DINO VILLATICO
CINQUE CARMI PRIAPEI
Molte fiate la fantasia dipinge
paesaggi che accuratamente l’occhio
nasconde all’intelletto, ma nel cuore
sentirli li precorre: fosse sconcio
il paesaggio, un male visitarlo,
chi tapperebbe l’occhio, perché il cuore
più rapido vedendoli ti batte?
C’è più amore in un tiepido zampillo
che ambrato inumidisce le tue labbra,
di quanto te ne cantino parole
cantate dalla furia di un sonetto.
1.
Che mi diresti, amico, se ti svelo
che sogno le tue natiche, che scruto,
avido di bellezza, giorno e notte
il tuo corpo con l’immaginazione,
mi ficco con lo sguardo tra le falde
erbose delle tue colline, adocchio
nel fondo un incantato e scuro pozzo,
un luogo di misteri che s’innalza
nascosto in un giardino di delizie,
e io lo scorgo, al primo sguardo, aprirsi,
come un fiore tra i rami dei cespugli
di ginepro, divaricarsi, offrirsi,
come labbra che s’aprano allo stupro,
timorose del danno, ma felici,
se intimidito con le mie le tocco?
Come se non bastasse, il sogno infila
nel sogno un altro sogno, e mi figura
di quel giardino l’altra faccia, quella
che sta dall’altra parte, e che in difesa
s’inarca del giardino, il bel palazzo
innominato, la diletta rima
che inforca il desiderio e l’alimenta,
oh amico, lo vedessi, tu che l’occhio
non hai per ammirarlo a te davanti
come io lo guardo in estasi rapito.
L’insegna dell’ingresso mi minaccia,
ma insieme anche m’invita, io la guardo
che domina superba in mezzo all’erba,
e nel cespuglio fitto che l’accoglie
si mostra baluardo al passeggero
che vi acceda, lo invita ad onorarlo.
Lunga e affilata, l’arma mi si piazza
diritta sotto gli occhi, un tumultuoso
turbine a quella vista mi possiede,
e il rigoglioso cardine si muta,
e l’arma si rivela una fontana,
il becco aperto che zampilla miele,
tutta la vita sprizza in ogni goccia,
tutto il mondo si sparge in ogni spruzzo.
E io dalla chiavetta, stupefatto,
bevo, e annego in un’estasi perfetta.
In quell’istante avverto che il mio sogno
non è sogno, perché nella mia bocca
assaporo il sapore dell’ambrosia.
2.
Il sogno in cui la canna del tuo parco
mi disseta, e nel pozzo mi sprofondo
dove annego, non è che breve segno
del tuo modificarmi, una ferita
che appena mi scalfisce la mia pelle,
altre avventure sogna, altri deliqui,
più che la fantasia, la bramosia
di te, che, amico mio, mai non mi lascia.
Già toccare leggero le tue labbra
scatenerebbe in me l’ininterrotta
febbre che dalla testa ai piedi, tutte
infuoca sempre le mie vene. Un lieve
tremito nel contatto sentiresti
che muto spasimando ti direbbe
ciò che la bocca non ti sa più dire.
La lingua, poi, che insegue la tua lingua,
appena tu te la sentissi in bocca,
dall’inguine ti sentiresti dura
la tua spada, che già per infilzarmi
s’alza, o la mia per penetrarti, ardita,
che a te si appoggia: e tu mi premi forte
sull’asta che ti aspetta, quasi a dirmi:
vòltati che laggiù mi sentirai.
O dio del coito! Amabile Priapo!
Che cosa di più bello se lo sperma,
il seme profumato della vita,
l’uno all’altro nel culo immette, culo
adorato, per tutti e due, suprema
dedizione che vita sparge dove
vita prende, là dove la si dona
e poi restituita la si accoglie.
Ma poi perché di sperma e di nient’altro
il gioco si diverte? Non è forse
altro fuoco che infiamma, altro piacere,
qualunque umore voglia il bell’amante
al suo voglioso amato regalare?
Che dico umore? C’è divieto, forse,
c’è limite all’oggetto della voglia?
Tutto di te mi piace, perché tutto
vibra, tutto mi danza sotto gli occhi,
e ispira al desiderio l’acquietarsi
dei pensieri nell’estasi del dono.
Vuoi tu con me dividere quest’ansia
che appagata riprende il suo vigore,
che la sua fine unisce al suo principio,
che ricomincia mai sazia la sete
che ogni umore bevuto mi riaccende?
Io sono tuo, da me non sentirai
mai negarti nessuna tua richiesta,
fosse anche la più folle, la più sconcia,
la più maiala: un’unica ragione,
sappi, ci unisce. Ed è che bello, vero,
e lecito, dovuto ci dobbiamo
soltanto ciò che a tutti e due ci piace.
