DINO VILLATICO
FETONTE
monologo
ἐλεύθερος δ’ ὢν δοῦλός ἐστι τοῦ λέχους.
Ἐυριπίδου Φαἐθοντος θραῦσμα ρ’ ν’ η’ (LOEB 506) 1
Sors tua mortalis. Non est mortale quod optas.
Ovidii Metamorphoseon II, 562
Qual
venne a Climené, per accertarsi
di
ciò ch’avea incontro a sé udito,
quei
ch’ancor fa li padri ai figli scarsi;
tal era io ...
Dante, Paradiso, XVII, 1 - 4
A mio padre, in memoriam
Ombre della lontana infanzia, sogni
del mio deserto di ricordi, amore
mai nei miei giorni con aperta gioia
goduto, eppure nelle mie più dolci
notti, nei miei più silenziosi voti
sospirato, baciato, intrattenuto,
a che mi ritornate, quali colpe
mi condannano, o quali redenzioni
mi assolvono? Fermate il vostro corso.
Ecco che mi concedo a voi. Vi cedo.
Lasciatemi sognare questo sogno
che ritorna. Lasciatemi dormire.
Ogni figura mi risana. M’apre
mondi perduti la mia lontananza.
Ah primi sguardi, miei primi sospiri,
come Fetonte dall’alto dei cieli
io cado da quel culmine del tempo
che inesperto la folgore divina
trafisse per la prima volta. Il resto,
non fu che sogno. E io lo sogno ancora.
PROLOGO
A sipario calato entra l’ATTORE. Indossa un accappatoio. La faccia impiastricciata di biacca.
L’ATTORE Salve. Sono l’attore che tra poco
vedrete recitare – se con gusto
da parte vostra o con disgusto, questo
sarete solo voi a giudicarlo -
il monologo in cui si rappresenta
il mito di Fetonte. Ma non sono -
potete constatarlo - il ragazzino
di vent’anni, che bello, seducente,
sfida il destino: il giovane arrapato
che celebra in quel giorno le sue nozze
con la ragazza scelta da sua madre.
Ma sua madre quel giorno gli rivela -
chi sa se mai pentita della scelta -
un segreto tenuto nel silenzio
per venti anni, un segreto che potrebbe
trasformare la vita del ragazzo.
Noi rappresenteremo questa sera
il mito di Fetonte, ma non come
Euripide per primo, e dopo Ovidio
ce lo hanno raccontato, ma piuttosto
come potrebbe viverlo nel giorno
di un oggi sgangherato e disilluso,
tra gli orridi palazzi del potere
di una grande città, mettiamo Roma,
un bel ragazzo di vent’anni, solo
e insoddisfatto della condizione,
che per altri sarebbe fortunata,
di figlio di papà. Perduta dietro sogni
che non sono i suoi sogni, la mente
del ragazzo fantastica radici
che ormai non sono quelle del bambino,
\ seminate dal padre magistrato,
dalla madre arrivista e faccendiera,
radici che non sente sue, di piante
differenti da quelle che si osserva
quando si guarda le sue mani, foglie
che vede separate dalla linfa
che scorre nelle vene del suo corpo:
un sangue d’altre vite, una sostanza
che lo raggela, la foresta immota
e gelida del padre che nemmeno
un giorno l’ha baciato, stretto forte
tra le braccia, il silenzio spaventoso
della madre che non gli parla, o quando
parla, sta per ingiungergli un divieto,
o parla solo per proibirgli il mondo.
Il giorno delle nozze, che nemmeno
si è accorto, fino a quella mattutina
doccia fredda che il calendario appeso
alla parete della stanza, un frego
sulla data, glielo ha rappresentato,
una minaccia, una condanna, il segno
di un’ubbidienza, non se n’era accorto,
no, di volerle, di doverle proprio
quel giorno celebrare, non capisce,
ancora non capisce se volute
da mamma, decretate, quelle nozze,
dal padre, congiurate dalla nonna,
tutta contro di lui congiurata,
compatta, complottante la famiglia,
il giorno delle nozze ecco che casca
la mannaia, si sfascia la fiducia,
finalmente sua madre gli rivela
che suo padre non è suo padre. Porca
la miseria, e ‘sta scema me lo dice
adesso, pensa il giovane, nel giorno
delle nozze. Se il giovane si arrabbia,
in cuore suo ne gode, e su due piedi
manda a fottio di capre il matrimonio.
Ma di chi poi sia figlio ascolterete
tra non molto l’enigma districato,
lascio sospesa la sua soluzione,
sarà lo stesso figlio a rivelarlo.
Io qui sono venuto a raccontavi
non tanto l’antefatto della storia,
quanto a spiegarvi che vedrete un uomo,
l’attore che ora qui vi sta parlando,
indossare le vesti di un ragazzo,
figurare i deliri di una madre,
lamentare il dolore di chi padre
solo da poco, solo da qualche ora
della notte, per qualche istante, un solo
irripetuto, interminato istante,
l’istante interminabile di un bacio,
vede, sente, constata in quell'istante
dissolversi, svanire come un soffio
l’imprevista felicità di tutta
la sua vita, esaurirsi come un lampo,
spegnersi come folgore improvvisa,
l’amore che intravisto e colto appena
si dilegua come ombra nel passato.
Io sono tutti e tre. O tutti e quattro.
L’attore, che comincia presentando
e dopo recitando i personaggi,
il figlio, poi la madre, ultimo il padre,
di tutti il più infelice, che l’amore
sente sottrarsi appena l’ha toccato.
Non figurate una corrispondenza,
perciò, tra la figura dell’attore
e le varie personificazioni
dei personaggi. La persona è solo
una maschera, la figura lieve
di un’apparenza. Sotto, chi sa, forse
il ghigno di un ricordo, la sembianza
di una paura, l’alito leggero
di una parola, un sospirato riso,
una vagante lacrima, la faccia
di un desiderio immaginario, tutto,
può darsi, sotto l’esagerata smorfia
di cartapesta, sotto la rugosa
velatura di un burattino, il viso
inespressivo di una marionetta.
Io stesso burattino e marionetta.
E giovane ventenne, amato amante,
erómenos efebo, che a suo padre
regala un erastès, entrambi accesi
di un impulsivo e folgorante amore;
e maschio, mi vedrete, sottomesso
all’amore di un uomo che avrò prima
però, per suo volere, sottomesso;
ma sarò donna, e madre petulante
dopo, in un intermezzo impuro, laido,
inverecondo, la caricatura
oscena di libidinosa madre.
Infine sarò padre, un quarantenne
aitante, affascinante del bel mondo,
un freddo testimone del successo,
un distaccato ingegno calcolante
del regno del profitto, ma dannato
e insieme anche redento da un amore,
che non è amore come gli altri amori,
non è consenso speculare, voce
dissimile che accorda l’altra voce,
ma speculare immagine dell’altro,
somiglianza che incontra somiglianza,
principio che s’intona nella fine,
fine che torna al suono dell’inizio,
perpetuo cerchio di perpetua brama,
cuore ferito a morte dalla morte
di chi scopre dapprima come figlio
ma riconosce presto come amante,
disperato di perderlo per sempre,
l’amore finalmente ritrovato,
perché nel primo bacio conosciuto,
il contatto è spezzato, separato,
non appena goduto il primo bacio.
