Martín Caparrós, Echeverría,
Barcelona, Anagrama, “Narrativas hispánicas”, 2016, pagg. 372
“Es
cierto: hay momentos en que las mayorías dejan de conservar y
cambian todo. O un poco. Pero suele ser porque hay minorías que
pensaron mucho antes lo que ellos hacen entonces. Es antipático, es
elitista, es la hisotria”. (pag. 233)
(E’
certo: ci sono momenti nei quali le maggioranze smettono di
conservare e cambiano tutto. O un poco. Ma suole accadere perché ci
sono minoranze che pensarono molto prima ciò che essi fanno allora.
E’ antipatico, è elitario, è la storia).
El
destino de la Argentina es hoy extremadamente incierto. Los problemas
acumulados son enormes y su fragilidad como sociedad es manifiesta.
Existe una evidente necesidad de un liderazgo político
consecuente
que pueda, de maneras social y moralmente aceptables, profundizar las
importantes reformas iniciadas en la primera mitad de la década de
los 90. La Argentina necesita más que nunca una economía de mercado
abierta, dinámica y moderna. Su maldición ha sido un capitalismo
de
invernadero, corrupto y corporativo, parte de una sociedad sumida en
conflictos redistributivos y una lucha fratricida por las prebendas.
Pero un liderazgo así brilla por su ausencia en el seno de una clase
política profundamente desprestigiada y un país que ha perdido la
confianza en sí mismo.
(Mauricio
Rojas, Historia de la crisis argentina, Buenos Aires, Cadal,
2003)
(Il
destino dell’Argentina è oggi estremamente incerto. I problemi
accumulati sono enormi e la sua fragilità in quanto società è
manifesta. Esiste una evidente necessità di leadership politica
coerente che possa, in modi socialmente
e moralmente
accettabili, approfondire
le importanti riforme iniziate nella prima metà della decade degli
anni ‘90. L’Argentina ha bisogno
più che mai di un’ecomnomia di mercato aperta, dinamica e moderna.
La sua maledizione è stata un capitalismo di serra, corrotto e
corporativo, parte di una società sprofondata in conflitti
redistributivi e in una lotta fratricida per le prebende. Ma una tale
leadership brilla per la sua assenza nel corpo di una classe politica
profondamente discreditata e di un paese che ha perduto la fiducia in
sé stesso).
Le
due citazioni, la prima dal romanzo di Caparrós,
Echeverría,
la
seconda da una storia recente della storia recente dell’Argentina,
riassumono molto
bene
l’impatto che il romanzo può suscitare in chi lo legga, di
confronto tortuoso, sofferto, angoscioso con l’oggi, attraverso il
racconto della vita di un scrittore che assiste alla nascita di una
nazione, la propria. Caparrós,
del resto, non è nuovo a scritture che turbino il lettore, e lo
costringano a misurarsi con temi umani, sociali, politci
sconvolgenti.
Nel
1810 in
Argentina,
fino allora Vicerreinato del Rio de la Plata, nell’ambito
dell’immenso Impero spagnolo , il 25 maggio, a
Buenos Aires, una rivoluzione caccia il Viceré. Quella
piazza sarà appunto chiamata Plaza de Mayo. Segue
una guerra condotta dal Generale José de San Martín
che libera l’Argentina, il Chile e il Perù, e nel 1816 a Tucumán,
nel nord del paese, il governo appena
insediato dichiara
la
propria indipendenza dalla Spagna.