3.
Sono disteso sul letto, e nudo,
e con il corpo dei miei quarant’anni -
utopia figurarmelo di trenta,
oggi che ha superato già gli ottanta,
pazzia di venti – ma quaranta sono
perfetti, chiappe sode, gambe dritte,
denti sani, le labbra come mai
così voraci e prensili, piccante
la saliva, urticante, come un drink
ai bordi di una spiaggia, il mio liquore.
E più arzillo, più mobile, chi sai.
Il resto te lo lascio immaginare,
innominato amico, ne potresti
quasi essere curioso a investigarlo:
vedresti i miei capezzoli drizzarsi
al tocco della dita come due bambini
di Priapo, già so che la tua lingua,
inumidita, non resisterebbe,
e quelli tutti lieti salteranno
che muoversi li sentirai come
fringuelli tra le labbra. Come avrai
capito, sono steso sul mio letto,
e sono nudo, ma non sono solo:
perché la fantasia mi fa giacere
solo per te, per il tuo corpo irsuto
che innamorato guardo, e che arrapato
solo per me, solo da me goduto,
lo vorrei da leccare con la lingua.
Narciso benedetto ti farai
da me vedere in tutto il tuo fulgore,
io fisserò i tuoi occhi, dritto, a fondo,
nelle pupille, ed è preparazione
di un altro andare a fondo, l’esercizio
di Apollo di Giacinto, non importa
se la sfida è mortale, o Ganimede
tra gli artigli dell’aquila: guardarti
sarà già quasi una eiaculazione:
per te morire mi sarà goduria,
lo sperma che t’inonda dal mio cazzo.
Chi sa la tua, di sborra, l’impetuosa
tua eiaculazione, il profumato
flusso di vita ch’esce dal tuo cazzo,
il tuo seme che quotidiano bramo
sentirmelo lisciare le mie labbra,
chi sa, felice sottomesso e vasca,
come m’innaffierà con il suo fiotto,
la sentirò fluire in mezzo al petto,
m’inonderà la faccia, e di ogni goccia,
ogni zampillo, ogni schizzo, ogni spruzzo
di quella bianca spuma, sulla lingua
estasiato assaporerò l’aroma,
degusterò il sapore, un bianco latte
sgorgando sazierà le mie papille.
Che se poi d’altra pioggia mi vorrai
anche bagnare, io quella come flusso
di una fontana prodigiosa, fino
a sentirmela in gola gorgogliare,
mai dissetato la berrò e sentirla
passare lentamente dalla bocca
alla laringe e giù sempre vivace
nello stomaco, come una baccante
griderò evoè e danzerò
come satiro pazzo intorno al cazzo -
il tuo, che bramo e sogno di baciare,
leccare, spompinare, sleccazzare -
e dall’inguine irsuto scappellato
io lo vedrò, lo sentirò sputarmi
dentro in bocca il cognac di una contea
più nobile della contea di Francia.
Quando lo cominciamo questo gioco?
Quando verrai a farmene il tuo partner?
Io sono steso sul mio letto, e nudo.
4.
Anche l’amore ha sue misure, vuole
equazioni, disegna crittogrammi,
il mondo è matematica, dovrebbe
solo il sesso sfuggire al necessario
calcolo degli assalti, delle soste,
alla misurazione del piacere?
Il 9 al 6 sta come il dritto al suo
rovescio, il suo principio e la sua fine
si toccano alla fine e nel principio.
69 è un numero perfetto,
simmetrico, armonioso, ed elegante,
come nel cielo la costellazione
dei Pesci, o, più rassomigliante, quella
del Cancro: ch’è l’inizio dell’estate,
l’esplodere del caldo, lo slanciarsi
della vita nell’aria che feconda.
Ma noi che non vaghiamo in mezzo ai Pesci,
e non nutriamo un Cancro dentro il cuore,
che segno osserveremo, un 69
che alla nostra figura si convenga,
dove lo cercheremo, dove alfine
lo troveremo, se lo troveremo?
Lo Scorpione moltiplica gli accessi,
si ripete, ritorna su sé stesso,
infila molte volte il pungiglione
nella vaschetta dell’amato, dove attinge
il suo veleno e la sua guarigione.
E tu sei lo Scorpione, amico mio,
al quale il Toro cede la sua verga,
cede l’ultimo spruzzo dello sperma,
per bere dalla tua il tuo veleno.
