lunedì 20 settembre 2021

Un addio a Sylvano Bussotti

 




Per la morte di un elfo


A Sylvano


Avuto non avrebbe Hermes volo

con il calzare alato più leggero

del tuo, Sylvano, che volavi lieve

con mille ghiribizzi tra le righe

del pentagramma, e che con riso aperto

tra sete e rasi sulla scena al tuo

governo si vedevano danzare

Ariele e Talibano, e le tempeste

sedate del dolore, un isolato

paradiso mostrava a chi dimora

ancora nell’inferno, musicale

passaggio nel reame della gioia.

Un transito dal qui in altro luogo,

il tuo, che ora vorrei da te raggiunto,

ma era invece sempre il nostro, un solo

unico viaggio tra le sole vere storie

della vita, che sono sempre ancora

le storie di passioni. Addio, perduto

elfo dei canti, addio, inafferrato

demonio dei piaceri. Se ti afferri,

ormai, la nuda scorza della vita,

o ti cancelli l’alito di Sciva,

non so: so che rimane interminata

la gioia illimitata del tuo canto.


Fiano Romano, 20 settembre 2021

giovedì 16 settembre 2021

Conversazione su Dante


 

Conversazione su Dante


Rubo il titolo a Mandel’štam. Viviamo in un’epoca in cui la divulgazione, soprattutto in Italia, è sinonimo di semplificazione. Ma non c’è bisogno di semplificarli gli argomenti per renderli più comprensibili. C’è solo bisogno di esporli con chiarezza. La musica, la poesia, proprio per il loro impatto sulla fantasia, l’intelligenza e l’emotività di quasi tutti, si prestano così a ignobili, puerili parodie dei loro contenuti e significati. Non è dicendo che il destino bussa alla porta, che faccio capire l’attacco della Quinta Sinfonia di Beethoven, ma cercando di far capire, e sentire, come da quella semplice cellula ritmica Beethoven costruisca tutta la sua sinfonia, farne conoscere le evoluzioni, le trasformazioni. Non è difficile. E’ solo faticoso: richiede tempo, studio, capacità di comunicare concetti complicati. Semplificare non richiede nessuna fatica, ma non fa conoscere niente, conduce anzi fuori strada. E non mi si dica che rendo comprensibile Beethoven a chi non sa la musica, perché non è vero. Non faccio conoscere Beethoven, ma uno scarabocchio che non gli somiglia. L’anno dantesco sta per finire, per fortuna. Si è sentito e visto di tutto e di peggio. Tutti, o quasi, si sono sentiti in grado di spiegarlo al popolo. Anche chi prima non si era mai occupato di lui. Qui cerco di ricondurre il discorso su Dante al campo che gli compete. Allievo, come sono, di Natalino Sapegno, comincio proprio da lui. Per ripercorrere la sua azione di pulizia, di sgombero: degli equivoci, delle semplificazioni che si sono sedimentate sulla poesia di Dante. Spero di non avere peccato di superbia, e di non avere mancato il bersaglio.


Francesca non racconta la sua vicenda e tanto meno la caratterizza nei suoi termini particolari; ché anzi, col richiamarsi a taluni enunciati di dottrina ormai fissati e consacrati in formule universalmente adottate, tende a riportarla a una situazione generica e per cosí dire impersonale, e per questa via si sforza di spiegarla e giustificarla, sottraendo l'impulso primo del peccato ad una precisa responsabilità individuale, per trasferirlo sul piano di una forza trascendente e irresistibile: Amore. Di qui l'elaborata struttura del suo discorso; sia dal punto di vista formale, con le sue studiate rispondenze interne e la ripetuta assunzione, in tre momenti, di un medesimo soggetto grammaticale, che non coincide mai col soggetto reale delle azioni espresse (e anzi sembra proporsi di distogliere da questo l'attenzione dell'ascoltatore); sia sul piano concettuale, che, col riportare ciascun atto del dramma a una norma dottrinale dichiarata o sottintesa, trasforma il discorso in una sorta d'incalzante sillogismo, per cui, poste determinate premesse logiche, debba quasi di necessità scaturirne una prevedibile conclusione, indipendentemente dalla volontà dei singoli attori. La prima formula di cui Francesca si serve è un punto della dottrina d'amore, che era stato accolto da ultimo e ribadito da alcuni poeti dello «stil nuovo»: il cuore nobile si apre naturalmente all'amore, e anzi non vi è nobiltà di cuore senza amore; tanto che nelle parole di lei si possono avvertire precisi riecheggiamenti della teorica del Guinizelli («Al cor gentil ripara sempre Amore») e dello stesso Dante («Amore e 'l cor gentil sono una cosa»); ma quella dottrina era stata già il presupposto e la ragione determinante di tutta una vastissima letteratura, che va dai romanzi cortesi ai trattati e alla lirica dei trovatori provenzali e dei loro imitatori italiani. Sugli effetti dell'amore, che rende chi si avvicina ad esso nobile e lo adorna di virtú e di buoni costumi, aveva dissertato Andrea Cappellano (De amore, I, 4); della sua forza irresistibile e dei suoi rapporti con la cortesia e la gentilezza avevano discorso l'autore de Roman de la Rose e i romanzieri del ciclo arturiano: cfr. anche G. CONTINI, in Approdo letterario, I, 1958. Non a caso Francesca ricollegherà esplicitamente la prima radice della sua passione agli effetti della lettura del romanzo di Lancillotto, uno dei testi piú diffusi di quella letteratura particolarmente gradita alle corti e agli ambienti signorili”.

