martedì 26 luglio 2022

Cinque carmi priapei

 









DINO VILLATICO


CINQUE CARMI PRIAPEI


                                Molte fiate la fantasia dipinge

paesaggi che accuratamente l’occhio

nasconde all’intelletto, ma nel cuore

sentirli li precorre: fosse sconcio

il paesaggio, un male visitarlo,

chi tapperebbe l’occhio, perché il cuore

più rapido vedendoli ti batte?

C’è più amore in un tiepido zampillo

che ambrato inumidisce le tue labbra,

di quanto te ne cantino parole

cantate dalla furia di un sonetto.




1.

Che mi diresti, amico, se ti svelo

che sogno le tue natiche, che scruto,

avido di bellezza, giorno e notte

il tuo corpo con l’immaginazione,

mi ficco con lo sguardo tra le falde

erbose delle tue colline, adocchio

nel fondo un incantato e scuro pozzo,

un luogo di misteri che s’innalza

nascosto in un giardino di delizie,

e io lo scorgo, al primo sguardo, aprirsi,

come un fiore tra i rami dei cespugli

di ginepro, divaricarsi, offrirsi,

come labbra che s’aprano allo stupro,

timorose del danno, ma felici,

se intimidito con le mie le tocco?


Come se non bastasse, il sogno infila

nel sogno un altro sogno, e mi figura

di quel giardino l’altra faccia, quella

che sta dall’altra parte, e che in difesa

s’inarca del giardino, il bel palazzo

innominato, la diletta rima

che inforca il desiderio e l’alimenta,

oh amico, lo vedessi, tu che l’occhio

non hai per ammirarlo a te davanti

come io lo guardo in estasi rapito.


L’insegna dell’ingresso mi minaccia,

ma insieme anche m’invita, io la guardo

che domina superba in mezzo all’erba,

e nel cespuglio fitto che l’accoglie

si mostra baluardo al passeggero

che vi acceda, lo invita ad onorarlo.


Lunga e affilata, l’arma mi si piazza

diritta sotto gli occhi, un tumultuoso

turbine a quella vista mi possiede,

e il rigoglioso cardine si muta,

e l’arma si rivela una fontana,

il becco aperto che zampilla miele,

tutta la vita sprizza in ogni goccia,

tutto il mondo si sparge in ogni spruzzo.

E io dalla chiavetta, stupefatto,

bevo, e annego in un’estasi perfetta.


In quell’istante avverto che il mio sogno

non è sogno, perché nella mia bocca

assaporo il sapore dell’ambrosia.


2.


Il sogno in cui la canna del tuo parco

mi disseta, e nel pozzo mi sprofondo

dove annego, non è che breve segno

del tuo modificarmi, una ferita

che appena mi scalfisce la mia pelle,

altre avventure sogna, altri deliqui,

più che la fantasia, la bramosia

di te, che, amico mio, mai non mi lascia.


Già toccare leggero le tue labbra

scatenerebbe in me l’ininterrotta

febbre che dalla testa ai piedi, tutte

infuoca sempre le mie vene. Un lieve

tremito nel contatto sentiresti

che muto spasimando ti direbbe

ciò che la bocca non ti sa più dire.


La lingua, poi, che insegue la tua lingua,

appena tu te la sentissi in bocca,

dall’inguine ti sentiresti dura

la tua spada, che già per infilzarmi

s’alza, o la mia per penetrarti, ardita,

che a te si appoggia: e tu mi premi forte

sull’asta che ti aspetta, quasi a dirmi:

vòltati che laggiù mi sentirai.


O dio del coito! Amabile Priapo!

Che cosa di più bello se lo sperma,

il seme profumato della vita,

l’uno all’altro nel culo immette, culo

adorato, per tutti e due, suprema

dedizione che vita sparge dove

vita prende, là dove la si dona

e poi restituita la si accoglie.


Ma poi perché di sperma e di nient’altro

il gioco si diverte? Non è forse

altro fuoco che infiamma, altro piacere,

qualunque umore voglia il bell’amante

al suo voglioso amato regalare?

Che dico umore? C’è divieto, forse,

c’è limite all’oggetto della voglia?


Tutto di te mi piace, perché tutto

vibra, tutto mi danza sotto gli occhi,

e ispira al desiderio l’acquietarsi

dei pensieri nell’estasi del dono.

Vuoi tu con me dividere quest’ansia

che appagata riprende il suo vigore,

che la sua fine unisce al suo principio,

che ricomincia mai sazia la sete

che ogni umore bevuto mi riaccende?