Esteban
Echeverría,
lo
scrittore, il primo scrittore argentino, intorno alla cui figura è
intessuto il romanzo (sarebbe come per un russo scrivere un romanzo
su Puškin,
fatte le dovute distanze sulla statura dei due scrittori)
nasce a Buenos Aires nel 1809 e muore a Montevideo, sembra
per un collasso cardiaco,
nel 1851. E’ bambino quando vede nascere
la Repubblica Argentina,
ha solo
7
anni. Il padre combatte nell’esercito di
liberazione guidato
da San
Martín,
Nel
1829, però,
Juan Manuel de Rosas, dopo
anni di turbolenza politica,
si fa nominare Restaurador de
las Leyes e Instituciones de la Provincia de Buenos Aires
(restauratore
delle leggi e istituzioni della provincia di Buenos Aires) e con
questo nome di Restaurador
amerà farsi chiamare in seguito. Echeverría
ha 20 anni. Va a studiare in Francia. Quando torna, nel
1831,
Rosas è
al
potere da due anni, e nel 1835 diventa il Dittatore, il Tiranno,
l’oggetto
del suo odio, della sua rivolta insieme
morale e politica.
Sta
qui il senso della sua scrittura intesa anche come azione politica,
nell’indignazione morale che si fa lotta civile e politica.
Indubbiamente un afflato romantico lo muove, ma ci s’innamora
subito di una figura di scrittore qome questa. Quanto
a me, lo conobbi nei miei primi studi al Colegio (Liceo) di Bahía
Blanca, quando la mia famiglia viveva in Argentina, perché mio
padre, matematico, erastato chiamato dall’Università de La Plata a
fondare la cattedra di geometria anlitica nelle sedfe distaccata di
quella città. E me ne innamorai subito.
Echeverría
vede
presto
naufragare nella dittatura militare di Rosas il sogno illuministico e
romantico di una nuova Nazione democratica, governata dal popolo
attraverso una élite intellettuale di scrittori e
scienziati. Era
quasi la prova generale di come sarebbe in seguito andata la storia
argentina. Nella
storia argentina, di fatti, anche
nei momenti peggiori, molti
intellettuali si votano alla politica per porre
in atto
un
programma di democrazia radicale. Lo
faranno
Bartolomé Mitre, Facundo Sarmiento, scrittori e Presidenti della
Repubblica.
Lo
faranno dopo la morte di Echeverría,
che
non riuscirà a vedere la sconfitta di Rosas
e la sua
cacciata. Ma
su Rosas
ancora oggi gli argentini sono divisi, con un’opinione di destra
che lo vede veramente
quale
lui si vide,
un Restauratore, di fatto, coll’esperienza
del poi,
un anticipatore di Videla, e in
opposizione, invece, una
tradizione democratica, di
cui con strana contraddizione fanno parte anche i
peronisti
(ma su Perón
e il peronismo il discorso è complesso),
che lo esecra e vede anzi in
Rosas
il modello di tutte le successive catastrofi argentine. Per alcuni,
nella
catastrofe antidemocratica, è compreso
Perón.
E
Caparrós
vede anzi, credo
giustamente,
in Echeverría una sorta di antiperonista ante litteram. Soprattutto
per lo splendido racconto- saggio intitolato El
matadero,
il mattatoio, nel quale si descrive senza edulcoramenti la ferocia
delle masse aizzate contro
i democratici da
un demagogo che ne scatena le paure e le rabbie primordiali. Il
parodosso, infatti, della dittatura di Rosas non era tanto che a
sostenerla fosse il favore dei latifondisti, con
l’appoggio tra le potenze straniere, dell’Inghilterra, ma
che godesse di un imenso favore popolare, visto
dalle masse, appunto,
come il Restauratore dell’Ordine e della Legge e,
incredibilmente, della Giustizia sociale.
La
casa degli
Echeverría si trovava accanto al mattatoio di Buenos Aires, la
Aldea, il villaggio, come chiama Echeverría la
città sul Rio de la Plata, confrontandola
idealmente con Parigi,
e come
ripete Caparrós. Lo sgozzamento degli animali si fa così
metafora di un popolo massacrato. Come
nel poemetto La
Cautiva,
la prigioniera (e
non è senza significato il termine colto, il calco latino,
a
indicare un distanza tra la realtà e come dovrebbe invece essere
quella realtà – scrivendolo, mi accorgo di quanto amo questo
poeta),
la prigioniera, è manifestamente il popolo argentino. Ai suoi tempi
Echeverría
era famoso soprattutto
per
le sue raccolte di poesia. Una sorta di Lamartine o
di Musset
argentino. Certo, il lato più interessante è proprio
l’invenzione di una lingua che si distacchi da quella della
madrepatria spagnola, “el
castellano” come si parla e si scrive nella regione del Rio de la
Plata.