e 'l modo ancor m'offende: quasi tutti i commentatori riferiscono l'inciso alla frase immediatamente precedente che mi fu tolta, e vi vedono un'allusione o ad una presunta particolare efferatezza del modo in cui Gianciotto avrebbe ucciso i due amanti, ovvero al carattere repentino di quella morte, che avrebbe tolto ad essi ogni possibilità di pentirsi del loro peccato e li avrebbe quindi dannati per sempre. Ma il parallelismo logico e formale fra questa terzina e la seguente (e, in particolare, tra ancor m'offende e ancor non m'abbandona {v.105}) richiede che l'inciso sia riferito, anziché alla relativa che immediatamente precede, alla proposizione principale, intendendo: «Amore, che trova rapido accesso in cuore gentile, prese costui della bella persona, che mi fu tolta colla violenza, e il modo, l'intensità, di questo amore fu tale che ancora mi offende, mi vince». Di siffatta accezione di offendere, nel senso di "menomare, danneggiare", si hanno molti esempi nell'uso di Dante (cfr. Inf., II, 45; VII, 71; Purg., XXXI, 12; e in questo stesso canto al v. 109). Questa interpretazione del nesso sintattico, già proposta, fra i commentatori antichi, dal Buti («il modo di questo amore che fu disordinato e smodato... prima m'offese nel mondo, che ne perdetti l'onestà e poi la vita corporale, e ancora mi offende, imperciò che ora ne perdo la vita spirituale», oppure: «m'offese nel mondo, cioè m'inaverò e ferimmi il cuore, e cosí ancora m'offende, cioè m'inavera e ferisce ora, che l'amo fortemente») e dal Landino, e fra i moderni, dal Moschetti, è stata ora ripresa, con stringente argomentazione, dal Pagliaro (l. cit., pp. 15-19; Saggi di critica semantica, Messina, 1953, pp. 333-53), il quale giustamente insiste sulla rispondenza formale e concettuale fra le due prime terzine del discorso di Francesca: «La proposizione relativa (Amor) ch'a nullo amato amar perdona {v.103} risponde esattamente alla relativa della prima terzina (Amor) ch'al cor gentil ratto s'apprende {v.100}, e in ambedue i casi la nozione espressa appare in funzione di giustificazione dottrinale del rapporto di amore. Ancora palese è la rispondenza, anch'essa sul piano dottrinario, fra le proposizioni principali Amor... prese costui della bella persona {v.101} e Amor... mi prese del costui piacer… {v.104}; in ambedue i casi la bellezza come generatrice d'amore, secondo i canoni dell'amore cortese e stilnovistico. Infine si ha la rispondenza fra le due frasi e 'l modo ancor m'offende e (Amor…) ancor non m'abbandona {v.105}, nelle quali si dichiara che il reciproco amore di una volta vive ancora con la stessa intensità nell'Inferno», riflettendosi nel modo stesso della pena che li tiene avvinti per sempre”.

di pietade: per la pietà di quel pianto, per la tristezza che nasceva dal contemplare quell'infelicità senza scampo. Nel quadro di questa pietà (da intendersi, come s'è detto, nel senso della commozione che accompagna uno stato di perplessità morale e intellettuale) occorre interpretare tutto l'episodio di Francesca, che è il primo grande esempio della poesia «maggiore» di Dante: di quella poesia cioè che nasce sempre da una situazione complessa, «problematica», e si riporta dovunque, sebbene mai in maniera immediata e semplicistica, all'unità della concezione fondamentale del poema. Agli interpreti romantici, che insistono esclusivamente sull'umana compassione del poeta per i due amanti infelici, sfugge la reale natura della reazione psicologica del personaggio Dante, il quale dal caso di Francesca e di Paolo è condotto a riesaminare e misurare la validità di tutta una posizione sentimentale e culturale, della quale anch'egli ha lungamente accolto le ambigue soluzioni. Ne deriva una situazione non univoca appunto, ma complessa, non statica, ma drammatica. Proiettato nell'animo del pellegrino l'incontro con i due dannati prende l'aspetto di un'esperienza, che vuol dire anzitutto un acquisto: la liberazione da un errore, la conferma e il chiarimento di una verità morale già confusamente posseduta. Il senso totale dell'episodio non può esaurirsi nella illustrazione dello stato d'animo di questo o quello degli attori che vi partecipano, non nella passione di Francesca e neppure soltanto nella perplessità del personaggio Dante, ma s'illumina appunto, drammaticamente, in quell'incontro di un'anima vinta dal peccato con un'anima che anela a vincere le condizioni del peccato, e nel giudizio etico, sottinteso ed implicito, ma sempre presente, del Dante poeta che crea i suoi personaggi e sta al di sopra di essi. Da questo giudizio etico astrae chi nella pagina appunta la sua attenzione esclusivamente sulla figura di Francesca e ne fa una sorta di eroina compatita e redenta dall'umana pietà dello scrittore. Cominciò il Foscolo, scrivendo a proposito di questo episodio: «la colpa è purificata dall'ardore della passione, e la verecondia abbellisce la confessione della libidine; e in tutti que' versi la compassione pare l'unica musa»; e da queste sue parole trasse in seguito lo spunto la lunga serie delle interpretazioni in senso romantico, da quella del De Sanctis fino alle piú recenti (e tutte importanti per abbondanza e acume di notazioni particolari) del Parodi, del Barbi, del Pagliaro. Ma Francesca non è un'eroina, e nel ritrarla Dante insiste se mai sulla sua femminile debolezza e sul suo bisogno costante di giustificazione e di compatimento. La «fatalità della passione» è nella donna peccatrice un motivo che le si porge naturale come mezzo di discolpa; è nel pellegrino che l'interroga il dato di una teorica acquisita e corrente, di cui è portato a rivedere l'attendibilità alla luce delle sue conseguenze reali e terribili; ma non può essere il criterio del Dante che giudica e punisce e alla stregua del quale sia lecito fondare una coerente interpretazione della sua creazione poetica. E s'intende che Francesca non è neppure, nelle pagine dell'Alighieri, il paradigma di un concetto, ma una creatura viva: il «problema» è tutto risolto in una sintesi fantastica. È proprio della poesia di Dante, nei suoi momenti piú alti, questa capacità di conservare intatta, pur nella fedeltà sostanziale all'assunto etico e strutturale, l'umanità complessa e appassionata delle sue creature; per cui nell'intelaiatura tutta medievale e cattolica del poema viene a confluire una cosí ricca e varia materia di passioni umane, di vizi e valori terreni, dominati e contenuti, ma non mai repressi o soppressi”.