Applaudite. Comincia la finzione.
Chi sa quanti di voi da questa storia
conosceranno di sé stessi l’ombra
notturna che segreta e sconosciuta
da sempre vive dentro il proprio cuore,
ma che avida di rivelarsi esplode
per le parole udite come un fuoco
che incendia l’esistenza e la consuma.
Scompare dietro il sipario.
I
Una stanza disadorna, disordinata, un letto sfatto, pantofole e scarpe sparse per terra, indumenti su un sedia, una scrivania ingombra di carte e di libri. Una libreria alla parete, i libri non in fila, qualcuno verticale qualcuno orizzontale. Sulla parete in fondo un’ampia porta di vetro che dà su un giardino. Una finestra, accanto alla porta, sempre aperta, si deve avere l’impressione di sentirsi addosso l’odore delle piante. Sul letto giace un GIOVANE sui vent’anni, calzoncini e maglietta da notte.
IL GIOVANE Una pazza! Ecco che cos’è mia madre.
Ma come posso crederle, se solo
adesso che ho vent’anni lei mi viene
a dire che mio padre non è quegli
che fino a oggi ho creduto mio padre?
Lo ha nascosto al marito, lo ha nascosto
a suo figlio, nascosto a tutti quanti.
Oggi dovrei sposarmi. Sono stati fatti
preparativi, a dire poco, degni
della corona d’Inghilterra. Dopo
la cerimonia, folla d’invitati
al Grand Hotel. Accanto – il faut le dire -
a quella meraviglia di anticaglia
d’una Roma rifatta e ripensata
da Buonarroti, ch’è la colossale
Santa Maria degli Angeli, là dentro
la basilica questo matrimonio
della Roma che conta, della Roma
del potere, l’avrebbe celebrato
addirittura un vescovo, la Roma
bene appagata, e fiero il generone
capitolino. Puf! L’acuta punta
di uno spillo che buca un palloncino.
Tuttavia, a mia moglie, ops! mi correggo:
a quella che sarebbe diventata
oggi mia moglie, dire ma che cosa?
O quale scappatoia escogitare?
Ci ho ripensato, sai, no, non è cosa,
non sono chi tu pensi, soprattutto
non sono chi tuo padre mi vorrebbe,
e figurarsi poi tua madre. Quella
si figurava già sua figlia moglie
di un magistrato. Ma mio padre, invece,
non è mio padre. Mica una faccenda
da poco: sono un figlio di puttana.
Eh sì. Ora lo so. E te lo dico.
Ho una madre puttana, me l’ha detto
appena adesso. Cioè, non ha detto
ch’è una puttana, ha detto che mio padre
non è mio padre. Mio padre, un cornuto.
Sono figlio, lei dice, addirittura
di un industriale enorme, eccezionale,
un Sole sulla terra, che ha sfondato
alla grande, nel Nord, dapprima,
e poi in tutta Italia, in tutta Europa,
in tutto il mondo. Lui non ha rivali.
È il top dell’automobile. Produce
imbattibili macchine da corsa:
un grande, un genio, un nome che fa scena,
il nome che fa chic dove lo senti,
e vince tutti i raid del mondo:
da Monaco a Le Mans, a Monza. Dove
arriva, arriva il più grande di tutti.
Insomma, e questo è il punto che interessa,
è per mia madre, che sarà puttana,
ma è puttana del mondo, questo dio
è uno che sta in alto, assai più in alto
del marito. La gerarchia sociale
è ciò che conta per mia madre: poco
importa, dunque, se a scaldare il seggio
del potere, a poggiare il culo giusto
sul posto giusto, è il culo rotto, marcio
di un farabutto o il culo intatto, sano
di un onesto. Le importa che comandi.
Si alza dal letto. Cammina su e giù per la stanza.
Ma mo’, che faccio? Sarà pure un grande,
ma io sono un bastardo. Mi figuro
i battibecchi nei salotti, i detti
e contraddetti in casa della sposa.
Tutta quell’aria, quella puzza al naso,
la magistrata dei miei cavolfiori,
e poi non è nemmeno figlio suo.
E chi ci crede all’incidente? Fatto
con un altro, e nascondono l’affare. -
Resta un attimo a pensarci su.
Sarà per questo che ‘sto grande figlio
di puttana non m’ha riconosciuto?
Come pensano qua che me la sbroglio?
Che dico alla ragazza che mi aspetta
già vestita di bianco? Ma che faccio,
afferro furibondo la cornetta
del telefono, e chiamo quello vero,
di padre, quello che rispetto a lui
chi credo padre è un microbo, un insetto?
E che gli dico? Fa’ qualcosa, cazzo,
sono tuo figlio: tiramene fuori.
Ma se nemmeno lo conosco. Visto,
l’avrò visto sì e no tre volte a Parma.
Uno fico, un bell’uomo sui quaranta.
Ma era un ragazzino, porco Giuda,
quando se l’è scopata quella zozza
di mia madre!
Contraffà la voce, cercando d’imitare la voce di sua madre, roca, profonda, per niente stridula. L’imitazione è caricaturale, derisoria.
Ma come non avrei potuto,
figlio, se avevo solo quindici anni?
L’ho nascosto, nascosto a tutti. Un anno
di vacanza a Ginevra, e voilà sono
tornata intatta come quando sono
nata. Ma poi con l’altro abbiamo fatto
un accordo, ch’è stato un incidente
di gioventù, Si andava su a Cortina
tutti gli anni, fin da ragazzi, tanto
d’estate che d’inverno. Naturale
che nessuno trovasse da ridire.
Si ferma sul proscenio. Guarda la platea. Esagera ancora di più la vociaccia femminile di sua madre.
Ma l’altro, oh! l’altro, chi mai lo vedeva
qui a Roma? Ci è venuto quando ha preso
moglie. Pochi anni fa. Ma di nascosto,
ogni tanto, mi strizza l’occhio. Io volto
la faccia e lui la smette. Ma l’hai visto,
no? quella volta a Parma. Mica bello,
vero? Forse ho sbagliato. Lui è forte.
Ma sai, comanda il mondo, lei mi dice,
e piano, nell’orecchio. Lo comanda
per davvero, lui sì, mica per finta.
Riprende l’impostazione della propria voce.
Sottinteso: quest’altro, quello falso,
quello che tutti credono tuo padre,
è un sottomesso, un servo, una marchetta. -
Esplode. Incazzato nero.
Ma dovevi aspettare che compissi
vent’anni, mamma. per sputarmi in faccia
l’oscena verità? Che tu non sei
che una puttana e mio padre un cornuto?
Aspettare per giunta che arrivasse
il giorno delle nozze? Giusto prima
di andare in chiesa? Sei pazza o che sei?
Non ti credo. Vuoi farti grande, vuoi
liberarti di lui, di un sottomesso,
di un insignificante subalterno,
per essere l’amante di un padrone,
di un dio!
Reimposta la voce a imitazione della voce della madre.