E su questa strada davvero Echeverría
costituisce il modello della
letteratura argentina,
apre la strada alla scrittura particolare degli scrittori argentini,
non solo diversi dagli scrittori spagnoli, ma anche dagli altri
scrittori di lingua castigliana dell’America Latina. Senza di lui
un Borges, un Cortázar
sarebbero impensabili.
L’ossessione
di
Echeverría
è,
infatti,
come fondare la cultura di un paese nuovo, che
nasce alla democrazia, che vuole essere democratico, contro le forze
sociali e politiche che cercano di fare naufragare questo progetto,
in poche parole come fondare la cultura di
una Nazione ancora in fieri. Non
è solo un’aspirazione illuministica e romantica, affonda le sue
pretese addirittura nell’idea greca di democrazia.
Perché una Nazione non nasce senza una cultura nuova, una cultura
sua. E i modelli allora andranno cercati non nella madre patria
spagnola, bensì nella Francia illuministica e romantica,
nell’Inghilterra democratica.
E’
una vita profondamente tragica, quella di Esteban Echeverría.
Il romanzo comincia con la descrizione di un giovane diciottenne
che ha in mano una rivoltella. Il giovane guarda l’arma per 40
pagine. Ripercorre la propria infanzia, il ricordo labile del padre,
la presenza dolorosa, ma ossessiva, della madre, la
ragazza che ha scopato e resa incinta.
Quell’amore
inconsapevole che mette incinta una ragazza lo
distrugge, gli manifesta l’immaturità alla vita.
La ragazza viene allontanata, muore dopo
il parto: ha 14 anni, come Giulietta.
Nascerà una figlia, che il padre, anche
lui quattordicenne,
accoglierebbe,
ma
che la famiglia tiene lontana.
Maturo
e autonomo, Esteban accoglierà la figlia. Lo
sparo della rivoltella non parte. Entra in scena un’altra donna, La
figlia di uno schiavo nero (in
spagnolo i neri sono chiamati negri, perché nero si dice negro, e
dunque la parola negro non ha nessuna connotazione negativa, perché
significa semplicemente nero, e noi anche traducendo, scriveremo
negro).
Esteban
obbliga il fratello, la cognata, tutta la famiglia, a sedersi a
tavola con lei, quando per fuggire le persecuzioni di Rosas è
costretto a rifugiarsi nella casa del fratello, lontano dall’Aldea,
dal villaggio. La sua idea di Nazione, di paese, di popolo non
contempla differenze di rango, di razza, di idee, e
non esclude nessun cittadino, salvo
i dittatori, i fautori della dittatura. Che
è una riformulazione sudamericana degli ideali mazziniani, così
bene espressi nella Costituzione della Repubblica Romana, il che bene
dimostra le relazioni del pensiero politico di Echeverría
con il pensiero più radicale dei democratici europei.
Echeverría
è
alla fine, però,
costretto a rifugiarsi nella non troppo lontana Montevideo,
dall’altra sponda del Rio de la Plata. La
partecipazione ai movimenti di resistenza alla dittatura di Rosas si
è dimostrata fallimentare. Echeverría
riflette persino
sulla eventualità che un pensiero autenticamente democratico sia
destinato al fallimento nel gioco politico delle potenze non solo
continentali dell’America
Meridionale,
ma mondiali: l’Inghilterra appoggia Rosas.
Più
che un’appendice, Montevideo
è
un’altra faccia di Buenos Aires. Dove si parla la stessa lingua,
il porteño,
la
lingua del Porto.
E
ancora oggi Montevideo assomiglia a ciò che era Buenos Aires, nel
primo Novecento.