Sono tre passi del commento di Natalino Sapegno al Quinto Canto dell’Inferno (gli accenti acuti sono del testo originale). Rileggiamoci in particolare due passi. 1. “Agli interpreti romantici, che insistono esclusivamente sull'umana compassione del poeta per i due amanti infelici, sfugge la reale natura della reazione psicologica del personaggio Dante, il quale dal caso di Francesca e di Paolo è condotto a riesaminare e misurare la validità di tutta una posizione sentimentale e culturale, della quale anch'egli ha lungamente accolto le ambigue soluzioni”. 2. “È proprio della poesia di Dante, nei suoi momenti piú alti, questa capacità di conservare intatta, pur nella fedeltà sostanziale all'assunto etico e strutturale, l'umanità complessa e appassionata delle sue creature; per cui nell'intelaiatura tutta medievale e cattolica del poema viene a confluire una cosí ricca e varia materia di passioni umane, di vizi e valori terreni, dominati e contenuti, ma non mai repressi o soppressi”.

Sapegno insiste, giustamente, sulla necessità di leggere il poema di Dante in tutta la sua intricata complessità. L’evidenza umana dei personaggi, e Dante stesso è personaggio della Commedia, oltre che l’autore, non nasconde affatto né cancella le ragioni teologiche, morali, della sua collocazione nel poema, e tanto meno mette in secondo piano la sua logica narrativa. Francesca si trova nel secondo girone dei dannati, quello dei lussuriosi. Né il poeta Dante, né il personaggio Dante lo dimenticano mai. Anzi è l’elemento che rende particolarmente tragica la sua figura. L’Inferno non ospita solo peccatori spregevoli, ma anche anime nobili, personaggi d’indole generosa: Farinata, Pier delle Vigne, Brunetto Latini, tra altri. La condanna è tanto più drammatica, tanto più dolorosa, quanto più “gentile” è il personaggio.

Mi meraviglio, pertanto, che esistano ancora alcuni che immaginano possibile una lettura ingenua, d’immediato impatto, unicamente sentimentale, della Commedia. Secoli di commenti, dall’Ottimo al Benvenuto, al Buti (citato spesso da Sapegno) e poi via via attraverso il Rinascimento, l’Illuminismo (che tuttavia Dante lo sentì estraneo), i Romantici (che lo distorsero), e finalmente dopo l’accurata ricerca prima della cosiddetta Scuola Storica carducciana e poi degli ampi, puntuali studi di un Singleton, di un Auerbach, e in Italia di Barbi, Rajna, Vandelli, Scartazzini, fino a Sapegno, e ora gli studi più recenti, sia italiani sia tedeschi, inglesi, americani, francesi, e i contributi di tanti filologi della letteratura romanza, non sono riusciti a scalfire, in molti, l’idea che, tutto sommato, in fondo, l’essenziale di un romanzo, di un poema, resta l’impatto emotivo dei versi, la suggestione drammatica delle figure evocate. Si dimentica in questo modo, per esempio, che la lingua di Dante solo apparentemente corrisponde alla lingua italiana parlata e scritta ancora oggi, e su ciò tanto Leo Spitzer quanto Auerbach hanno scritto contributi decisivi, senza contare le analisi dei commenti ai testi, come fa sopra Sapegno quando chiarisce il senso che il verbo “offendere” ha nella confessione di Francesca: mi fa male, mi danna. La deviante lettura crociana produce pur troppo ancora oggi altre devianti letture. Croce, pur suscitando il problema di una lettura “moderna” di Dante, ha scritto, però, su Dante forse il suo saggio meno riuscito e in taluni punti addirittura imbarazzante: uno scheletro cui restano attaccati pezzi di carne, sarebbe il poema! come scrive. Lo scheletro sarebbe la struttura, i pezzi di carne la poesia: ribadendo