Uno che quando apre la bocca,
fa tremare Wall Street, fa impallidire
con un cenno la faccia del ministro
delle finanze. Ma lui resta, invece,
a comandare la borsa di Londra,
di Parigi, di Mosca, tutte quante.
Con la propria voce:
Ma che cosa t’immagini? che il figlio
bastardo di un potente possa fare,
mamma, qualcosa al mondo di più grande
che il figlio, come me, di un magistrato?
Ma sai chi sono, che m’hai fatto, mamma?
Io sono un figlio di puttana. Ma puttana
di un potente, dirai. E dillo, dillo,
mamma, così sapranno tutti, tutti,
chi sono, chi tu veramente sei.
Sai le risate al bridge della stronza
dove ti metti in ghingheri le volte
che ci vai. Te li sogni promozioni
e avanzamenti per quel figurante
di tuo marito. - E già che siamo al punto,
all’impiegato, al tuttofare, al servo,
glielo hai detto? Ma quanti cazzi, mamma,
di un uomo che non fosse tuo marito,
hanno bucato la tua fica, l’hanno
spupazzata, e tu, generosa, li hai
ricevuti, ospitati, benedetti?
Si ode una voce femminile da fuori, apertamente femminile, anche se non acuta né stridula, ma roca, tuttavia diversa dalla imitazione caricaturale del figlio:
Cincìn! Che fai lì solo al buio? Vieni
qua, c’è il sole che splende sul giardino.
IL GIOVANE Il Sole! Tsé!
Rivolto all’interno:
Che vuoi? No, preferisco
il buio. Non seccarmi. Ci sentiamo
più tardi.
Si butta sul letto supino, le mani sotto la nuca.
Quanto rompe. Poi si dice
che a creare problemi oggi nel mondo
sono i giovani. Sono i vecchi, vecchi,
cornuti vecchi, pippe, strafottute
pippe la notte e il giorno che si fanno,
e straparlano, imprecano, bugiardi,
vomitando sui giovani veleno -
sconclusionati , inefficienti, vuoti -
ma se la sono costruita loro
questa miseria, questa porcheria
di società che si sono inventata.
Quasi quasi mi ammazzo. Così almeno
lascio addosso il rimorso della merda,
tutta la merda, che mi hanno buttato
nelle orecchie: per il tuo bene, figlio
mio, che credi? solo per il tuo bene.
Puah! - Ma tanto per cominciare, adesso
parlo io e lo dico forte, forte:
non mi sposo, non voglio più sposarmi.
Quella sciacquetta se la cucchi un altro.
Buio.
II
La stessa scena. Qualche ora dopo. Sulla scrivania c’è un computer portatile aperto. Si ode gracchiare un rap. Il GIOVANE è sdraiato sul letto in mutande.
La vita e ‘na monnezza.
Non vedo che schifezza.
Mia madre è ‘na puttana.
Quel frocio di mio padre
lo piglia in culo, ma sta ‘n campana.
Lo stesso che mia madre,
mia madre è ‘na puttana,
sta ‘n campana tutto ‘l giorno,
tutto ‘l giorno per un cazzo,
un cazzo a cena e dopocena
e finisce lo stramazzo,
finisce ‘n quarantena.
Basta un cazzo ben fornito,
conto in banca ben nutrito.
La vita è ‘na schifezza.
E tu si’ ‘a vita mia,
c’ho puoi giurà, mamma mia,
‘na vera fentenzia.
Il mondo è un culo senza buco,
e dentro ci sta un bruco,
un bruco che lo mangia,
lo mozzica, e s’arrangia,
ma è un culo senza buco,
‘na chiavica puzzolente,
e ‘l mondo è ‘na monnezza.
Ci muoio dentro con la pezza,
ci muoio senza pezza.
Non mi resta che la fossa.
Ci casco dentro pelle e ossa.
IL GIOVANE L’hanno portata all’ospedale, morta
di rabbia. La famiglia mi minaccia
una causa. Di che? Che il bravo figlio
di mammà, che il pupillo di papà
non glielo ficca più? Ma la vergogna,
la vergogna, mio caro! La vergogna,
stronza, è quello che non sapevo, il fatto
tenuto nella pancia per vent’anni!
No, non mi sposo, non mi sposo più.
Guarda. Lo piglio in culo. Preferisco
frocio, perché lo voglio io, che senza
che io lo sappia, sentirmelo ficcato.
Ma tu, mignotta, mamma, mamma, come
te lo sei sbrindellato nella fica
il cazzo di papà, quel cazzo grosso
di un dominante? Mamma, mi fai schifo! -
Si alza. S’infila un paio di jeans, indossa una maglietta rossa.
Non resisto. Mi faccio un giro. Vado
a puttane. Mi calmeranno. Cazzo!
Ma come credo di poterne uscire
da questo maledetto imbroglio? Vado,
mi scopo la puttana che m’illude
carezzandomi il lobo dell’orecchio,
e mi sussurra: mio piccino, quanto
male ti fanno! O merda! Vaffanculo!
Io penso che mi fotto, mi strafotto
del lugubre casino, del merdaio
in cui m’hanno ficcato. Sì, ficcato!
Mia madre, e anche mio padre. Figurarsi
se non lo sa. Capire, invece, questo
devo fare: capire. Ero felice,
da bambino? Mi pare, mi ricordo
ch’ero felice. O forse no? Se tutti
ripetono che da bambini sono
stati felici, tutti, tutti sono
nient’altro che ridicoli bugiardi.
Anche te, che ti dicono mio padre.
Ma no! Sono più brave le puttane.
Mi servono, le voglio, questa notte
voglio morire tra le braccia di una
puttana. Su. Vediamo. Sì, vediamo.
Si siede davanti alla scrivania. Apre il computer, lo avvia.
E dai! Sbrìgati, pezzo di ferraglia!
Ecco. Sì, sono io. Qui, nato a Roma.
Fichetto che ti fotte. Questo è il nick.
Perché profilo in cui non mento, sono
chi sono. Uso quell’altro, del pischello
senza fissa dimora? Uno sfigato,
come tutti i pischelli. Attira like,
impietosisce, allo sfigato mica
si nega una carezza. Se poi paga,
perché negarsi, rifiutarsi? I soldi
sono apolidi. Tanto una piotta
è sempre una piotta. Guarda questa!
Si accontenta di mezza. Ma che cozza!
Guardiamo un’altra. Cazzo! Un’alra cozza!
Ma davvero mi basta una scopata
a spegnere la rabbia? Se mi chiedo
da che mi monta questa rabbia, quale
fica l’appagherebbe? A questa chat,
non è sempre questione di una fica
o di un cazzo. La fuga è proprio questa:
pensare che si tratta di una fica
o di un cazzo. Ma quando ero un bambino,
ero felice? Ma poi che pretendevo?
Felicità, sapessimo che cosa
cerchiamo quando ci diciamo, piano,
per paura che scappi, la parola
felicità. Mi sfotte anche il mio nome.
Salvatore. Di che? Di chi? La fine
di ogni salvatore è sempre quella:
di morire ammazzato. O fulminato,
come Fetonte, il figlio luminoso
anche lui di un potente, addirittura
del Sole o di uno che diceva, furbo,
di essere il Sole. Povero ragazzo!