Pochi sanno, fuori di chi vive in quelle terre, che uno dei tanghi
più famosi della storia del tango, La Cumparsita, è nato a
Montevideo, non a Buenos Aires.
Il
romanzo di
Caparrós
è tutto un lungo monologo interiore. Ma raccontato in terza persona.
La sintassi ne è insieme condizionata e ne determina il percorso.
Uno pensa che la terza persona sia la persona della narrazione
oggettiva e la prima persona quella del monologo. No, qui la persona
del monologo è una terza persona per così dire impersonale.
“Después,
muchos años después, entenderá que lo más insoportable de los
muertos es que están en todas partes. Que un vivo cuando está vivo
está sólo en el lugar
en el que está: que un muerto, como no está en niguno, se hace
preente en todos”. (pag.
180)
(Dopo,
molti anni dopo, capirà
che la
cosa più insopportabile dei morti è che stanno
dappertutto. Che un vivo quando è vivo sta solo nel posto in cui
sta: che
un morto non sta in nessuno, si fa presente in tutti)
La
morte è una presenza continua, un rimorso continuo. Del padre, della
madre, della madre di sua figlia, dei morti ammazzati dal dittatore,
dalla folla incanaglita dal dittatore. Ma che cosa ha a che fare la
scrittura con tutto questo, con il popolo che non ne sa niente, che
non legge niente? E perché una nuova scrittura dovrebbe fondare una
Nazione, costituire la sua coscienza, se il popolo della Nazione se
ne frega, non ne vuole sapere?
“Tras
aquella noche en que no pudo o no supo o no quiso suicidarse,
Echeverría
decidió dar un giro radical a su vida. Quiso volverse una persona de
provecho; tenía dieciocho años, mala fama, poco fondos y ciertas
inquietudes: entró al Colegio de Ciencias Morales, un intento nuevo
de establecer una institución educativa de cierta excelencia;
allí aprendió
latines, filosofía, gramática francesa, algo de física e de
matemáticas, un poco de gimnasia y de dibujo junto a los muchahos
más distinguidos de la Aldea – y eran más las horas de clase que
pasaban fuera que dentro de las aulas. En la más concurrida, la del
doctor Fernández de Agüero, se enseñaba a los alumnos a dudar de
dios, y algunos se quejaron”. (pag.
43)
(Dopo
quella notte nella quale non poté
o non seppe o non volle suicidarsi, Echeverría
decise
di dare un giro radicale alla propria vita. Volle diventare una
persona di profitto; aveva diciotto anni, cattiva fama, poco denaro e
certe inquietudini: entrò nel Liceo di Scienze Morali, un’intenzione
nuova di
stabilire un’istituzione educativa di una certa eccellenza; lì
imparò latino, filosofia, grammatica francese, qualcosa di fisica e
di matematica, un po’ di ginnastica e di disegno insieme ai ragazzi
più distinti del Villaggio – ed erano più le ore di classe che
passavano fuori che dentro le aule. Nella più frequentata, quella
del dottor Fernández
de Agüero, si
insegnava agli allievi a dubitare di dio, e alcuni si lamentarono).
Echeverría
finisce per dubitare anche del proprio ruolo di scrittore. Di
scrittore che fonda la cultura di una Nazione che sta sorgendo.
Pensa,
mentra
l’amante nera si allontana,
al 1822, quando lasciò
morire la madre bambina,
bianca,
di
sua figlia.
“Él
no es aquél, no debe ser aquél, pero quizá lo sea.
Teme
1822, no poder ser como los otros, no soportar como los otros, estar
loco, la pendiente en principio y deslizarse, teme que no haya fondo,
teme que haya.
-
¿No le parece que son margaritas a los chanchos?
-
¿Qué dice?
-
Digo publicar mis poemas. Si no son margaritas a los chanchos. O,
como dicen los franceses, perlas.
-¿Perlas?
-
Sí, a los chanchos, perlas.
-
¿Perlas o margaritas?
-
Margaritas o perlas.
-
No, Estevan, es lo que corresponde.