la sua idea di poesia e non poesia – che è anche il titolo di un suo libro – di poesia anzi contrapposta, seppure dialetticamente, alla non poesia, il che lo conduce qui, come non mai, fuori strada. Ariosto e Goethe gli erano più congeniali, e scrive su di loro pagine bellissime. Su Goethe, tuttavia, avanza riserve simili a quelle avanzate per la Commedia. I suoi modelli ideali di poeta sono Ariosto e, soprattutto, Shakespeare, il quale ultimo realizzerebbe pienamente ciò che a Dante non riesce che in parte: di far coincidere la struttura con la poesia, eliminando di fatto gli scarti della non poesia, nei drammi di Shakespeare pressocché assenti. La struttura narrativa della Commedia, invece, non è una sovrastruttura inutile, ma il supporto, l’ossatura che dà senso alla narrazione. Ma lo stesso vale anche per la la lirica dantesca, tutta la poesia dantesca, anche le canzoni dottrinali, e per quel miracolo assoluto che è la Vita Nuova, a rifletterci il primo, sublime, esempio di autofiction, o, per meglio dire, di romanzo autobiografico, un genere che non è romanzo e non è autobiografia, ma un’invenzione narrativa nella quale realtà biografica e invenzione si bilanciano, si mescolano, anticipando in qualche modo già l’ossatura della Commedia. E si badi la verità del dato biografico non è più reale del dato dell’invenzione: la verità della narrazione non è garantita dalla corrispondenza dei fatti narrati a fatti reali, bensì dalla narrazione stessa, è il narrare che rende vero ciò che è narrato, il che attribuisce alla narrazione un significato aggiunto, che travalica la lettera del racconto, senza negarla, le conferisce una verità più alta della corrispondenza biografica, perché è la verità del suo significato figurale, vale a dire, del suo senso simbolico e insieme etico, e in ultima analisi, mistico, com’è mistico, alla fine, il senso stesso della poesia, che la verità delle cose la estrae dal linguaggio con quella violenza con cui Apollo estrasse Marsia dalla vagina delle sue membra (Paradiso, I, vv.19-20). Il pensiero di Dante è un pensiero sempre complesso, e innerva anche i momenti di maggiore impatto emotivo: l’emozione, in Dante, è sempre anche un’emozione intellettuale, ha sempre la tensione di un’istanza morale. Si pensi al bellissimo attacco della canzone “Donne che avete intelletto d’amore”. Dante non dice “che avete sentire, desio, ecc.“, dice “intelletto”, conoscenza, cognizione di che cosa sia l’amore. Sapegno, dunque, riassume bene un po' tutta la letteratura critica precedente e liquida, giustamente, la lettura "romantica" del canto di Francesca non come una lettura sbagliata, ma come un lettura limitata, limitante. La lettura di Dante - ma in realtà di ogni grande poeta, anzi di ogni poeta – richiede in effetti una disposizione alla complessità dei piani di significato che il poeta evoca con i suoi versi. Anche il poeta più semplice, anche il poeta popolare. Tanto più in un poema, come quello dantesco, che si pone come sintesi della cultura di un'epoca, si propone come messaggio di salvezza per chi smarrisce la strada della retta conoscenza. Qualcuno ha parlato, giustamente di un “Itenerarium mentis ad Deum”, itinerario della mente a Dio. Un viaggio nella conoscenza, e la conoscenza ultima è, naturalmente, Dio. Ma è la mente che guida il pellegrino, non il sentimento, romanticamente inteso come impulso immediato, emozione irriflessa. Questa immediatezza Dante la ignora (come la ignorano anche Goethe e Proust). Tutto è mediato nella Commedia, anche il sentimento. Insomma, bisogna evitare di cadere nella trappola, oggi di moda, che la poesia, anche la poesia di Dante, è cosa facile. Certo che commuove, anche. Ma non bisogna confondere la rappresentazione del sentimento con il sentimento stesso. E la poesia, la vera poesia, è sempre rappresentazione, mai impulso sentimentale diretto. Non importa se il poeta provi o no il sentimento che esprime, importa che sappia rappresentarlo, esprimerlo con le parole giuste. In fondo il poeta è, come scrive Pessoa, un “fingitore”. La poesia è difficile, difficilissima. Anche la poesia popolare. Anche Bon Dylan, che poi popolare non è, anche se amato da moltissimi. La poesia non è , inoltre, quasi mai d’immediato impatto. Quando sembra che così avvenga, è perché si condivide con l’autore la stessa cultura, lo stesso specchio di emozioni. Ma una poesia cinese, uno haiku giapponese già richiedono dall’europeo un di più di conoscenza, per esempio almeno una infarinatura sul Tao, sullo Zen. Ficchiamocelo bene in testa: nessuna poesia, nessuna musica è immediatamente afferrabile se non si possiede la cultura che hanno dato loro vita. Il che non significa che richieda erudizione (la quale in ogni caso non fa mai male), ma sì una partecipazione ai codici di comunicazione sia intellettuale sia emotiva di cui la poesia, la musica si servono. Anche il sentimento, infatti, non è universalmente uguale dappertutto, ma ubbidisce a condizionamenti culturali diversi di epoca in epoca, di paese in paese. Il tedesco Sehnsucht lo traduciamo di solito con Nostalgia. Ma non è affatto la stessa cosa. In spagnolo amare si dice querer, chiedere, che però non perde il significato originario di chiedere. “Te quiero” significa sì “ti amo”, ma con in più il senso di “ti chiedo” “ti voglio”. Anche perché poi anche in spagnolo c’è il verbo “amar”, ma non lo si usa, in genere, per dire “ti amo”. L’immenso drammaturgo che è Lope de Vega, ne La Dorotea, “azione in prosa”, lo sintetizza meravigliosamente: in un monologo, Dorotea è combattuta tra il desiderio di cedere alla passione per lo squattrinato poeta Fernando o seguire i consigli della madre e accettare la “protezione” del ricchissimo nobile peruviano. “¿Que puedo querer más sino quererte?” dice, rivolgendosi idealmente all’amato. Che significa: che cosa posso chiedere di più se non amarti? In italiano si perde, però, il doppio senso del verbo querer.