Chiese il carro del Sole che attraversa
il cielo, ma rischiò d’incenerire
l’universo. Non lo sapeva, forse,
suo padre che ogni figlio questo vuole:
bruciare il mondo? Un fuoco solo
non basta a compensare la distanza,
la differenza tra la vita scelta
per me da un altro, e l’altra vita, quella
che non è ciò che gli uomini mortali
chiamano vita? Che vita pensarmi
se non sono la scoria dei viventi,
ma il figlio di qualcuno che la gente
venera come un dio? Lo sospettava,
chi sa, l’impiegatuccio che credevo,
e credo ancora, non lo so, mio padre.
Ma se lo sospettava, il sottomesso,
l’ha ben nascosto, anche a sé stesso. Il figlio,
il sospettato figlio, non doveva
nemmeno intravederlo, non doveva
nemmeno dubitare, che di un altro
fosse figlio. Ragioni di decenza
più che di convenienza. Ma ritorno
a chiedermi: felice, ero felice
da bambino? Il silenzio delle cose,
la verità celata, m’era un fatto
di tutti i giorni. Ma non ne soffrivo.
Avrei sofferto, invece, se lo avessi
saputo, ciò che tanto l’una quanto
l’altro mi nascondevano, mia madre,
e, consenziente, opaco, anche mio padre?
Si alza. Butta il computer per terra.
Buio.
III
La stessa scena. Vuota. La radio, a tutto volume, lancia una canzone: Mina, Parole, parole.
https://www.youtube.com/watch?v=siQ3vEWSYkM
Entra come una belva, SALVATORE, guarda il computer per terra. Lo raccoglie. Lo poggia sulla scrivania. Prova se funziona. Sulla parete in fondo appaiono le parole che sta digitando: “Sei tu mio padre?”
Buio.
IV
La stessa scena. SALVATORE ha in mano un cellulare. Compone un numero. Porta il cellulare alla bocca.
SALVATORE Quando devo venire? Dove? Bene.
Aspettami. Verrò, non dubitare.
Perché dovrei fregarti? Mica sono
come te. Puntualmente, tra mezz’ora.
No, aspetta. Mi dimenticavo. Devo
prima aggiustare alcune cose. Questa
sera, magari per l’ora di cena,
così abbiamo più tempo per parlare.
Andiamo in qualche ristorante. Oppure
m’inviti a casa tua. Non puoi? Ah, certo.
Tua moglie. Già, la mia matrigna. Questa,
ch’è mia madre, non so come chiamarla.
Va bene per le nove. Al Mattatoio.
Sì, so dov’è, ci vado spesso. Mica
sono un pischello casalingo. Vado
dove cazzo mi pare, quando voglio.
Se poi mi piaci? Ma che cazzo dici?
Non sono frocio. Ah, solo come padre.
Boh, fa’ te. Che mi frega? Puoi piacermi
oppure non piacermi. Fa lo stesso.
Uno le amanti, e anche gli amanti, visto
che ti piace parlarne, non capisco,
uno le amanti e. se ti piace, pure
gli amanti, se li sceglie. Le separa
dal mazzo, quelle che ha deciso giuste.
E le altre, vaffanculo. Vabbe’, gli altri,
anche gli altri. Perché insisti, c’hai
‘n problema? Io, no. Ma ti volevo
spiegare che c’è qualche differenza.
Il padre uno mica se lo sceglie.
O frocio o puttaniere te lo tieni.
Vabbe’, ciao! No, figurati. L’offeso,
se mai, dovrebbe essere un altro. Un altro,
sì, e sai chi. Ve bene. Ci vediamo
alle nove, stasera, lì, davanti
al Mattatoio. Con i fiocchi, vedi,
mattanza con i fiocchi. Tutti e due.
Anzi no, tutti e quattro. Cinque, poi,
se ci ficchi tua moglie. Un bacio? Certo.
Per telefono non fa danni. A dopo.
Chiude la conversazione. Butta il cellulare sul letto. Apre il computer, cerca, comincia a navigare. Sulla parete in fondo compare la scritta: Padre versatile 40 per figlio uguale. SALVATORE digita una domanda: Dove? Risposta: Testaccio. Domanda: Quando, stasera? Risposta: Stasera non posso.
Brutto frocio schifoso! Non mi fotti.
Me, frocio, puttaniere, non mi fotti.
Buio.
V
La stessa scena. Vuota. Il letto sfatto. Sulla vetrata un immenso schermo di computer. Compare la faccia di una donna (per la rappresentazione potrebbe essere lo stesso attore che recita la parte di Salvatore, vistosamente truccato da donna). Labbra col rossetto viola. Ciglia vistosamente impiastricciate di rimmel. Sopracciglia inesistenti. Voce melliflua, suadente, platealmente caricaturale, quasi da checca o da trans. Ma non femminile. Anzi robusta, profonda, da “maschio”.
LA DONNA Sono tua madre. Sono uscita presto
dall’ospedale. Mi hanno spinta fuori
dal letto e dalla stanza, neanche fossi
una zingara, un’abusiva, qualche
zozza pezzente senz’arte né parte.
Ci ho riflettuto: hai fatto bene. In fondo
quella squinzia che t’eri preso, figlio,
non mi piaceva. Mi è bastato avere
davanti agli occhi la sua faccia piena
di brufoli, grassoccia, opaca; udire
la sua voce di papera spennata,
guardare la sua ruvida cotenna,
una carta assorbente, devastata
dai tatuaggi, com’è di moda oggi;
mi è bastato sentirla strascicare,
con voce di gallina spennacchiata,
“No, no, Salviuccio mio, no, non lo fare!”
e m’è venuto il vomito! le smorfie,
le mossettine di una bambolina,
mi hanno presto restituito tutta
la fattispecie della situazione.
Hai fatto bene. Non valeva, figlio
chi sei. Ma tu dovevi laurearti,
prima, infilarti in qualche grande studio
di avvocato, azzardare la carriera
di magistrato, come quel coglione
che credevi tuo padre. Per imboscarti
tra chi conta nel mondo, chi comanda.
Questo volevo. Che non somigliassi
a un impiegato. Come mio marito,
ch’è giudice, e ubbidisce al primo stronzo
che gli strilla sul naso. Come fosse
l’ultimo dipendente di un ministro.
Ti volevo ministro, ti volevo
seduto tra i potenti, un figlio, il mio,
che non è dipendente, ma comanda
ai dipendenti. Lo capivi, questo?
Non capisco perché dunque mi sputi
tante sconcezze addosso. Capisco
le sconcezze, non quelle che mi dici.
Ma so che hai fatto bene. Quella squinzia
non meritava il letto che le offrivi.
Dobbiamo, figlio mio, dunque, vederci.
Che tu lo voglia o no, resto tua madre.
Ma stasera non posso. Vado al bridge
della moglie del giudice che sai.
Mio marito – non vuoi – e giustamente -
che lo chiami tuo padre – mio marito
non viene: dice che non è decente
per un giudice andare con la moglie
al bridge della moglie di un collega.
Ma domani dobbiamo senza meno
vederci. Indispensabile parlarci,
dirci tutto. Ti spiegherò, vedrai.
