalla mente, si fa materia inerte,
che fermenta di nuove vite. Tutte,
più di me necessarie, perché vive.
Aspetto che si faccia, finalmente,
silenzio. Ch’io mi perda, ch’io mi senta
perdere, ch’io mi strappi da me stesso,
e che, così strappate, le due parti
di me non si conoscano, che l’una
non riconosca l’altra, che la mente
scompaia, si svapori nel cervello
che si sfascia, nel cranio che contiene
ormai una poltiglia che marcisce,
una materia che si decompone,
e il corpo, finalmente solo, vada
per la sua strada, si consumi poco
per poco, e poi si assimili alla terra.
Essere niente. Finalmente niente.
Come prima che il seme di mio padre
fecondasse mia madre. Come prima
che il primo uomo fosse concepito.
Come prima che il primo essere vivo
lasciasse il mare e poi strisciando, alzando
il capo, protendendo piccoli arti
dai fianchi, cominciasse a scorrazzare
per il mondo, abitare le foreste,
le pianure, fuggire nelle grotte,
scappare dalle belve, dai nemici,
sulle paludi, dentro le capanne.
Non l’avesse, quel capo, sollevato
mai dalla terra. Non avesse il primo
essere vivo mai lasciato il mare.
Non si fosse divisa mai la prima
cellula e l’universo rimanesse
un’esplosione inutile di stelle.
Ma tutto, infine, si ricondensasse
in un piccolo, denso, buco nero.
Solo allora potrei forse chiamarti
Dio d’Abramo, d’Isacco, di Giacobbe.
Coinciderebbe, finalmente, il tuo
silenzio col silenzio d’una fossa,
dove la luce non entra, non esce.
5.
L’uomo sembra ora inerte, il capo reclinato quanto lo permette la ristrettezza della cella. Per tutta la scena, non si muove più. Piano piano si fa più buio. Alla fine la sua figura scompare, e si ode solo la sua voce, che si affievolisce a poco a poco fino a svanire.
L’UOMO Uscire. Quando sono entrato? Forse
io sto davvero uscendo. Da che cosa?
per penetrare, dove? o - penetrato? -
E’ buio. Sempre buio. Anzi, mi sembra,
ora ancora più buio. - Penetrare?
In quale parte? fuori della fossa?
del campo? quale la baracca? fuori?
Sto andando fuori, fuori dall’inferno,
fuori dal campo? è vero? è proprio vero?
Sì, che bello. Sto morendo. Vivo? Dunque
finisce qui. Che - io - ne - sto - uscendo.
Ne sono uscito. Sono penetrato.
In un altro dominio, un altro spazio.
penetrato, ma sì. Cammino. Posso
muovermi. Sì, mi muovo. Penetrato.
Dove? da chi? Non io. Nessuno passa
qui dentro. Ma perché dico “qui dentro”?
Fuori. Sono già fuori. Uscito. Questo
non è più, come prima, il buco, dove
io, come un chiodo, stavo conficcato,
il buco in cui non entra mai la luce,
da cui non esce. Sono uscito. Sono
uscito, finalmente. Sento freddo.
Fa più freddo qua fuori. Io, sono uscito.
E adesso? Vado. Penetro. Che cosa?
Dove? Ma se sto fermo. Attraversato.
Attraversato da me stesso, in tutto
il corpo, attraversato dalle mie
ossa, un osso nell’altro conficcato,
un osso dentro l’altro attraversato.
No, forse attraversando. Attraversando,
certo. Sì, attraversando nuovi luoghi,
nuovi spazi, altri mondi. Quali mondi?
di quale mondo? forse di me stesso?
mi attraverso? attraverso ora il mio corpo?
sono me che attraverso, non so come,
me stesso? col pensiero? con la mente?
o per davvero il corpo, questo corpo
che non mi sento più, che sembra quasi
ora il corpo di un altro, che si stacca,
che mi sembra staccarsi, che lo sento
già staccato da me, davvero il corpo,
questo mio corpo, si divide, spacca,
s’attraversa, si penetra, si squarcia?