C’è chi obietta che, ad esempio, il romanzo di Cervantes arriva al lettore anche quasi senza mediazioni culturali. Ma la ragione è un’altra. In fondo comincia proprio con il Don Chisciotte il romanzo moderno, ed è Cervantes stesso che chiede l'impatto immediato, come per qualsiasi romanzo. Insomma la scrittura del Chisciotte è già la scrittura del romanzo moderno, compresi Agatha Christie e Camilleri. Dante no. Dante scrive un poema teologico in cui è riassunta tutta la cultura medievale, e pretende che sia letto come tale. Dante è un poeta medievale, profondamente radicato nella cultura medievale, nella teologia scolastica e in particolare tomistica (ma Duns Scoto non gli è estraneo), vede l’ascesa della borghesia finanziaria come un male, un peccato sociale, e ha nostalgia di tempi in cui il potere non era borghese, ma nobiliare, lui, della piccola nobiltà fiorentina, per accedere alla politica dovette accettare di iscriversi a una delle arti, diventare borghese, perché a Firenze la borghesia aveva cacciato i nobili dal potere. L'equivoco di credere Dante già moderno (e lo è, ma non nel senso che diamo noi oggi alla modernità, vale a dire di una società e una cultura laiche, borghesi, legata alle professioni e non al privilegio di nascita – anche se di fatto tale privilegio persiste), l’equivo d’immaginarlo nostro contemporaneo nasce dal fatto che la sua lingua sembra la nostra, ma non lo è che in parte. Quando scrive "pietade", come osserva Sapegno, non è la nostra pietà per un infelice, ma all'orecchio dei suoi contemporanei, per i quali la lingua della cultura è il latino, pietade è anche la pietas virgiliana, quella di Enea, del pius Aeneas, un sentimento di partecipazione che si deve anche allo sconfitto, anche al perdente, anche al perduto.Tutto il contrario della nostra società attuale che sembra premiare solo i vincenti. Come sarà cinque canti dopo per Farinata. La tragedia del grande politico non sta nella sua nobiltà d'animo, ma nel fatto che la sua nobiltà d'animo non gli ha impedito di perdere, di dannarsi. Dante ha sempre di vista il destino universale degli uomini dietro ogni singolo destino individuale. Ha una visione teleologica, escatologica della storia. C'è un disegno divino anche negli errori degli uomini. Il che lo rende perplesso, lo fa tremare, piangere. Ma non può per questo non arrendersi alla volontà divina. Dante, nel viaggio, ha spesso pietà, si commuove spesso, in tutti e tre i regni dell’oltretomba, anche nel Paradiso. Nell’Inferno gli accade più spesso, perché l’Inferno è il regno dei dannati. Il dolore è senza scampo, senza redenzione. Si commuove, per esempio, quando vede la "figura" dell'uomo stravolta nella condanna degli indovini, e piange. Come piangerà nel Purgatorio a vedere gli occhi “cuciti” degli invidiosi. Ma c’è, proprio qui nell’Inferno, un particolare ancora più terribile, più raccapricciante, e non potrebbe essere diversamente, perché a Dante questa distorsione, questo stravolgimento, nel canto degli Indovini gli si mostra in tutta la sua razionale giustizia. Le lacrime degli indovini, che hanno il capo girato all'indietro, e la faccia dunque è volta sulle spalle, invece che sul petto, colano giù lungo la schiena e s'infiltrano "per lo fesso", scivolano cioè in mezzo alle natiche. Gli indovini piangono e le loro lacrime scivolano sul culo. Il realismo, sconvolgente, della scena acquista un significato morale, di giustizia implacabile, perché il realismo dantesco ha sempre un significato allegorico, figurale, come spiega Auerbach. La Commedia va letta come si legge la Bibbia: Dante del resto si propone come un profeta moderno. E non come un romanzo d'avventure. Romanzo ch’è condannato, tra l'altro, e definitivamente, da Francesca: Galeotto fu il libro che la condusse alla dannazione. Dante sta, nel canto di Francesca, non solo rivedendo la poetica dello Stil Novo, ma condannando in blocco i romanzi cavallereschi, che incoraggiano l'amore adultero. Sarà moralistico, potrà dispiacerci: ma è questo il suo pensiero. La morale di Kant è permissiva se confrontata con quella di Dante, molto più rigida, molto più inflessibile, perché non è la moralità dell’uomo, ma la legge morale di Dio. In fondo per Dante, come si è già detto, è peccato anche la pratica bancaria. nasce anzi proprio dalle banche per Dante la corruzione politica del suo tempo. Dante non solo non è il poeta del moderno, ma è un poeta antimoderno, che rifiuta la modernità. In qualche modo, per qualche verso, come la rifiuterà cinque secoli dopo Baudelaire. Le Fleurs du mal sono l’Inferno del XIX secolo. E più di una volta la poesia di Baudelaire ha toni danteschi. Per esempio, nel Voyage à Cythère. So che questo aspetto non piace a molti, non piace a chi vorrebbe semplificare anche la poesia alla balbuzie odierna. Ma è ciò che dice Dante (e a Baudelaire). Nemmeno certi giudizi sommari di Tolstoj in fondo ci piacciono veramente. Ma resta ugualmente il grandissimo scrittore che è. Ed è lo scrittore che è anche, o soprattutto, per quei giudizi che ci dispiacciono. Niente di peggio per capire la letteratura, che un codice del politically correct. Dostoevskij è un ultraconservatore rabbiosamente antisemita. E allora? Ma ritornando a Dante, riconquistiamo la complessità della sua poesia. Non banalizziamola, credendo così di renderla più accessibile. Si farebbe solo cattiva divulgazione. E un grave torto a Dante: ci ha impiegato una vita a conquistarsela, quella complessità. Venti anni, almeno, solo per la Commedia. Perché dovremmo negargli l’efficacia di tanto lavoro, l’eccellenza raggiunta attraverso una così lunga e capillare fatica?