Non sono la puttana che spiattelli
a destra e a manca. Non dimenticare
che sono e resterò sempre tua madre. -
Cincìn, che vuoi, se a letto quella cozza
tu te la sei scopata – no? - nemmeno
una volta? - ma dai! sei più fichetto
di come ti facevo – ma ripeto:
se a letto qualche volta l’hai leccata,
quell’umida sorchetta, saprai quanto
la porca gode e smania se un trivello
la ispeziona e la smucina per bene.
Questo tua madre te lo deve dire.
Non mi facevi quella che ti sembro,
adesso che ti parlo come parlo?
E allora, gnucco, ascoltami! Tuo padre -
quello vero, non quel coglione calvo
che ho sposato, e che ha perso a cinquant'anni
tutti i denti, non morde una lumaca,
somiglia a chi s’inchina quando passa
il superiore, apre la bocca, e ride,
e fa vedere a tutti che non morde -
ah no! non quello - ma il tuo vero padre -
ebbene, quello, sappi, figlio mio,
la trivella ce l’ha grossa e potente.
Mai nessuno nel mondo con più forza
la usa e resistenza e ostinazione
più di lui. Tu, perciò, non giudicarmi.
Nessuna donna – ma, chi sa, può darsi,
nemmeno un uomo - a lui sa dire un no .
Chi sa che un giorno, invece, se non sono
del tutto cieca, capirai; mignotta,
forse, non so, tu lo sei più di me.
Bacino, mio Cincìn. Tu mi assomigli
più di quanto supponi. Auguri, figlio,
sarai, lo so, ciò che davvero sei.
Muove le labbra in un osceno lunghissimo viscidissimo bacio.
Buio.
VI
La stessa scena, notte. SALVATORE, vestito, supino sul letto.
SALVATORE La prima notte con mio padre. Notte
profonda, cupa, come la mia vita,
forse anche la sua vita. Notte dura,
di temuta, ma preveduta, vera -
ah! quanto vera! - più per lui, può darsi,
che per me, riscoperta di sé stesso -
ma insieme la sconfitta, anzi la resa,
come se l’atto, lo sprofondamento
totale di conoscersi per quello
che si è, discrostando dalla pelle
la polvere e le croste che negli anni
la famiglia, la scuola, le amicizie,
anche le più fidate, le segrete,
in cui l’intimità, la confidenza
studiano una complicità perversa,
ti hanno incollato addosso, quasi
una seconda pelle, una mostruosa
maschera di altri personaggi, quelli
che vuoi, quelli che vogliono tu sia,
come se dopo la recitazione,
quell’atto di levarti dalla faccia
la maschera, ti tolga, con ferocia,
anche la pelle, scopra la tua carne,
dissolva le tue ossa, e resti un’ombra,
un simulacro di chi eri, o, meglio,
di chi credevi di essere. Sei nudo,
sei di te stesso solo un’apparenza.
E hai paura di polverizzarti,
scomparire, dissolverti nel nulla.
Lo sapevo a che cosa andavo incontro.
Sapevo che incontravo non mio padre,
o non solo mio padre. Ma la parte
di me che avevo ricacciato indietro,
rintuzzato, soppressa, come stolta
fantasia, l’illusione di un me stesso
che sapevo chi fosse, ma negavo
che lo fossi. Di fronte a lui non ero
che uno che chiedeva spiegazioni.
La voglia d’insultarlo, svergognarlo,
farlo sentire un microbo, un insetto,
per non essere io l’insetto, il virus
che infettava la mia sopravvivenza.
Ma non così. Mio Dio, no, che pazzia,
la stessa che travolse, un’altra notte,
venti anni fa, chi sa, mia madre. Notte
per tutti e due di perdimento, strazio,
di spreco, una tortura, voglia matta
di strafarsi, dimenticare tutto,
dimenticare tutto fino in fondo,
quello che c’era prima che accadesse,
e quello che accadeva, mentre stava
accadendo, e poi, dopo, risvuotarsi,
dimenticare che fosse accaduto:
non essere che un assoluto niente.
Il peggio è che l’oltraggio, il suo supposto
oltraggio, non lo fu, né per mia madre,
né per me, come lo pensavo, come
lo temevo. Nel figlio, e nella madre,
non un oltraggio - per la madre, forse,
uno stupro - ma per il figlio come
chiamarlo? La violenza era, se mai,
tutta da parte mia. Per aggredirlo,
demolirlo, distruggerlo. Quel padre
che ti rifiuta, che anzi, peggio, vuole
toglierti il nome, cancellarti, come
a negare che esisti, un incidente
di percorso, la scema ti ha tenuto,
si è rifiutata di abortire, dici:
ma lui che c’entra? - il piccolo fardello,
se non si può buttarlo dentro un secchio
dell’immondizia, basta cancellarlo
dal registro dei vivi, dei presenti,
rifiutarsi di dargli un nome, il tuo,
fingerlo inesistente. Sono io,
papà, ma lo capisci? Sono io!
Sei tu, è vero. E hai la stessa faccia
di tua madre. La stessa bocca, gli occhi
come i suoi. Ma più bello, forse, il loro
azzurro, più profondo, più tremendo.
Com’è sempre tremendo quando guardi
la cosa che conosci e hai paura
di conoscerla. Oh, tu. Come sei bello,
Chi sa che cosa mi nasconde ancora
il tuo corpo di te. Non ti nasconde
niente. Non sono come te. Ma vuoi
vederlo? Dal bicchiere scivolava
tra le tue labbra l’ultima sorsata
di vino. Vidi la tua lingua. Dove
vuoi farmelo vedere? Lascia stare.
Qui non si può. Ma tu, lo vuoi vedere?
Non chiederlo, non chiedermelo più.
Sapresti dove andare? Due minuti,
e ti rispondo. Il cellulare fece
da Galeotto, offerse un imprevisto
ma sospirato spazio - e più da lui
che da me, sospirato – fui la preda
delle pupille di un voyeur voglioso,
le vidi che mi stavano scrutando,
disegnando, svestendo dalla testa
ai piedi, e in quel momento fui travolto
dal mio nuovo, ma stradesiderato
e fino a quel momento insospettato
frenetico capriccio di strip-teaser:
la ripetuta rappresentazione
di quel maldestro istinto familiare
che ci univa, adesso conosceva
il suo teatro adatto: una stamberga
di un single puttaniere – inappropriato,
troppo fine chiamarla garçonnière -
da porco navigato la cedeva
volentieri e curioso alle porcate
di un amico. Che novità mai questa?
Con un uomo? e da quando? Tagliai corto,
si sbagliava. Pensava male, dissi.
Ma non sapevo ancora se tra noi,
ci sarebbero state le porcate,
o se la porcheria sarebbe stata
solo una sfida, una vendetta, voglia
di sputtanarlo, o la sua di vedere
fino a che punto questo strano figlio
si sarebbe lasciato da suo padre,
da quest’uomo potente, imprenditore
aitante e puttaniere, lui che aveva
inseminato con l’inganno quella
Bovary scriteriata di sua madre,
fino a che punto, vero, padre mio,
mi avresti trascinato in quel profondo
gorgo di cattiveria, di paure
che minacciano il sesso, quando un padre
sfida suo figlio. Povero demente!