E bevo, amico, fino ad ubriacarmi
di te, ti bevo fino al sorso estremo
della vita, il tuo Toro, ecco, ti beve
dal pungiglione il farmaco fatale
di Scorpione. Mi avrai così per sempre.
Cazzo e culo di Toro con il culo
a toccarsi ed il cazzo imbestialito
dello Scorpione. Oh nettare divino,
oh celestiale ambrosia, oh piscio, oh sperma! -
Ma lasciamo l’astrologia da parte,
consideriamo invece quanto al mondo
anche nel sesso il numero, preciso,
ci prefiguri il dritto ed il rovescio
di questa bella e salda posizione,
in cui ciascuno dei due giocatori
il proprio inizio alla fine congiunge
dell’altro. E che sublime estraniazione,
o che sconvolgimento di natura,
la grande bocca delle labbra unire
al piccolo forame della vita:
succhiare l’uno e l’altro insieme il latte
che feconda, l’ambrosia che nutrisce.
Magari, a propiziarsene l’uscita,
brindando prima simultaneamente,
nel calice la canna, il tiepido liquore
spumeggiante che sapido disseta.
Come meglio congiungere l’inizio
con la fine? La grande bocca beve
dalla piccola il suo liquore, ma dietro,
nel paradiso che ogni corpo cela,
fruga rugose labbra da cui sugge
il sapore amarognolo che sfama
da secoli le bocche degli amanti:
o delizia perfetta, squisitezza
ineffabile, oh che degustazione
davvero inimitabile, ingoiare
da ogni bocca, sia piccola sia grande,
o ambrosia che disseta, o succulento
manicaretto che disfama! Gioia
che gli uomini fa simili agli dei.
Due numeri e di due spavaldi eroi,
nessuno d’altro armato che una spada
di natura, le interne vettovaglie
che la cantina occulta, ma il piacere
di ciascuno ricerca e trova, e chiede,
e richiesto, l’amico che richiede
ridona ciò che l’altro gli ha donato;
e tutti e due l’uno dall’altro gode
di ciò che l’uno all'altro chiede e dona:
il molteplice gioco in questo modo
rigoverna la semplice equazione
che congiunge un inizio alla sua fine.
5.
Le lettere di Mozart sono intrise
qua e là di cacca: un dito in culo, scrive,
a sincerarsi dell’odore acuto
che nella stanza arriva: per provarlo,
se viene dalla stanza o dalla strada,
se i cavalli per strada hanno cacato,
o lui dal culo ha fatto uscire un peto,
e no, la puzza, cazzo, non è cacca,
oh la cacca, la cacca, cacca, cacca!1
La cugina di Augusta, si suppone,
al ragazzaccio che così le scrive,
avrà risposto con lo stesso stile.
Ma se Mozart a una ragazzina
scrive cacca, che cacca sia, oh sì,
la cacca, cacca! Dappertutto cacca.
Ma che direbbe Freud di un giovanotto
che scrive cacca a una ragazza? Il genio,
però, questo ha di bello, che le peggio
porcherie, le sconcezze, le schifezze,
le amene oscenità, le maialate,
che tutti fanno in gran segreto, lui,
il genio, le proclama e le realizza
alla luce del sole. Una canzone,
che cantava Milly, e la cantava
perfino alla televisione, un tempo
che l’Italia di giorno era pudica,
ma quando poi fa notte sporcacciona-
mi sa che anche oggi è sempre quella, porca
quanto più può, beghina in Parlamento -
questa canzone di Milly diceva:
si fa ma non si dice. Ma sì, si fa,
poi si rifà, si fa, ma non si dice,
e chi l’ha fatto tace,
non è che fa il mendace,
ma chi lo fa poi lo rifà, sì, sì,
ma non lo dice. Sgranano rosari,
donne, ragazze, vecchi e ragazzini,
ogni granello dell’avemaria
un peccatuccio – eh, cazzo! - vola via.
Ma frattanto la mano del ragazzo -
ci avete fatto caso quanto è adatta
la rima di ragazzo con il cazzo? -
tutto sta nel sapere dove il cazzo,
beato, lui lo ficca o se lo prende,
o se invece più furbo e più assennato
lo ficca e se lo prende – quella mano
malandrina, la mano del ragazzo
sopra il banco palpeggia lesta il culo
alla ragazza che con gli occhi bassi
gli sgranellava accanto il suo rosario
ma intanto guarda scaltra dove mette
la mano quel ragazzo: eh no, carino!
vai giù, più giù, così, così va bene.
Signori miei, se la coprolalia
oggi è permessa e sgranocchiata bene
perfino alla televisione, tutti
vaffa di qua, di là più forte un altro
vaffa, stronzate, coglionate; credo
che altra cosa, una cosa assai segreta,
da occultare, negare, maledire
sia la coprofagia. Ma figurarsi!
mangiare merda. O Zeu, che schifo! Quasi
da vomitare presto le budella.