Noches
en
que se despíerta con el corazón en la boca. Ha
oído esa frase alguna vez – por más que lo intenta, no recuerda
donde oyó esa frase alguna vez -, que describe las traiciones de su
cuerpo como ninguna otra: vive – sabe que vive – con el corazón
en la boca, con el miedo constante de perderlo”. (pag.
132)
(Lui
non è
quello,
non deve
essere quello, ma chi sa, forse lo è.
Teme
1822, non poter essere come gli altri non sopportare come gli altri,
essere pazzo, la
china
all’inizio e svincolarsene, ha
paura che non ci sia fondo, ha paura che ci sia.
-
Non le pare che sono margherite ai porci?
-
Che dice?
-
Dico pubblicare le mie poesie. Se non sono margherite ai porci. O,
come dicono i francesi, perle.
-
Perle?
-
Sì, ai porci, perle.
-
Perle o margherite?
-
Margherite o perle.
-
No, Estevan, è ciò che corrisponde.
Notti
nelle quali si sveglia con il cuore in bocca. Ha sentito quella frase
qualche volta – per quanto ci si sforzi, non ricorda dove ha
sentito quella frase qualche volta -, che descrive i tradimenti del
suo corpo come nessun’altra: vive – sa di vivere – con il cuore
in bocca, con la paura costante di perderlo).
Il
riferimento è alla frase evangelica
(Matteo, 7, 6) “Nolite proicere margaritas
ante porcos”, non gettate le perle ai porci. Margarita in latino è
grecismo per perla.
Per
le strade c’è una rivolta di “rosistas”. Il
dialogo in porteño.
“-
¡Traidor,
malditos,
hijos de una gran puta, salvajes unitarios!
Echeverría
mira alrededor: miles y miles en plena gritería. Viva la Federación,
Qie viva el Restaurador, el júbilo de tantos. Ellos también sono un
azar. A ninguno de ellos le importan sus poemas, sus discursos, sus
ideas – y son los hijos de esa tierra que le importa pintar, hacer
con sus palabras: son los dueños de esa tierra, sus personajes, sus
lectores incluso alguna vez,y son lo más lejano.
Lo
más cercano de lo más lejano, lo más.
.-
Hijodeputa.
¿No serás uno de esos salvajes, vos? A ver, cajetilla, a ver como
gritás viva la Federación. Dale, gritá, malandra.
Seis
muchachos lo rodean: cuatro emponchados pelo largo, bigotes con las
puntas hacia abajo, sombreros bien calados, y dos negros fuertes,
bien alimentados. Un empochado, parece ser el jefe:
-Vamos,
salvaje, vamos. A ver como gritás, salvaje, o te hacemos una boca
nueva.
Dice
el jefe, saca un cuchillo de la faja; sus compañeros lo acompañan
con más gritos. Echeverría mira alrededor, no ve socorro. Se le
cruzan por la cabeza párrafos que ha escrito: “pensar es un crimen
para ellos; detestar la opresión, insolencia ...” Pero no puede
ser por eso; éstos no pueden saber: alcanza con verlos para saber
que no pueden saber. Oye un grito:
-¡Lorenzo!
Un
negro se da vuelta, los demás le siguen la mirada: Candela – falda
rojo punzó, camisa blanca, su rebozo rojo – se acerca casi
majestuosa.
.
Déjalo, Lorenzo, es una buena persona. Es un cajetilla pero buena
persona”. (ágg.202-203)
(
- Traditore, maledetti, figli di una gran puttana, selvaggi unitari!
Echeverría
si
guarda intorno: mille e mille in furore di grida. Viva la
Federazione, Che viva il Restauratore, il giubilo di tanti. Anche
loro sono un caso. A nessuno di loro gl’importano le sue poesie, i
suoi discorsi, le sue idee – e sono i figli di quella terra che
gl’importa dipingere, fare con le sue parole: sono i padroni di
quella terra, i suoi personaggi, i suoi lettori perfino qualche
voltam e sono quanto c’è di più lontano.