Se qualcuno sfidava l’altro, certo
non era il padre. Mi vedrai. Ma peggio
per te, se poi, demonio, brutto frocio,
vorrai farmi anche a me, che non lo voglio,
ciò che hai fatto a mia madre. Vieni, Andiamo. -
Il ricordo mi acceca. Questa prima
parte l’abbiamo noi già recitata.
Oppure il desiderio suggerisce
che quanto sto vivendo non l’ho ancora
vissuto fino in fondo, e la paura
mi dice che non l’ho vissuto affatto.
Buio.
VII
La stessa scena. Ma la porta di vetri che dà sul giardino è spalancata. Sdraiato sull’erba, SALVATORE, supino, le mani sotto la nuca, guarda il cielo. Indossa pantaloni e maglietta bianchi, scarpe da tennis Superga bianche. Sole a picco.
SALVATORE Finalmente, ecco il giorno. Più ci penso,
più ricordo, più sembra che non sono nato
che questa notte, che per questa notte.
Chi fosse il predatore, chi la preda,
non lo capisco. Ma una scappatoia -
per lui, per me? - l’insulto che gli ho, dopo -
ah già! dopo - sputato sulla faccia.
Frocio, tra noi, chi di noi due? Il figlio
che s’incula suo padre, o l’uomo, il padre,
che si lascia inculare da suo figlio?
Ma – e se fosse amore? -
urlando:
Non lo accetto!
Sussurrando, quasi impercettibile:
Non posso, non potrò mai accettarlo:
no, no, non devo. - Chi me lo proibisce?
Mia madre? Io? - Ma se chi più dovrebbe
inorridirne, sembra invece estratto
da sé stesso, rapito, inebetito,
felice e soddisfatto, come solo
può esserlo un bambino, quasi il figlio
fosse lui, e io chi glielo chiarisce,
il padre che gli spiega la lezione.
Buio.
VIII
La stessa scena. La vetrata è chiusa. SALVATORE davanti alla scrivania che digita sulla tastiera del computer. È notte. Sullo schermo del computer ingrandito sulla parete compare il dialogo di SALVATORE con suo PADRE.
SALVATORE Chi sei? Come hai potuto? Ero tua preda.
Hai voluto – con quanta tenerezza! -
essere tu la mia. Chi ti obbligava?
IL PADRE Nessuno, figlio. O, forse, perdonarmi,
e punirmi, non so, questi venti anni
di silenzio, finzione, di menzogna.
SALVATORE Bastava un bacio. Quello che mai volle
darmi l’altro, anche se glielo chiedevo.
Tu ti sei consegnato, offerto, dato.
IL PADRE Tutti e due esitiamo a dirci, figlio,
la parola che chiarirebbe il senso
di ciò che abbiamo fatto. Ma va bene.
SALVATORE E se invece te la dicessi, quella
parola? Ma con quale nome posso,
per dirtela, chiamarti? Ne conosco …
IL PADRE Non scriverne nessuna di parola.
Tutte ci sembrerebbero sbagliate.
Quella vera, la sola, tu la sai.
SALVATORE Sì, la so. Mi solletica le labbra.
Ma ho paura a dirla. Tu la sai.
Anche tu come me. Perché la taci?
IL PADRE Perché dirla non salva. Non ci salva.
E non ci assolverebbe. Ma noi, prima
di pronunciarla, l’abbiamo vissuta.
Buio.
IX
La stessa scena. SALVATORE sul proscenio. Indossa gli stessi pantaloni bianchi e la stessa maglietta anch’essa bianca della scena VII. Sfila il cellulare da una tasca dei pantaloni. Compone un numero. Si porta il cellulare, orizzontale, davanti alla bocca. Aspetta. Finalmente risponde:
SALVATORE Ciao! Riconosci la mia voce? Sono
io, sì. Avevo voglia di sentirti.
Sono passati dieci giorni. Un tempo
sterminato, papà, senza vederci.
Non sono più lo stesso. Puoi capire.
Gli insulti che ti ho detto, prima, prima -
oh sai tu di che cosa sono rabbia,
furono il mio furore di deluso.
Ma non contro di te. Piuttosto contro
di me. Ho sempre questa rabbia addosso.
Come se mi sentissi catturato,
ingannato, non so da chi, da un padre
che non è padre, da una madre stolta,
da me stesso, vorrei essere io
chi sorprende, raccoglie, chi cattura.
Sento invece che fuggono, che fanno
giochi con il mio corpo, come quando
mi lanciavano in aria per lasciarmi
dopo precipitare come un sasso
nel mare3. E ho paura di morire.
Come anche questa notte sono morto,
ma nessuno ha giocato con il mio
corpo, sono io, anzi, che ho giocato -
ma dieci giorni fa, mi sembra un tempo
infinito, lontano quasi come
il tempo della mia infanzia – sono
io che ho giocato, papà, con il tuo.
E come avrei potuto, dunque, allora
insultarti, se la parola giusta
sarebbe un’altra, che non oso dirti?
Dimentica. Dimenticami, magari.
Che vuoi da me? Che posso darti? Peggio:
che puoi tu darmi? Sì, bravo, l’hai detto.
Una cosa che non avevo mai
provato. Sì, la prima volta. Come,
però, non fosse, no, la prima volta,
come fosse successo sempre, fosse
qualcosa che sapevo, che volevo.
Anche tu? Ma davvero? L’hai sentito,
anche tu, come me, ch’era da sempre?
Anche per te la prima volta? Pensi
anche tu – dio, perché non mi riesce
di chiamarti con questo nome, il nome
con cui appena adesso mi hai chiamato? -
anche tu – padre che non sei più padre
ma qualcos’altro di più forte, il senso
di una vita, può darsi, ma distorto,
sbagliato, di una vita che si torce
su sé stessa, ritorna sui suoi passi,
e là dove dovrebbe cominciare,
fermare l’intrusione, s’introduce,
si lascia anzi introdurre, e cambia, inverte
la nostra storia, è questo che facciamo?
Sei tu che devi dirmi basta, smetti.
Io non so farlo. Sono incatenato
a ciò che abbiamo fatto quella notte,
sono passati dieci giorni e sembra
solo successo ieri. Un tempo immenso,
sterminato, come la propria infanzia,
eppure nel ricordo, oppure, credo,
nel desiderio, il tempo di un istante.
Dobbiamo pareggiare la partita.
Dobbiamo completare. Ricomporre
il troppo tempo sperperato, perso,
che nessuno di noi sapeva l’altro.
No, che dici? Ma dimmi, oh dimmi, invece,
che non dobbiamo. Muoio dalla voglia
di rivederti. E so che non ti devo
rivedere. Dimentico me stesso,
se ti vedo. Dimentico chi sei.
Ah no, ti prego. Fatti forza. Quello
che mi chiedi non è nient’altro, sai,
che ciò che voglio anche io. Ma noi dobbiamo
dominare gli impulsi. Ricusarci
di fondere lo sperma con lo sperma.
Io lo trasudo solo se ricordo
l’odore incancellabile del tuo
che m’inonda la faccia. Smetti, smetti.