Io sono tuo, da me non sentirai

mai negarti nessuna tua richiesta,

fosse anche la più folle, la più sconcia,

la più maiala: un’unica ragione,

sappi, ci unisce. Ed è che bello, vero,

e lecito, dovuto ci dobbiamo

soltanto ciò che a tutti e due ci piace.


3.


Sono disteso sul letto, e nudo,

e con il corpo dei miei quarant’anni -

utopia figurarmelo di trenta,

oggi che ha superato già gli ottanta,

pazzia di venti – ma quaranta sono

perfetti, chiappe sode, gambe dritte,

denti sani, le labbra come mai

così voraci e prensili, piccante

la saliva, urticante, come un drink

ai bordi di una spiaggia, il mio liquore.

E più arzillo, più mobile, chi sai.

Il resto te lo lascio immaginare,

innominato amico, ne potresti

quasi essere curioso a investigarlo:

vedresti i miei capezzoli drizzarsi

al tocco della dita come due bambini

di Priapo, già so che la tua lingua,

inumidita, non resisterebbe,

e quelli tutti lieti salteranno

che muoversi li sentirai come

fringuelli tra le labbra. Come avrai

capito, sono steso sul mio letto,

e sono nudo, ma non sono solo:

perché la fantasia mi fa giacere

solo per te, per il tuo corpo irsuto

che innamorato guardo, e che arrapato

solo per me, solo da me goduto,

lo vorrei da leccare con la lingua.

Narciso benedetto ti farai

da me vedere in tutto il tuo fulgore,

io fisserò i tuoi occhi, dritto, a fondo,

nelle pupille, ed è preparazione

di un altro andare a fondo, l’esercizio

di Apollo di Giacinto, non importa

se la sfida è mortale, o Ganimede

tra gli artigli dell’aquila: guardarti

sarà già quasi una eiaculazione:

per te morire mi sarà goduria,

lo sperma che t’inonda dal mio cazzo.

Chi sa la tua, di sborra, l’impetuosa

tua eiaculazione, il profumato

flusso di vita ch’esce dal tuo cazzo,

il tuo seme che quotidiano bramo

sentirmelo lisciare le mie labbra,

chi sa, felice sottomesso e vasca,

come m’innaffierà con il suo fiotto,

la sentirò fluire in mezzo al petto,

m’inonderà la faccia, e di ogni goccia,

ogni zampillo, ogni schizzo, ogni spruzzo

di quella bianca spuma, sulla lingua

estasiato assaporerò l’aroma,

degusterò il sapore, un bianco latte

sgorgando sazierà le mie papille.

Che se poi d’altra pioggia mi vorrai

anche bagnare, io quella come flusso

di una fontana prodigiosa, fino

a sentirmela in gola gorgogliare,

mai dissetato la berrò e sentirla

passare lentamente dalla bocca

alla laringe e giù sempre vivace

nello stomaco, come una baccante

griderò evoè e danzerò

come satiro pazzo intorno al cazzo -

il tuo, che bramo e sogno di baciare,

leccare, spompinare, sleccazzare -

e dall’inguine irsuto scappellato

io lo vedrò, lo sentirò sputarmi

dentro in bocca il cognac di una contea

più nobile della contea di Francia.

Quando lo cominciamo questo gioco?

Quando verrai a farmene il tuo partner?

Io sono steso sul mio letto, e nudo.


4.


Anche l’amore ha sue misure, vuole

equazioni, disegna crittogrammi,

il mondo è matematica, dovrebbe

solo il sesso sfuggire al necessario

calcolo degli assalti, delle soste,

alla misurazione del piacere?

Il 9 al 6 sta come il dritto al suo

rovescio, il suo principio e la sua fine

si toccano alla fine e nel principio.

69 è un numero perfetto,

simmetrico, armonioso, ed elegante,

come nel cielo la costellazione

dei Pesci, o, più rassomigliante, quella

del Cancro: ch’è l’inizio dell’estate,

l’esplodere del caldo, lo slanciarsi

della vita nell’aria che feconda.

Ma noi che non vaghiamo in mezzo ai Pesci,

e non nutriamo un Cancro dentro il cuore,

che segno osserveremo, un 69

che alla nostra figura si convenga,

dove lo cercheremo, dove alfine

lo troveremo, se lo troveremo?

Lo Scorpione moltiplica gli accessi,

si ripete, ritorna su sé stesso,

infila molte volte il pungiglione

nella vaschetta dell’amato, dove attinge

il suo veleno e la sua guarigione.

E tu sei lo Scorpione, amico mio,

al quale il Toro cede la sua verga,

cede l’ultimo spruzzo dello sperma,

per bere dalla tua il tuo veleno.