Quanto
c’è di più vicino del più lontano, del più.
-
Figliodiputtana. Non sarai uno di quei selvaggi, te? Vediamo, figlio
di papà, vediamo come strilli viva la Federazione. Dai, strilla,
teppista.
Sei
ragazzi lo circondano: quattro con il poncho, capelli lunghi, baffi
con le punte all’ingiù, i cappelli tirati bassi, e due negri
robusti, ben nutriti. Uno con il poncho, sembra essere il capo:
-
Andiamo, selvaggio, andiamo. Vediamo come strilli, selvaggio, o ti
facciamo una bocca nuova.
Dice
il capo, tira fuori un coltello dalla guaina;
i suoi compagni lo accompagnano con più grida. Echeverría
si
guarda intorno, non vede aiuto. Gli attraversano la testa paragrafi
che ha scritto: ‘pensare è un crimine per loro; detestare
l’oppressione, un’insolenza … ‘ ma non può essere pèer
quello; costoro non possono sapere: gli basta vederli per sapere che
non possono sapere. Sente un grido:
-
Lorenzo!
Un
negro si volta, gli altri seguono il suo sguardo: Candela – gonna
rosso vivo, camicia bianca, il suo scialle rosso – si avvicina
quasi maestosa.
-
Lascialo, Lorenzo, è una brava persona. E’ un figlio di papà ma
brava persona).
Candela
è la figlia dello schiavo nero, è l’amante di Esteban (che il
popolo chiama Estevan).
Il
romanzo assesta un pugno nello stomaco ad ogni pagina.
Sta
parlando dell’Argentina di due secoli fa, e in realtà sembra che
parli dell’Argentina di oggi. Ma parlando dell’Argentina parla in
realtà del mondo di oggi. Noi italiani potremmo riconoscerci in
queste pagine.
“Pero
a veces, muy de tanto en tanto, se olvida de verdad. Apagan el
candil, cierra los ojos, se pierde en esos besos y se olvida de todo:
se olvida de que la negra es una negra, de que nunca va a saber si lo
quiere o se resigna, de que quererla no significa nada, de que no es
una mujer que pueda volverse su mujer, de que está solo, de que
quiso ser el poeta de un país sin poesia … “ (pag.
297)
(Ma
a volte, molto raramente, dimentica per davvero. Spengono la lampada,
si perde in quei baci e si dimentica di tutto: dimentica che la
negra´una negra, che non saprà
mai se
lo ama o si rassegna, che amarla non significa niente, che non è una
donna che possa diventare sua moglie, che è solo, che ha voluto
essere il poeta di un paese senza poesia … )
Il
senso è forse qualcosa che riguarda tutti, non solo Esteban
Echeverría.
Riguarda
la condizione umana.
“La
ausencia entonces, como su forma más
acostumbrada, su presente continuo.
La
ausencia como una condición”.
(pag. 136)
(L’assenza
allora, come la sua forma più
abituale, il suo presente continuo.
L’assenza
come una condizione).
L’esilio?
Ma una volta davvero in esilio, non gli appare come una condizione
estranea, bensì come la condizione
“Estaba
equivocado. Ahora sabe
que
estaba equivocado: el destierro
no
es la muerte, es
un
tiempo que no sigue
los
èordenes del tiempo”. (pag. 323)
(Si
era sbagliato. Adesso sa
che
si era sbagliato: l’esilio
non
è la morte, è
un
tempo che non segue
gli
ordini del tempo).
“El
tiempo, en su deorden”. (pag. 359)
(Il
tempo, nel suo disordine).
Ma
quando arriva davvero il confronto con la morte, capisce. Sa.
“Y
que lo
más importante que le va a pasar en la vida es una tontería: un
resbalón, un ahogo, un golpe de sangre, el corazón que no resiste.
Días,
noches, más días en que se queda casi escondido: arrinconado.
