SCHÖNBERG,
PIERROT LUNAIRE
PORTERA, RED
MUSIC
ANNA CLEMENTI
ENSEMBLE BIOS / ANDREA VITELLO
CONTINUO
Ascoltarlo, oggi, il Pierrot
Lunaire di Schoenberg sembra quasi musica romantica. E, in parte, lo è. Lo
è almeno il principio che la musica debba essere espressiva. Non vi rinuncerà
nemmeno Webern, capace di chiedere in partitura ausdruckvoll (espressivo) al
violinista che in quel punto sta suonando una sola nota. Semplicemente stava
mutando il concetto di espressività. L’espressione non è più la manifestazione
di un sentimento personale, del personaggio o dell’autore, ma la connotazione
di una situazione. Non è più il singolo a dire il proprio dolore, o la propria
gioia (più raramente), ma il poeta, il drammaturgo, il compositore che guardano
la sofferenza del singolo, e la rappresentano, senza commentarla, guardano le
smorfie, i contorcimenti, l’agonia del singolo, ma senza commuoversene. Nella
letteratura tedesca un simile atteggiamento ha radici profonde. Si riscontra
già nelle poesie di Heine e nel teatro di Büchner. Non a caso proprio un dramma
di Büchner Berg prese a soggetto della propria opera, anzi il testo stesso del
dramma: Woyzeck, che per un refuso
dell’edizione posseduta da Berg, diventa Wozzeck. L’anno in cui nasce il Pierrot Lunaire segue di tre anni l’Elektra di Strauss. Il clima è quello. Schoenberg chiede
all’interprete di non immedesimarsi con il personaggio beffardo, maligno, anche
cattivo, di Pierrot. E a distanziare ogni tentazione di recitazione realistica
o di canto sentimentale, escogita il sistema dello Sprechgesang, alla lettera “canto
parlato”. Monteverdi chiamava il suo melodizzare teatrale “parlar cantando”. Le
intenzioni sono quasi le stesse: isolare l’emotività del canto, racchiuderlo
nel continuo del parlato, non della melodia. Ma per Monteverdi l’intenzione è
di giungere alla radice sonora del linguaggio, alla musicalità immanente della
parola. Come poi per Debussy. O per Musorgskij. Schoenberg, invece, vuole sradicare
la parola dal suo sostegno musicale, distanziarla dalla sua fascinazione
emotiva. Qualcosa in musica, che si potrebbe confrontare al ”correlativo
oggettivo” di Eliot. La poesia non sta, insomma, nell’ “espressione” di
un’emozione, di un sentimento (con buona pace di Benedetto Croce), bensì nella
rappresentazione neutrale di una situazione. O di un concetto. E la musica,
allora, diverrebbe l’eco estraniata di qualcosa che si può rappresentare, ma
non esprimere. In parole povere, i sentimenti sono incomunicabili, ma la loro
rappresentazione, o piuttosto la rappresentazione dei loro effetti sul corpo,
sulla voce, possono mostrarsi sulla scena, o in un cabaret: e farsi espressione,
ma espressione esasperata. Che poi si chiamerà espressionismo. Questa musica ha
molto del cabaret, dell’estraniazione, dell’allucinazione del cabaret. Le poesie
di Albert Giraud (pseudonimo di Émile Albert Kayenberg), poeta simbolista
belga, una sorta di fratello minore di Maeterlinck, non sono un granché. La
traduzione tedesca di Otto Erich Hartleben le fa sembrare più belle, o quanto
meno più incisive. La raccolta Pierrot
Lunaire ne comprende 50, Schoenberg ne sceglie 21, tre volte sette, in modo
da costruire tre parti uguali di 7 pezzi ciascuna. Come Bach, Schoenberg è un
patito di numerologia. Aspetta a pubblicare la partitura, in modo che abbia il
numero di opus 21. Posseggo un prezioso LP, in vinile, dunque, della Philips,
in cui lo stesso Schoenberg dirige il suo Pierrot
Lunaire. La voce, indicata come “récitante” è quella di Stiedry Wagner. I
musicisti sono Rudolf Kolisch, violino e viola, Stefan Auber, violoncello,
Eduard Steuermann, pianoforte, Leonard Posella, flauto e ottavino, Kaliman
Bloch, clarinetto e clarinetto basso. Il disco fa parte di una collana di
“Hommages”. Gli altri cinque sono a Pablo Casals, Alberti Schweitzer, Joseph Szigeti,
Bruno Walter, Clara Haskil. E’ un’incisione molto istruttiva. Schoenberg è
ritmicamente implacabile, come pretende nelle note della partitura. Ma più
tollerante sull’adeguamento allo Sprechgesang dell’interprete vocale. Anche in
questo si rivela la sua profonda natura di musicista. E Anna Clementi? Al primo
ascolto non volevo credere alle mie orecchie. L’adeguamento è totale. Non so
quanto abbia influito essere figlia di uno dei più grandi compositori del
secondo novecento italiano, Aldo Clementi, che del rigore della scrittura, e
dunque anche, naturalmente,
dell’interpretazione, aveva fatto il suo principio inderogabile. Ma certo è che qui ci si sente appunto
trascinati in un immaginario cabaret, la voce sembra custodita in una teca di
cristallo sul quale piombi di striscio l’occhio di bue delle luci di scena. Si
pensa anche al prologo della Lulu di
Alban Berg. L’estraniamento è dunque totale. Ma proprio per questo l’efficacia
espressiva immensa. La voce è piccola, acuta, appunto, si pensa a Lulu. Ma
penetra il cervello come uno spillo implacabile. Le parole sono sillabate una
per una, con dizione inequivocabile, percepibile. E’ un tedesco bellissimo (chi
sa perché i nostri connazionali pensano che il tedesco sia una lingua dura,
sgradevole, ferrigna: la lingua di Goethe, di Mörike, di Rilke, di George, di
Benn, di Celan? intonata da Schubert, da Schumann, da Wolff?). Schoenberg non
fa eccezione. E Anna Clementi vi affonda dentro insieme con rigore e con passione.