E bevo, amico, fino ad ubriacarmi

di te, ti bevo fino al sorso estremo

della vita, il tuo Toro, ecco, ti beve

dal pungiglione il farmaco fatale

di Scorpione. Mi avrai così per sempre.

Cazzo e culo di Toro con il culo

a toccarsi ed il cazzo imbestialito

dello Scorpione. Oh nettare divino,

oh celestiale ambrosia, oh piscio, oh sperma! -

Ma lasciamo l’astrologia da parte,

consideriamo invece quanto al mondo

anche nel sesso il numero, preciso,

ci prefiguri il dritto ed il rovescio

di questa bella e salda posizione,

in cui ciascuno dei due giocatori

il proprio inizio alla fine congiunge

dell’altro. E che sublime estraniazione,

o che sconvolgimento di natura,

la grande bocca delle labbra unire

al piccolo forame della vita:

succhiare l’uno e l’altro insieme il latte

che feconda, l’ambrosia che nutrisce.

Magari, a propiziarsene l’uscita,

brindando prima simultaneamente,

nel calice la canna, il tiepido liquore

spumeggiante che sapido disseta.

Come meglio congiungere l’inizio

con la fine? La grande bocca beve

dalla piccola il suo liquore, ma dietro,

nel paradiso che ogni corpo cela,

fruga rugose labbra da cui sugge

il sapore amarognolo che sfama

da secoli le bocche degli amanti:

o delizia perfetta, squisitezza

ineffabile, oh che degustazione

davvero inimitabile, ingoiare

da ogni bocca, sia piccola sia grande,

o ambrosia che disseta, o succulento

manicaretto che disfama! Gioia

che gli uomini fa simili agli dei.

Due numeri e di due spavaldi eroi,

nessuno d’altro armato che una spada

di natura, le interne vettovaglie

che la cantina occulta, ma il piacere

di ciascuno ricerca e trova, e chiede,

e richiesto, l’amico che richiede

ridona ciò che l’altro gli ha donato;

e tutti e due l’uno dall’altro gode

di ciò che l’uno all'altro chiede e dona:

il molteplice gioco in questo modo

rigoverna la semplice equazione

che congiunge un inizio alla sua fine.


5.


Le lettere di Mozart sono intrise

qua e là di cacca: un dito in culo, scrive,

a sincerarsi dell’odore acuto

che nella stanza arriva: per provarlo,

se viene dalla stanza o dalla strada,

se i cavalli per strada hanno cacato,

o lui dal culo ha fatto uscire un peto,

e no, la puzza, cazzo, non è cacca,

oh la cacca, la cacca, cacca, cacca!1

La cugina di Augusta, si suppone,

al ragazzaccio che così le scrive,

avrà risposto con lo stesso stile.

Ma se Mozart a una ragazzina

scrive cacca, che cacca sia, oh sì,

la cacca, cacca! Dappertutto cacca.


Ma che direbbe Freud di un giovanotto

che scrive cacca a una ragazza? Il genio,

però, questo ha di bello, che le peggio

porcherie, le sconcezze, le schifezze,

le amene oscenità, le maialate,

che tutti fanno in gran segreto, lui,

il genio, le proclama e le realizza

alla luce del sole. Una canzone,

che cantava Milly, e la cantava

perfino alla televisione, un tempo

che l’Italia di giorno era pudica,

ma quando poi fa notte sporcacciona-

mi sa che anche oggi è sempre quella, porca

quanto più può, beghina in Parlamento -

questa canzone di Milly diceva:

si fa ma non si dice. Ma sì, si fa,

poi si rifà, si fa, ma non si dice,

e chi l’ha fatto tace,

non è che fa il mendace,

ma chi lo fa poi lo rifà, sì, sì,

ma non lo dice. Sgranano rosari,

donne, ragazze, vecchi e ragazzini,

ogni granello dell’avemaria

un peccatuccio – eh, cazzo! - vola via.

Ma frattanto la mano del ragazzo -

ci avete fatto caso quanto è adatta

la rima di ragazzo con il cazzo? -

tutto sta nel sapere dove il cazzo,

beato, lui lo ficca o se lo prende,

o se invece più furbo e più assennato

lo ficca e se lo prende – quella mano

malandrina, la mano del ragazzo

sopra il banco palpeggia lesta il culo

alla ragazza che con gli occhi bassi

gli sgranellava accanto il suo rosario

ma intanto guarda scaltra dove mette

la mano quel ragazzo: eh no, carino!

vai giù, più giù, così, così va bene.


Signori miei, se la coprolalia

oggi è permessa e sgranocchiata bene

perfino alla televisione, tutti

vaffa di qua, di là più forte un altro

vaffa, stronzate, coglionate; credo

che altra cosa, una cosa assai segreta,

da occultare, negare, maledire

sia la coprofagia. Ma figurarsi!

mangiare merda. O Zeu, che schifo! Quasi

da vomitare presto le budella.