Squarciato da me stesso. Non c’è male.
Come ho fatto? da quale parte? in quale
parte di me? di chi, se no? Che noia.
Io … no … non attraverso … resto … fermo…
penetro … forse … penetro me stesso …
ora mi sto … sì … mi sto penetrando …
mi … sono … penetrato … morto? … vivo? …
FINE
Amorgós, 12 - 16 luglio 1997.
Prima revisione e copiatura, Roma, 28 luglio - 2 agosto 1997.
Seconda revisione, Venezia, 1 - 31 ottobre 2004.
1 La nudità completa dell’attore rispetta la condizione reale del deportato condannato dalle SS alla cella della morte. Ma qualora tale nudità impedisse all’attore una piena padronanza dei gesti e della voce, ostacolasse la naturalezza della recitazione, oppure costituisse comunque un impedimento alla messa in scena o per riserve della censura o in considerazione dell’atteggiamento magari ostile del pubblico, degli stracci laceri possono coprire in parte il corpo dell’attore, forse perfino con risultato visivo più intenso ed efficace della nudità integrale, che in ogni caso resta la scelta ideale. Quanto alla recitazione, i versi non vanno assolutamente declamati, ma detti con estrema naturalezza, come fossero prosa, seguendo le pause e i respiri della punteggiatura. Il ritmo del verso è già marcato dalla scansione dei suoi accenti, non c’è pertanto bisogno di evidenziarlo con artificiosa dizione.
2 Salmo XXII, 2. La numerazione dei salmi è quella della Bibbia ebraica.
3 Salmo LXIX, 22.
4 Giovanni, XIX, 34. Salmo XXXIV, 21: “Custodit omnia ossa eius. Non confringetur ne unum quidem”. L’allusione evangelica, e ancor più, quella al salmista, è amaramente ironica.
5 “ ‘Questa malattia non è mortale’ (Io., 11, 4). Eppure Lazzaro morì…” , Soeren Kirkegaard, La malattia mortale, Introduzione, traduzione italiana di Cornelio Fabro, in Soeren Kirkegaard, Il concetto dell’angoscia / La malattia mortale, Firenze, Sansoni, 1953, pag. 209. Come sanno tutti i lettori di Kirkegaard, la malattia mortale è la disperazione.
6 “La nostra anima è gettata nel corpo, dove essa trova numero, tempo, dimensione”, Blaise Pascal, Pensieri, 233, traduzione di Vittorio Enzo Alfieri, Milano, Rizzoli, 1952. E’ il famoso pensiero sulla scommessa intorno all’esistenza di Dio.
7 Espressione con la quale Robert Musil designava il collegio militare in cui aveva studiato, e rappresentato nei Turbamenti del giovane Törless.
8 Fu uno dei primi tentativi di sterminio: l’invenzione era dei tecnici della Opel.
9 Si faccia sentire forte l’aspirazione dopo la zeta.
10 Itzhak, filologo classico, si riferisce alla famosa risposta di Antigone a Creonte, che le ingiungeva di amare gli amici e di odiare i nemici: “Non a condividere gli odi, ma gli amori, è la mia natura”.
11 Da un famoso coro dell’Edipo a Colono.
12 Salmo LII, 3, 7. Ma anche i due versi seguenti sono una libera rielaborazione di passi dei salmi.
13 Qoelet, più noto con il titolo greco di Ecclesiaste, che ha lo stesso significato del titolo ebraico: colui che parla all’assemblea, il predicatore. L’autore si presenta come Salomone, figlio di David, ma è un artificio letterario, perché in realtà scrive nel III sec. a. C., dunque circa 700 anni dopo il re Salomone. Il suo inizio è diventato proverbiale: “Vanità delle vanità, dice il Predicatore, vanità delle vanità, tutto è vanità”.
14 Tutta questa parte del monologo è intessuta di echi dall’Ecclesiaste, IV; Giobbe, III, XXXVIII; Salmo LXXXVIII.