Fiano Romano, 16 settembre 2021


sabato 11 settembre 2021

: Giosquino: Josquin Desprez in Italia


 


Josquin Desprez in Italia

Giosquino

Odhecaton, Paolo Da Col

The Gesualdo Six

Arcana A 489

1 cd

I contemporanei lo paragonavano a Michelangelo. Per l’influsso che ebbe sulla musica del suo tempo e dell’epoca successiva. Io lo paragonerei piuttosto a Johann Sebastian Bach, per restare in campo musicale. Come Bach, Josquin Desprez opera una sintesi formidabile della musica che si fa nel suo tempo e getta le basi dello sviluppo ulteriore della musica, almeno fino all’avvento della monodia e poi del melodramma. Ma in realtà, le figure più complesse anche della musica monodica, per esempio Monteverdi, tennero presente la sua lezione. Monteverdi, infatti, non è inquadrabile nella sola pratica della monodia, il suo pensiero musicale resta fondamentalmente polifonico – anche qui come in Bach – anche quando sembra prevalere una voce. Insomma, Josquin è un gigante come ce ne sono pochi altri nella storia della musica. Quest’anno si celebra il cinquecentesimo anniversario della sua morte, avvenuta a Condé-sur-l’Escaut il 27 agosto 1521. Tre anni fa si è completata in Olanda la monumentale (30 volumi) pubblicazione di tutte le sue opere (NJE), impresa che è durata un secolo. Si affianca alle edizioni, ugualmente monumentali, di Bach, Mozart, Beethoven. Ma anche le case discografiche si sono date da fare. E naturalmente i musicisti che hanno eseguito e interpretato le musiche. appena uscito un cd di ARCANA molto particolare: è dedicato infatti all’avventura italiana di Josquin, tra Milano, Roma e Ferrara. L’omaggio è rivelato già dal titolo dell’incisione: Giosquino, Josquin Desprez in Italia. Allora si italianizzavano tutti i nomi, e Josquin diventa perciò Giosquino. Come più tardi, Luigi Vanvitelli, l’architetto della reggia di Caserta, che è figlio del pittore olandese Gaspar van Wittel. Handel in Italia si firmava Giorgio Endel, perché tanto gli italiani non pronunciano l’acca. E una volta naturalizzato cittadino britannico, nel 1735, scrive il cognome in inglese, George Frederick Handel, e non Georg Friederich Händel o Haendel.