Eppure … lo diresti, amico, pensa,
lo dico per ipotesi, per pura
fantasia, o se vuoi, per un gioco
letterario – che la letteratura
da sempre ha dato voce alle porcate -
sarà per fantasia, ma quando penso
a te, che sborro negli slip già solo
a pensarti, perché sei fico, un ganzo,
un bonazzo che l’alza anche a un eunuco,
be’, quando penso a te, e ti penso spesso,
io t’immagino nudo con il culo
sulla mia faccia e tu me la scodelli
dal buco nella bocca. Poi, chi sa,
nel bagno la ributto nella tazza,
non è che sia per me la merda, fosse
anche la tua squisita merda, un dolce,
una crostata, un eccelso dessert
da libagione di festeggiamenti,
oppure prelibata leccornia.
Ma di te non c’è cosa che il mio cazzo
a solo immaginarla non si metta
a improvvisare un bell’alzabandiera.
Ma ti fa schifo dimmi, amico, il fatto
che mangio la tua merda? non è forse
anche questo, che me la ingoio, un atto
di sterminato amore, che di te,
di tutto te vorrei sapere tutto,
annusarlo, assaggiarlo, digerirlo?
conoscere perfino gli escrementi,
il frutto caldo della digestione
assaggiato sul posto, come il pane
dal forno sulla strada, la brioche
al mattino nel Vicolo del Cinque, 2
sfilata calda e profumata, aperta
dal coltello e farcita di una nera
marmellata di prugne, le tue prugne
più sapide di quelle del fornaio;
essere tuo perché di te non butto
niente, ma ciò che butti lo raccolgo:
io sono tuo, come nessuno mai
fu di qualcuno. E fosse pure solo
una mia fantasia, un mio delirio,
amico mio, se t’amo fino a questa
estrema forma di pazzia, non fosse
che per questo, potresti rifiutare
questo mio disperato e folle amore
che fa di te il mio dio, il solo dio
che amo e posso venerare in terra?
Nel cielo, se c’è un cielo, non mi pare
che sia previsto per gli dei
l’attrezzo che chiamiamo corpo. Dammi
il tuo corpo, le braccia, le tue gambe,
il petto, la tua faccia, il cazzo, il culo,
e, amore mio, ti adorerò per sempre.
COMMIATO
Ma un sogno, sia pure letterario,
lo si deve sognare fino in fondo.
E allora voglio uscire dal mio sogno,
incontrarti, spogliarti, contemplarti
tutto nudo davanti a me. E cominciare
da quel punto il mio gioco. Farlo nostro,
il gioco. Per giocarlo insieme. Voglio
baciarti il cazzo, e che il mio cazzo baci
il tuo, il tuo il mio. Voglio leccarti
il culo, assaporarlo con la lingua,
e che tu lecchi il mio, voglio pisciarti
addosso e che il tuo piscio me lo sputi
in bocca, voglio bere dal tuo cazzo
lo sperma, e che tu beva il mio dal mio,
voglio sentirti urlare quando sborri
nel mio culo, e se vuoi, voglio sborrare
anch’io nel tuo. Ma quando avremo fatto
tutto questo, charmant ami, la tua
testa la prenderò tra le mie mani,
e accosterò le labbra alle tue labbra,
io t’aprirò la bocca, e ci entrerò
con la mia lingua, e sentirò perduta
la tua lingua che fruga la mia bocca:
voglio perdermi, voglio annichilirmi
nel bacio che confonde la mia bocca
con la tua, che congiunge lingua a lingua,
voglio perderti, e perderci noi due,
sentire che baciandoti mi perdo,
sentire che anche tu ti perdi, e mentre
vengo sentire che anche tu mi vieni
addosso, e in quel medesimo momento,
noi sentiremo di essere congiunti
come un unico corpo e sentiremo
una beatitudine infinita.
EPILOGO
Ma la malinconia, amico, il triste
canto di un canto che cantando canta
soltanto un sogno, la filosofia
di un illusione! Sono pazzo, idiota,
se penso che anche tu potrai sognarlo?
Itaca, Filatriò, 18 luglio – Fiano Romano, 26 luglio 2022
1Parodia, o citazione, quasi alla lettera, di una lettera di Mozart alla cugina di Augusta.
2Strada di un famoso forno di Trastevere che negli anni ‘70 e ‘80 ci si andava all’alba, dopo una notte di baldoria, a mangiare cornetti appena sfornati farciti di marmellata.
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