E’ già musica il suono della lingua, che senso ha intonarla? Meglio dirla con
l’accenno di un tono, colto e subito lasciato, come una Sängerin, o piuttosto
una Schauspielerin, che irrompa dal cabaret di una Berlino Jugendstil! E invece no. E’ la Berlino di oggi. E
Schoenberg, sulla sua bocca, con la sua voce,
è un nostro contemporaneo. Ogni pagina di questo capolavoro ci trafigge.
Ascoltate il numero che s’intitola Valse
de Chopin (n. 5). L’intelaiatura contraffatta di un rarefatto, ma intricato contrappunto,
non riesce a mascherare del tutto l’affinità spirituale con La Valse di Ravel, posteriore di soli 7
anni. Ma in mezzo c’era stata l’ecatombe della Grande Guerra. Preannunciata da
Schoenberg, constatata da Ravel, si respira la fine di un mondo. O, due numeri
dopo, Der kranke Mond, la luna
malata. Un flauto, la voce, che finisce tremando. Il brano chiude la prima parte.
La seconda si apre con Die Nacht, la notte. Il pianoforte
introduce con suoni gravi, cupi, l’atmosfera del pezzo. La voce tocca qui
vertici di recitazione espressionistica. O il numero 19, Serenade, lo struggente violino che precipita nel vuoto, la voce che,
subito dopo, cade. Ma i pezzi vanno ascoltati con grande raccoglimento uno per
uno. In ognuno la realizzazione del programma di distanziamento espressivo per
ottenere il massimo di efficacia rappresentativa, si raffina, procede. E in
ognuno si ammira il grande controllo di ogni musicista. Anna Clementi risalta tanto più, in questo controllo,
quanto più gli strumenti la fasciano, la sostengono con un tessuto musicale
egualmente controllato. Bravissimo, Andrea Vitello, a tenere insieme tutta la
compagine. Non una sbavatura, non una distrazione, un’approssimazione. Tutto al
punto in cui deve essere, anche nei momenti di maggiore foga. L’Ensemble
Bios (Giuseppe Bruno, pianoforte,
Luciano Tristaino, flauto e ottavino, Marcello Bonachelli, clarinetto e
clarinetto basso, Alberto Bologni, violino e viola, Jacopo Francini,
violoncello nel Pierrot Lunaire, sostituito
da Carlo Benvenuti per l’altro brano del cd, Red Music), segue, realizza pienamente le intenzioni del direttore.
Talora, in certi brani, il furore sembra condurli fuori strada, esasperare l’interpretazione. Ma si tratta di
un’esasperazione voluta, controllata. E qui sta la loro bravura, la loro
efficacia d’interpreti. Tutto il lavoro si fa ammirare sia per l’intelligenza
della lettura sia per l’efficacia delle rappresentazioni musicali. Nel cd è
contenuta anche la Red Music di
Andrea Portera, compositore fiorentino nato nel 1973. Si divide in tre
pannelli: 1. Sonatina (tribute
to Prokofiev) 2. Carillon, (... thinking Shostakovich) 3. Untitled
(Hommage an Rostropovich). Le avanguardie darmstadtiane sono lasciate alle spalle,
anche se non dimenticate. L’interesse di questa musica sta proprio nella
rinnovata innocenza di reinventare un modo di rendere la musica di nuovo rappresentativa.
Un filo sotterraneo, perciò, la unisce forse al Pierrot Lunaire, se non altro l’organico. Gli echi del neoclassicismo
prokofieviano, nella Sonatine, però, e le ombre della Quarta di Šostakovič,
nel secondo pannello, i giochi ironicamente sopracuti ma sopraffatti infine dai
suoni gravi del violoncello del senza titolo finale alludono, chi sa, a fantasmi
non ancora placati.
Fiano Romano, 17 maggio 2016