L’ensemble Odecathon diretto da Paolo Dal Col costruisce il suo concerto – perché questo bellissimo disco si ascolta come un concerto e ci si deve abbandonare ad ascoltarlo come se si stesse in una sala di concerto o nella navata di una chiesa – intorno a un capolavoro, tra i tanti di Josquin: la messa dedicata al Duca di Ferrara Ercole d’Este. A rendere esplicita la dedica – ma insieme a nasconderla nell’intreccio contrappuntistico della polifonia – Josquin ricava il cantus firmus della messa dal nome del dedicatario, Ercole d’Este. In latino: Hercules Dux Ferrarie (cone si scriveva il dittongo latino ae – Ferrari-ae – e come ancora oggi si pronuncia con la dizione ecclesiastica). Dalle vocali ricava le sillabe che denotano i gradi della scala guidoniana: RE UT (do) RE UT RE FA MI RE. È una messa monumentale. La varietà di soluzioni architettoniche che rispecchino le idee del testo sono infinite. Nel Kyrie il motivo è affidato al superius. Ma alla nona battuta (divisione moderna) il motto passa al tenor. Le altre voci, apparentemente intonano figurazioni più mosse. Ma in esse si scoprono varianti, diminuzioni, variazioni dello stesso motivo. Ciò conferisce al Kyrie una compattezza straordinaria, l’intera cattedrale musicale della messa è del resto costruita su un’unica idea: è veramente l’intera comunità dei fedeli che invoca la pietà del Signore. Nel Credo, alle parole “qui ex patre filioque procedit” superius e alto procedono omoritmicamente a indicare la reciprocità dello Spirito Santo con il Padre e il Figlio. Al Sanctus le quattro voci via via ascendono a simboleggiare l’ascesa dell’inno al cielo. A “pleni sunt coeli et terra” alto e basso cantano quasi in omoritmia e infittiscono le corrispondenze contrappuntistiche a indicare la pienezza dei cieli. Sorprendente il Benedictus in cui via via le quattro voci si scambiano il motto, a due a due, una fiorendo la melodia sull’altra. Questi accorgimenti saranno chiamati madrigalismi e creduti tipici del madrigale, ma come si vede, invece. La simbologia della scrittura musicale percorre la musica occidentale fin dai primordi della notazione musicale, a cominciare dal valore sacrale attribuito al numero tre, ritmo ternario, suddivisione ternaria, ritmo e suddivisione “perfetti”. Ancora Bach, nella Messa in si minore, ricorre al ritmo ternario per cantare l’incarnazione e la crocifissione, e alla parola crucifixus la figurazione delle note disegna una croce. L’Agnus Dei è da Josquin costruito sul retrogrado del motto. Oggi si direbbe che fa matematica, non musica. E invece fa musica, e musica altissima. La musica, infatti, non è solo percezione, ma la percezione di un risultato sonoro ottenuto magari con calcoli di contrappunto intricatissimi e sottilissimi tra la voci. L’orecchio non sente i calcoli, ma ascolta ciò che i calcoli producono. Diremo per questo che il calcolo distrugge la musica? Uno dei maestri del primo Quattrocento, Guillaume Dufay, ammiratissimo da Josquin, e venerato da Ockeghem, compositore a suavolta venerato da Josquin, compose nel 1437 un mottetto per l’inaugurazione della cupola del Duomo di Firenze progettata da Brunelleschi. Ebbene, il tenor del mottetto, ha le proporzioni intervallari che corrispondono alle proporzioni geometriche dell’intelaiatura della cupola. Artificio, matematica? E perché no? L’effetto è travolgente: un mottetto sublime, che riempie le orecchie la mente e il cuore, Nuper rosarum flores, e Santa Maria del Fiore si chiama il Duomo di Firenze. Josquin proviene da quella cultura. Ma, come tutti i grandi artisti, la rimodella. Rende ancora più invisibile l’artificio, vuole che la musica fluisca lieve come un’onda marina, soave come un vento leggero, naturale come un respiro, vuole anzi modellarla sul respiro umano.


Leonardo Da Vinci, ritratto d'un musico, forse Josquin

È musica difficile, difficilissima, ma chi canta non prova disagio, la sente anzi naturale, come non potesse essere che come è: una musica che ha l’andamento del respiro umano. Stiamo attenti, dunque, quando critichiamo una musica di oggi a tirare fuori l’argomento che è cervellotica, artificiosa. Non è un argomento, non dimostra niente, non confuta nessun errore, è una petizione di principio che non si confrota con il dato di fatto: la musica che ne risulta. La musica va, infatti, giudicata per i risultati, e se a ottenere un meraviglioso risultato è un artificio dove sta il problema? Come se, parlando di poesia, fosse una sciocchezza, un compitino, per un poeta, scrivere un sonetto: due quartine con due sole rime, e due terzine anch’esse con rime obbligate, talora due sole, talora tre. Eppure da Dante a Petrarca a Foscolo a Baudelaire a Mallarmé abbiamo sonetti stupendi. Dunque, mettiamo subito le cose in chiaro: questa è musica difficile. Difficile sia da interpretare sia da ascoltare. Musica intellettuale, anche. Perché no? Da quando l’intelligenza è nemica dell’arte? Ma ciò non significa che questa musica, e la musica di oggi, non possa emozionare, catturare l’animo, conquistare il cuore. Anzi, il risultato, in Josquin, è di una tale bellezza sonora che non si può non restarne affascinati. I contemporanei lo paragonavano a Michelangelo, s’è detto. E se intendevano così definirne la potenza di penetrazione nell’intelletto di chi la legge, di partecipazione nelle corde più profonde del sentimento, se volevano cogliere, in questa musica, la sua capacità di colpire la fantasia dell’ascoltatore, avevano ragione. Ma è ancora poco. Questa è una musica di un tale miracoloso equilibrio, di una tale luminosa armonia, che l’impatto rasserena il cuore, illumina la mente: e allora il confronto più adeguato che sovviene è quello dell’Ariosto. Benedetto Croce, in quello che è forse il suo saggio letterario più bello e significativo, individua nell’Ariosto il poeta dell’Armonia, un po’ come lo sono nella pittura Piero della Francesca, Raffaello. Potremmo dire la stessa cosa della musica di Josquin. Forse, ma tali confronti sono sempre rischiosi, o addirittura fuorvianti, prima di Mozart, nessun musicista raggiunge una tale pienezza di equilibrio musicale, in cui tutti i sentimenti, tutte le passioni hanno spazio, ma senza che una travalichi l’altra. Come se il compositore, invece di viverle scompostamente, e rappresentarle con equivalente scompostezza, che so, restando nell’ambito di una cultura nordica, in questo caso fiammingo-tedesca, come fa un Grünewald, le guardasse invece dall’alto e le vedesse agire, e ne temperasse perciò l’irruenza, la violenza, e nell’equilibrio dell’azione musicale rispecchiasse l’equilibrio delle passioni. Aristotele vi dedica uno dei suoi problemi, il XXX, dedicato alla Malinconia, in cui vede la disposizione instabile dell’artista, del filosofo, capace d’interrogare le passioni senza lasciarsene dominare, perché il disordine, la patolgia, nascono quando invece ci si lascia possedere da esse, quando la bile nera, la melaina chole, invece di offuscare i diversi umori, che reggono l’equilibrio della mente, li invade, li annega, e allora si sprofonda nella pazzia. Albrecht Dürer vi dedica un’incisione mirabile, in cui disegna l’equilibrio instabile delle passioni, proprio ispirandesi al breve ma intenso trattato di Aristotele. Dürer è un contemporaneo di Josquin. Nella sua incisione possiamo intravedere su quali delicati, intricati, conturbanti sentimenti si regga l’equilibrio che ci appafre miracoloso di un’incisione, di un mottetto, di una messa. Non a caso il conturbante Michelangelo trovava il rivale tedesco troppo “matematico”. La Pietà Rondanini è in effetti l’esatto opposto della Malinconia di Dürer. Durero, come veniva chiamato in Italia.