Non verrò. Che mi chiedi? Ciò che vuoi
lo voglio anche io. Ma non dobbiamo. Come
sarebbe che nessuno lo proibisce?
Me lo proibisco io. Che? La natura?
Ah, la natura! I cani, i gatti, gli orsi,
i serpenti, lo sanno, forse, dimmi,
che cosa è, non è natura? Sbagli
se credi che sia questo a spaventarmi.
Il desiderio, ogni mio desiderio è natura.
Ma nessuno è natura, e basta. Siamo
anche qualcosa d’altro. Abbiamo tutti
una storia. Che vuoi, che voglio, padre,
se cedo, se cediamo a questo amore?
Buio.
X
La stessa scena. La stanza è vuota. Entra SALVATORE e si butta, sfinito, sul letto.
SALVATORE Un letto, un letto, nient’altro che un letto,
il tuo, il nostro, dove noi ci unimmo,
e dormirci lassù tutta la vita,
tutta la vita, padre, essere tuo,
tutta la vita, padre, possederti.
Sembrerebbe una libertà. Saltare
un traguardo, il confine del dovuto,
per addentrarsi dove non si sa,
oltre la specie, lontani dal tempo,
abolire la morte, fosse pure
per un istante, il tuo, il mio, il nostro:
e aboliremo con un atto il tempo.
Salvo invece a ricredersi tornando
nel tempo. E allora quell’indiamento,
l’oltrepassare i limiti del ruolo,
l’inebriarsi dell’assoluto, quando
dell’assoluto non si vede l’ombra,
e non sono aboliti affatto i ruoli,
e quel che resta è l’attimo di un grumo
di sperma, come chiameremo allora
questa furia d’amore: desiderio,
lussuria, smania, bramosia di un letto?
Ecco dove finisce tutta questa
vantata libertà: noi la crediamo
senza limiti, senza costrizioni,
ed essa, invece, è già una costrizione,
un cappio che ci stringe. Quanto sembra
possibile toccarla, impossessarsi
d’ogni spazio d’azione, ecco che invece
ci accorgiamo che la limitazione
è già l’immaginarla, figurarsi
se poi si vuole realizzarla. Un sogno.
Un sogno, forse. Bello, eccezionale,
il più bello che io abbia sognato
nella mia vita. È solo il mio ricordo
che sì, ho sentito vivere la vita
dentro di me, quando eri tu che dentro
di me me la versavi, quella vita
che appena nato tu mi avevi tolto,
negandomi il tuo nome. Ma in quel punto,
quando mi hai preso, quando io ho sentito
che mi prendevi, padre, io in quel punto,
sentendoti gridare mio mio mio,
io in quel punto, padre, io ho sentito
che la mia vita, tutta la mia vita,
tu in quel punto me la restituivi,
nel tuo venirmi dentro assaporavo
un flusso che m’inseminava il seme
di tutto l’universo. Ero un ragazzo.
Tu mi facevi dio. E sono pronto,
io sono adesso finalmente pronto
per la mia morte. Non si spezza invano
la traiettoria della procreazione,
né si delude senza scotto, senza
pagare un prezzo, l’ordine del tempo.
Un tempo, ormai, che io arresto. Colgo
l’attimo irripetibile, perfetto,
in cui questa mia vita ha conosciuto
la tua pienezza. Inopportuno, vano,
sperare di ripeterlo. Potessi
anzi con me travolgerti, l’amore
conoscerebbe una sua perfezione.
L’amore ci rivelerebbe l’uno
all’altro e scopriremmo ciò che siamo:
due particelle di un universale
orgasmo. Tutto il resto è un’illusione.
Ti amo, padre. E sono tuo per sempre.
Ecco, l’ho detto, il nome che atterrisce,
il cieco sagittario della sorte.
Addio, papà. Morire è quanto posso
restituirti ancora di me stesso.
Oh padre, padre, padre! Questo nome
mi è conficcato nella carne, morde,
scrutatore implacabile, ogni fibra
del mio corpo. S’infiltra nelle vene,
e circola nel sangue come nuovo
globulo della mia sostanza. Sono
figlio come nessuno fu mai figlio,
nessuno almeno con la decisione
con cui mi assumo nascita e natura,
trasformando la conseguenza nota
di un atto in una deliberazione
soltanto mia, di essere tuo come
nessun altro lo fu nella tua vita
né potrà dopo questa che ti dono
esserlo mai. Se nacqui e mi credetti
nato da un uomo, ora so che invece
sono nato da un dio, e fu divina
l’esecuzione con cui demmo forma
al nostro amore. Umano il mio destino,
ma non è umano questo desiderio
di te che mi smantella e che mi annienta.
Buio.
XI
Nessuna scena. Uno schermo cinematografico. Vi è proiettato un video. È filmata la corsa impazzita di un’automobile sportiva che si schianta contro un muro.
XII
Lo stesso schermo. Compare la figura, solo il volto, di un UOMO sui quaranta, o anche quarantacinque anni. Il PADRE di SALVATORE. A ricoprire la parte è sempre lo stesso attore che ha recitato la parte del figlio. Piano piano, mentre l’uomo parla, si configura la stanza di SALVATORE che gli spettatori già conoscono. Lo schermo arretra sul fondo. Finché la figura del PADRE sfuma e scompare. Resta la sua voce, ma anche quella alla fine tace.
IL PADRE Sì, volle essere posseduto. Disse
che doveva, voleva pareggiare
il conto. Ma non c’era tra noi conto
da saldare. Se mai, può darsi, c’era
una frattura, la compromissione
di un contatto che andava preservato,
che doveva restare irripetuto,
e, forse, addirittura non toccato.
Venti anni, figlio, senza la tua faccia.
Non l’ho vista, sdentata, la tua bocca
azzannare i capezzoli di tua
madre, non era che una quindicenne.
Fu come una ladruncola spedita
sui colli di Ginevra, il lago a specchio
della sua colpa. Una ragazza madre
tra gli svizzeri non fa storia – come
credevano i lombardi, suoi parenti,
che la Svizzera sanno per i soldi
che nascondono e per la cioccolata.
Non ti ho visto bambino, adolescente,
quando avresti potuto già turbarmi.
Mi sei venuto, faccia sulla faccia,
che avevi già venti anni. Seducente
come lo sono tutti, come lo ero
anch’io, quando si è giovani ventenni.
Ma tu eri speciale. Un’esperienza,
vederti, quando al Macro di Testaccio
m’apparisti, imbronciato, a me davanti
come apparve in Teorema Terence Stamp
agli occhi sbalorditi di Girotti.
Eri un angelo, lo Sterminatore,
può darsi; non sapevo, tuttavia,
a sterminare chi, se il padre fatuo
che ti aspettava, sulla piazza buia,
o se te stesso. Smisi, anzi, in quel punto,
di essere fatuo, e di essere me stesso,
di essere un padre, di essere anzi il padre
dell’angelo che mi guardava torvo.
Fu solo un punto, un attimo, lo sguardo
cupo si sciolse, e dalle labbra sparve
la smorfia di disgusto, si distese
la bocca in un sorriso. Ci stringemmo
la mano, ci fissammo, imbarazzati
dapprima, ma poi subito invasati,
e posseduti, intensamente, a lungo,
Uscì, fievole, un “ciao”, ci guardavamo.
