Un breve racconto "pitagorico". Che è anche un omaggio a un grande amico scoparso: Francesco Pennisi. Aspetto i vostri commenti.
DINO VILLATICO
LA MUSICA DELLA DISTANZA
A Francesco
Pennisi, in memoriam.
Il
porto di Samo era in fermento. Come ogni giorno, all’ora del tramonto si
animava della vita molteplice e tumultuosa di un’importante città commerciale.
Tornavano le barche dei pescatori e, una volta approdate, il pesce veniva scaricato in grandi ceste di
vimini. Seduto a una bottega di vino Pythagoras guardava il movimento dei
marinai che scendevano dalle navi da carico, dei facchini che portavano nelle
capaci stive le cassette di merce da spedire. La vista di quei pesci
agonizzanti lo intristiva. Ancora più lo tormentava l’odore pungente della
carne d’agnello che abbrustoliva sui carboni, davanti alle taverne. I marinai,
passando, compravano uno spiedino e una focaccia. E mangiavano. Si alzò, e si
diresse verso la punta estrema del molo, dove i due moli del porto si
spalancavano al mare aperto e dove un grande scoglio bianco e roseo si tuffava
nell’acqua, le onde vi si rifrangevano e schiumando cullavano l’orecchio con uno
sciabordio dal ritmo costante, quasi un invito a condividerne la musica con un
bagno ristoratore. Si sedette sul ciglio dello scoglio e guardò lontano dove
s’immaginava la costa della Lidia e il porto di Mileto. Cambise era stato
certamente inghiottito dal deserto. E con lui tutta l’armata della spedizione
egiziana. Lui, il matematico conteso da egiziani e persiani, aveva invece avuto
fortuna. Era scampato allo stesso tremendo destino per poco, appena una
settimana d’ancitipo nella partenza dal porto di Menfi. In Egitto si era sentito
preso tra due morse: Psammetico si credeva giustamente tradito da Polycrates,
tiranno di Samo e amico di Pythagoras, passato dalla notte al giorno nel campo
persiano, visti gli esiti della spedizione, e Cambise diffidava, anche lui a
ragione, delle promesse di fedeltà proferite da un greco, che poteva così
facilmente e così leggermente cambiare alleanze. Probabilmente la spedizione
era stata sorpresa, al ritorno, nel deserto da una tempesta di sabbia. Ma Dario,
a Babilonia, era stato generoso con lui. L’avrebbe voluto trattenere. A
osservare il corso delle stelle dai giardini del Palazzo. Ma lui aveva voluto
ritornare alla natia Samo, da dove in seguito – ma questo non lo disse a Dario
- sarebbe tornato in Italia, a Crotone. Gli venne in mente il commiato da
Anassimandro, più di venti anni prima. E quell’affermazione di Senofane che il
vecchio filosofo ripeteva ossessivamente, come se più che gli altri volesse
convincere se stesso: se mosche, rane, cavalli, scimmie avessero dei, se li
raffigurerebbero come mosche, rane, cavalli, e scimmie. “Ricordalo, figliolo”,
sospirava, fissando un punto lontano: “non dimenticarlo mai. Il sangue degli
dei, nel caso,” soggiungeva poi, guardandolo fisso negli occhi: “non sarebbe
diverso dal sangue di qualunque animale. Non ci sarebbe sicuramente nessuna
differenza tra un uomo e un dio, come non ce n’è tra un uomo e un animale. E
anche il dio sarebbe mortale”. E qui sciorinava le sue teorie teologiche. Iside
aveva mummificato un cadavere, e Asclepio aveva rimesso insieme i pezzi di un bel
giovane un po’ effeminato dialaniato dai Titani. Ma solo la semplicità di chi
presta fede alle favole poteva supporre che Osiride o Dioniso fossero dei e
fossero immortali. Poco importa se il popolino avrebbe voluto lapidarlo per
queste bestemmie. Poco lontano si ergeva la città di Efeso. Al tempio di
Artemide accorrevano fedeli e viaggiatori da tutta l’Asia, dalle isole
dell’Egeo e dalla Grecia, arrivavano dalla Tracia e dalla Macedonia, dalla
Sicilia e dalla Magna Grecia, dalla Scizia e dell’Egitto. Avrebbero costoro
invocato invano fecondità dalla dea generosa? Le mammelle di capra che le
pendevano sul petto non stavano lì a dimostrare l’attitudine benevola della
dea? “Sempre che sia una dea”, rispondeva Anassimandro: “e non un fantasma
delle nostre paure”. Chi sa che cosa ne pensavano della dea cacciatrice gazzelle
e cerbiatti, lepri e fagiani, cinghiali e leoni.