Nel cd, oltre alla messa, sono registrati alcuni mottetti del periodo italiano. Uno più bello dell’altro. Per esempio O Virgo prudentissima a 5 voci. Manca dunque il Josquin “profano”, quello della chanson, della frottola (per fortuna ci è risparmiato l’inflazionatissimo El grillo, frottola stupenda, ma che non rende ragione della complessità di Josquin ed è forse così famoso proprio per la sua apparente semplicità). Fanno eccezione due canzoni (frottole) a 3 voci presentate in veste strumentale, Fortuna d’un gran tempo e La Bernardina. Un mottetto, Inviolata, integra et casta, è presentato in due versioni, una a 5 voci e l’altra a 12. Nell’utile booklet annesso al cd, con una bella presentazione della musicologa Camilla Cavicchi, ci sono i testi della messa e dei mottetti. Paolo Da Col dirige l’Odhecaton, e partecipano alla registrazione i Gesualdo Six, e i gruppi strumentali La Reverdie (liuto, ribeca, arpa), e La Pifarescha ( shawm - ciaramella - e tromboni tenore e basso). Josquin si colloca proprio nel discrimine del passaggio dalle architetture polifoniche fiamminghe allo sviluppo del madrigale italiano, le cui radici si vollero un tempo vedere nella frottola, per dare al madrigale un carattere esclusivamente italiano, ma che più probabilmente vanno cercate in un adattamento italiano della chanson francese. Non a caso il suo avvio prevede il contributo di grandi compositori franco-fiamminghi: Adrian Willaert, Cipriano de Rore, Orlando di Lasso, Arcadelt. Se nella musica d’oltralpe l’interesse è volto all’architettura musicale, nel madrigale la parola comincia a pretendere una sua individualità. Josquin si trova proprio in mezzo a questo passaggio. L’architettura resta dominante, ma si piega anche a efficaci analogie simboliche per comunicare il senso di un testo. Proprio come in certa musica d’avanguardia del secondo dopoguerra, Boulez, Stockhausen, Nono. L’equilibrio tra architettura musicale e simbologia espressiva è dunque fondamentale per offrire un’esecuzione che rispetti l’incredibile complessità della scrittura polifonica. Paolo Da Col è perfetto nel raggiungere questo equilibrio. Altri interpreti privilegiano la bellezza del suono, la purezza dell’emissione vocale. Elementi indispensabili, ma non sufficienti a rendere il senso pieno di questa musica, capace, anche nei momenti di maggiore astrazione architettonica, di commuovere fino al pianto l’ascoltatore, per la bellezza appunto del suono, ma anche, o soprattutto, per il significato simbolico che l’architettura comunica. Non basta un ascolto ingenuo a cogliere tanta complessità. Chi può, e sia capace di leggere una partitura, se le scarichi dalla rete. Oggi è possibile farlo gratuitamente, visitando il sito IMSLP. Chi non sia in grado di leggere la musica, si legga attentamente le note del booklet e s’informi, inoltre, anche sulla rete, sulla figura di Josquin Desprez. Esiste una monografia in italiano di Carlo Fiore, Josquin des Prez, Palermo, L’Epos, 2003. Consiglio, anche, come introduzione, il ritratto che ne fa, assai preciso, in rete, Davide Daolmi, dell’Università Statale di Milano:


https://www.examenapium.it/meri/desprez/index.html


Ma poi, soddisfatte le istanze culturali: abbandonatevi all’ascolto. Non vi stancherete di riascoltare e riascoltare. Per chi, inoltre, volesse formarsi un’idea più completa della musica dell’epoca, consiglio il bel cofanetto di 34 cd pubblicato dalla Warner Classics, con musiche che vanno da Binchois a Obrecht. Oltre, naturalmente, a quelle di Josquin Desprez. Il cofanetto s’intola Josquin / and / The French-Flemish School. Da Amazon vi arriva in un giorno al costo di € 60,13. Oppure cercatelo nel più vicino negozio musicale. E che la grande polifonia vi illumini la mente e vi scaldi il cuore.