Dieci giorni non sono un lungo tempo.
Ma in dieci giorni conoscemmo, l’uno
dell’altro, ciò che in una vita, spesso,
nessun uomo conosce dell’altr’uomo:
ci ricongiungevamo al nostro inizio,
e l’inizio era forma della fine.
Noi ci sentimmo, come in nessun tempo
mai, prima, ci eravamo percepiti,
l’uno e l’altro completi, completati,
quasi la stessa cosa. Era la prima
volta, ma ci sembrava che la cosa
era da sempre. No, mi sbaglio. Cosa
non era, ciò che sentivamo. Cosa
è l’aria, il mare, la montagna, il fiume.
Noi eravamo invece corpi, corpi
vivi, pulsanti, vita che respira.
Corpi, non cose, corpi che toccati
per un prodigio si erano d’un tratto
riconosciuti ormai complementari.
L’ordine primigenio dei viventi
nel mondo. L’individuo che subentra
all’individuo, che oltrepassa il velo
della specie, il confine delle cose,
non è un incidente, un’escrescenza
marginale che sorga da materia
malata, un eccezione del processo,
una lacuna dell’evoluzione,
ma l’essere che per la prima volta
documenta in sé stesso quell’unione
o, a meglio dire, quella universale
unità della vita sul pianeta.
Mi chiese, come garanzia di figlio,
pertinenza di padre – avrebbe forse
dovuto dirmi su quel letto dove
tutti e due ci eravamo rivelati,
pertinenza d’amante – non l’avevo
mai visto più esitante, più sfuggente;
mi chiese, infine, dopo lunghi giri
di parole, ma fattosi più secco,
più deciso, da me quasi esigendo
all’improvviso ciò che fino allora
era parso implorarmi, e sì, mi chiese,
come un atto di riconoscimento,
la regalia dovuta, se potessi,
io padre, al figlio, come nuova prova
che gli ero padre, che lui m’era figlio,
se potessi concedergli una corsa
sul recente prototipo che avevo
progettato per Vallelunga. Come
potevo sospettare la richiesta
di approvare un suicidio? - Vedo il Sole
che ancora sorge tutte le mattine
su montagne, gli oceani, le valli,
le pianure, i deserti, e laghi e fiumi
del mondo, ma una singola scintilla
del suo fuoco non dà più luce agli occhi
di Salvatore – posso adesso dirne
senza tremare il nome, perché nome
di un assente, vederli questi suoi
occhi allora zittivano la lingua -
se spenti, ciechi, sono ormai quegli occhi
insospettato fiume, inaccostato
sedimento di lacrime, la notte
di una felicità perduta e spenta,
in questi miei si è invece inaridito,
si è prosciugato, si è esaurito il fiume
delle lacrime. Se mai punizione
questa fosse di un padre innamorato
di suo figlio, natura mi sospenda
il suo giudizio, se giudizio ha voce
di perdono per l’alito che trema
al solo soffio che avvicina un labbro
all’altro labbro. Tenerezza sempre
invoca tenerezza. La condanni,
se può, solo chi in vita conosciuto
non ha mai la carezza di una mano,
o le cui vene non abbiano tremato
nel percepire il tremito di vene
anch’esse sospiranti quel contatto;
la condannino gli occhi senza luce
che non hanno mai visto l’appannarsi
della luce nell’occhio che ti cerca,
e beve la sua luce dal tuo occhio. -
Perché sia stata questa la sua scelta,
troncare ciò che s’era appena allora
cominciato, non lo saprò più, mai.
La mia felicità perduta è schianto
che anche nella dolcezza del ricordo
non s'acquieta, perché non mi ripete
la dolcezza che piango: il mio dolore
è dolore che di un incorrisposto
desiderio lamenta la ferita:
il solo che potrebbe riappagarlo
non può più corrispondermi. Ma questa
interruzione di corrispondenza
è male che per un eccesso estremo
di dolcezza mi toglie la dolcezza
di appagarmi, perché nel mio ricordo
bramo ciò che non posso più bramare.
Il desiderio non ha colpe, l’atto,
può darsi. Ma contro chi l’azione
che in un istante ci assolve o ci danna? -
Ho venduto la fabbrica. Mia moglie
non deve preoccuparsi per la sua
vecchiaia. Non ha figli. E dunque il tempo
potrà placarle, forse, la scomposta
solitudine, che l’avrebbe certo
in ogni caso accompagnata quando
i figli, adulti, avrebbero lasciato
la casa. Quanto a me, scomposta, come
per tutti, mi terrò la desolata
solitudine in cui mi affonda il sogno
di un’avventura che credevo attinta
finalmente per sempre, ma che invece
ho sentito strappata da una rabbia
che non comprendo, ma che avrei dovuto
prevedere. Mi sono ritirato
in un’isola dove unica presenza
di vita sono, a farmi compagnia,
gli uccelli su nell’aria e gli animali
nei boschi sulla terra. E la risacca
del mare sulla spiaggia, e sugli scogli
il fragore che fanno, tumultuose,
le onde, il ripetuto, inarrestato,
e quanto somigliante ai miei pensieri,
infrangersi dell’acqua e della schiuma
sulla pietra che, immota, le respinge.
Ma immoto, in me, è solo il desiderio
inattuato, la speranza ottusa
del ricordo, per questi giorni, e queste
notti, che mi trascorrono ingombrati
da chi non c’è, deserto la distesa
del mare, e più deserto ancora il vasto
spazio dei boschi, dove il cinguettio
costante degli uccelli mi risuona
come un impenetrabile silenzio.
La sola folla che ogni giorno assedia
questa mia solitudine, è il perenne,
perturbante vocio delle domande,
l’ostinato, angoscioso, interrogare
un destino, e può darsi un dio, quale
abbia senso la vita, e se davvero
un senso c’è tra le fratture opache
delle cose, o se siamo noi a dare
senso alle cose che non hanno senso.
Io sento la sua voce. Ma la voce
che sento, dove si nasconda, dove
esista, in quale spazio della mente,
o quale vita della terra, questo,
non lo so. Ma la sento. Ed è perpetuo
strazio sentirla, e non sapere dove,
se c’è, si annidi una sua consistenza.
A chi gli sopravvive, quasi fosse
una colpa restare, ogni scomparso
rimprovera la propria assenza. E resto,
amato figlio, abbandonato amante
a scontare il silenzio che m’imponi:
sì, questo tuo silenzio così pieno
della tua voce. Resto, e sono solo.
Scenda la notte. Il cielo senza sole
si rabbuia, e dal tenebroso amplesso
confortata la terra nel suo grembo
accoglie e custodisce gli scomparsi.
Buio.
FINE
Fiano Romano, 4 – 14 giugno 2022
1Benché libero è schiavo del letto. Euripide, Fetonte, frammento 158 (LOEB)
2Il tuo destino è mortale. Non è mortale ciò che desideri. Ovidio, Metamorfosi, II, 56
3Episodio narrato da Nonno nelle Dionisiache.