Y
más y más piensa en su nuerte, intenta imaginarla. Un día entiende
che lo espantoso, lo realmente aterrador, es que no hay nada que
imaginar: nada de nada. Y que incluso la palabra nada es un abuso de
lenguaje”. (pagg. 361-362)
(E
che la cosa
più importante che gli va a succedere nella vita è una sciocchezza:
uno scivolone, un soffocamento, uno sbotto di sangue, il cuore che
non resiste.
Giorni,
notti, e ancora giorni nei quali resta quasi nascosto: accantonato.
E
sempre di più pensa alla propria morte, si sforza d’immaginarla.
Un giorno capisce che lo spaventoso, il realmente terrificante, è
che non c’è niente da immaginare: niente di niente. E che incluso
la parola niente è un abuso di linguaggio).
Libro
tristissimo! Ma che scava nel profondo, che ti rovescia il cervello
come un guanto, ti disordina i pensieri. La lezione dei labirinti di
Borges è introiettata, diventa esperienza dell’oggi. Anche se per
guardare quest’oggi “aterrador”, terrificante, usa lo sguardo,
e la lingua, di uno scrittore del primo ottocento, che vuole essere
lo scrittore di un paese che nasce e si accorge che quel paese nasce
già con tutti gli orrori degli altri paesi che hanno alle spalle
secoli, millenni di altri orrori. Anche la parola “niente” è un
abuso di linguaggio.
Amarissima
la conclusione.
“Echeverría
había inaugurado una tradición argentina: que sus grandes
escritores mueren lejos. La respetaron, a través de los años,
Sarmiento, Alberdi, Mansilla, Güiraldes, Cortázar, Lamborghini,
Borges, Puig, Saer, Gelman. En 1922 su hija, Martina Echeverría
viuda de Fernández, se extinguió sin
dejar descendencia. En 1951, a cien años
de su muerte, su Matadero
seguía leyéndose y su Cautiva
citándose y su nombre nombraba una calle de cada ciudad de ese país
donde vivió tan poco”.
(Echeverría
aveva inaugurato una tradizione argentina:
che i suoi gradi scrittori muoiono lontano. La rispettarono,
nel corso degli anni, Sarmiento, Alberdi, Mansilla, Gúiraldes,
Cortázar, Lamborghini, Borges, Puig,
Saer, Gelman. Nel 1922 sua figklia, Martina Echeverría
vedova di Fernández, si estinse senza lasciare discendenza.
In 1951, a cento anni dalla sua morte, il suo Mattatoio si
continuava a leggere e la sua Prigioniera citandosi e il suo
nome nominava una strada di ogni città di quel paese dove visse così
poco).
Spero
che presto a qualche editore italiano venga la voglia di tradurlo e
di pubblicarlo questo straordinario romanzo. Insegnerebbe
ai lettori italiani e anche, forse, agli scrittori italiani, che al
di là delle mode, degli ammicchi, degli argomenti accattivanti,
esiste un corpo a corpo della scrittura con
la storia, con la realtà,
che forse gli scrittori italiani
di oggi,
o molti di essi, hanno dimenticato, tralasciato. Si può raccontare
la breve esistenza di uno scrittore disorientato che disorienta, che
continua a disorientare ancora oggi, perché cerca il collegamento
tra la propria scrittura e il paese, il popolo del quale e per il
quale scrive e questo collegamento non lo trova, percepisce
un’assenza, riscontra un soffocamento, uno sbotto di sangue, perché
di ciò che scrive al suo paese, al suo popolo non gliene frega
niente. E lui allora racconta questo niente. Chi conosce lo spagnolo
si affretti a leggerlo, questo romanzo, chi non lo conosce, faccia
pressione sui timidi e poco coraggiosi editori italiani, perché lo
pubblichino. Spero che ciò succeda. Gli italiani conosceranno uno
scrittore che non lascia indifferenti. Sono
già stati pubblicati da Einaudi e Ponte alle Grazie altri libri di
Caparrós. Questo è forse il suo capolavoro. Pubblicatelo!
Fiano
Romano, 27 aprile 2019