Eppure … lo diresti, amico, pensa,

lo dico per ipotesi, per pura

fantasia, o se vuoi, per un gioco

letterario – che la letteratura

da sempre ha dato voce alle porcate -

sarà per fantasia, ma quando penso

a te, che sborro negli slip già solo

a pensarti, perché sei fico, un ganzo,

un bonazzo che l’alza anche a un eunuco,

be’, quando penso a te, e ti penso spesso,

io t’immagino nudo con il culo

sulla mia faccia e tu me la scodelli

dal buco nella bocca. Poi, chi sa,

nel bagno la ributto nella tazza,

non è che sia per me la merda, fosse

anche la tua squisita merda, un dolce,

una crostata, un eccelso dessert

da libagione di festeggiamenti,

oppure prelibata leccornia.

Ma di te non c’è cosa che il mio cazzo

a solo immaginarla non si metta

a improvvisare un bell’alzabandiera.


Ma ti fa schifo dimmi, amico, il fatto

che mangio la tua merda? non è forse

anche questo, che me la ingoio, un atto

di sterminato amore, che di te,

di tutto te vorrei sapere tutto,

annusarlo, assaggiarlo, digerirlo?

conoscere perfino gli escrementi,

il frutto caldo della digestione

assaggiato sul posto, come il pane

dal forno sulla strada, la brioche

al mattino nel Vicolo del Cinque, 2

sfilata calda e profumata, aperta

dal coltello e farcita di una nera

marmellata di prugne, le tue prugne

più sapide di quelle del fornaio;

essere tuo perché di te non butto

niente, ma ciò che butti lo raccolgo:

io sono tuo, come nessuno mai

fu di qualcuno. E fosse pure solo

una mia fantasia, un mio delirio,

amico mio, se t’amo fino a questa

estrema forma di pazzia, non fosse

che per questo, potresti rifiutare

questo mio disperato e folle amore

che fa di te il mio dio, il solo dio

che amo e posso venerare in terra?

Nel cielo, se c’è un cielo, non mi pare

che sia previsto per gli dei

l’attrezzo che chiamiamo corpo. Dammi

il tuo corpo, le braccia, le tue gambe,

il petto, la tua faccia, il cazzo, il culo,

e, amore mio, ti adorerò per sempre.


COMMIATO


Ma un sogno, sia pure letterario,

lo si deve sognare fino in fondo.

E allora voglio uscire dal mio sogno,

incontrarti, spogliarti, contemplarti

tutto nudo davanti a me. E cominciare

da quel punto il mio gioco. Farlo nostro,

il gioco. Per giocarlo insieme. Voglio

baciarti il cazzo, e che il mio cazzo baci

il tuo, il tuo il mio. Voglio leccarti

il culo, assaporarlo con la lingua,

e che tu lecchi il mio, voglio pisciarti

addosso e che il tuo piscio me lo sputi

in bocca, voglio bere dal tuo cazzo

lo sperma, e che tu beva il mio dal mio,

voglio sentirti urlare quando sborri

nel mio culo, e se vuoi, voglio sborrare

anch’io nel tuo. Ma quando avremo fatto

tutto questo, charmant ami, la tua

testa la prenderò tra le mie mani,

e accosterò le labbra alle tue labbra,

io t’aprirò la bocca, e ci entrerò

con la mia lingua, e sentirò perduta

la tua lingua che fruga la mia bocca:

voglio perdermi, voglio annichilirmi

nel bacio che confonde la mia bocca

con la tua, che congiunge lingua a lingua,

voglio perderti, e perderci noi due,

sentire che baciandoti mi perdo,

sentire che anche tu ti perdi, e mentre

vengo sentire che anche tu mi vieni

addosso, e in quel medesimo momento,

noi sentiremo di essere congiunti

come un unico corpo e sentiremo

una beatitudine infinita.


EPILOGO


Ma la malinconia, amico, il triste

canto di un canto che cantando canta

soltanto un sogno, la filosofia

di un illusione! Sono pazzo, idiota,

se penso che anche tu potrai sognarlo?


Itaca, Filatriò, 18 luglio – Fiano Romano, 26 luglio 2022

1Parodia, o citazione, quasi alla lettera, di una lettera di Mozart alla cugina di Augusta.

2Strada di un famoso forno di Trastevere che negli anni ‘70 e ‘80 ci si andava all’alba, dopo una notte di baldoria, a mangiare cornetti appena sfornati farciti di marmellata.

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