Perché
uccidere per vivere? pensò Pythagoras. Il lezzo della carne abbrustolita si
allontanava. Gli uomini si ammazzano per una fettuccia di terra, e ammazzano
per il possesso di un bue, di una donna, per affogare le carni della vittima
nel vino prima d’ ingozzarsene. Meritavano di rinascere rospi, serpenti,
zanzare, sciacalli. Vero che anche le bestie uccidono. Ma per necessità, per
fame. A volte, tuttavia, pensando alla vita degli animali selvaggi, nemmeno la
natura gli appariva troppo benigna, gli sembrava anzi una grande beccheria, dove
si attuavano le più efferate carneficine, un mattatoio sterminato che non
risparmia nessuno. Gli accadeva di commuoversi per lo sgozzamento di un maiale
come se si stesse scannando un bambino. Gli strilli erano esattamente gli
stessi. Alle sue spalle tramontava il sole, dietro la montagna. Il mare davanti
a lui s’era tinto di rosso. Il Cane
ancora non appariva nel cielo. Ma non ne aveva bisogno per il viaggio, la
direzione verso la quale sarebbe partito l’indomani era esattamente l’opposta: avrebbe
sciolto le vele contro il soffio di Noto, e poi sarebbe corso incontro a Zefiro,
verso le nuove terre dei Calabri, una volta voltata l’isola di Citera, nel cui
mare lo sperma di Ourano fecondando i flutti scuri come il vino aveva generato
Afrodite. Sentiva spalancarsi un grande lago nel cervello: l’anima è là. E
dalle limpide notti di Menfi trascorreva ai caldi e afosi tramonti di
Babilonia. Chi l’avrebbe detto, quando a 20 anni incontrò per la prima volta
Talete? Le notti estive dell’Anatolia erano più chiare delle brumose notti di
Samo. Lo avevano sfidato, e lui aveva trovato la dimostrazione del teorema:
bastava costruire altre tre copie del
triangolo e ruotarle via via di 90, 180, 270 gradi e infine combinarli,
incastrarli, ecco ottenuto il quadrato. La superficie d’acqua che si stendeva
dal porto di Samo alle coste della Lidia poteva raffigurare l’ipotenusa di un
immaginario triangolo, i cui lati minori
sprofondavano nell’Egeo o s’alzavano al cielo per sfiorare le Pleiadi. Ma da
qui all’Alfa di Boote, la luminosa stella di Arturo, quale ipotenusa misurerà
la distanza del mio desiderio di spazi? Nelle notti di Babilonia il cielo
m’appariva come un immenso libro da decifrare. Era scritto tutto lassù, perfino
il mio occhio che leggeva nel cielo le tracce dei miei passi sulla terra. Forse
ha ragione Talete quando dice che la vita comincia dal mare. Ma prima del mare?
E se il mare è l’uno da cui tutto proviene, la terra sarà due? e chi l’ha fatta
sorgere? chi le ha dato forma? Non ci sarà forse, dietro, o prima, del mare e
della terra, un’altra realtà più generale e più concreta, che è il vero principio
delle cose? O vaneggiava a cercare un principio prima del primo principio, un
accadimento prima dell’inizio del tempo? Dall’uno il due, uno e due fanno tre,
e fa cinque, raddoppiato dieci: l’intero universo. Ma prima dell’uno non c’è
niente. La domanda nasce perché veniamo dopo, e siamo dunque abituati a calcolare
una successione di eventi. Prima del primo evento non esistono eventi. Il
quadrato di un segmento è lo spazio in cui il Caos si fa Ordine. Che la pianta,
la più umile delle piante, come il più nobile degli animali, il cavallo,
l’uomo, abbiano bisogno di congiungersi con un’altra pianta, un altro animale,
per generare una nuova vita, non è senza significato. Ma per fermare il ciclo
delle rinascite bisognerà spogliarsi della propria individualità, dell’orgoglio
di credersi unici, lasciare senza rimpianto la propria storia individuale per
riaffondare nel flusso degli elementi. Bisogna smetterla d’illudersi
stoltamente di essere speciali. Nell’immenso vuoto dell’universo la sfera
terrestre è il punto in cui convergono gli afflati delle stelle, ma ciò non
significa che sia l’astro più illustre. Nel corpo dell’animale si duplica ogni
principio di movimento, che sia guardare, toccare, camminare: due occhi, due,
quattro arti. Ecco come la nascita del due dall’uno s’imprime anche nella
figura dell’animale. Ma il bisogno fondamentale resta quello di masticare:
anche l’amore, se tra un uomo e una donna, resta un impulso a mangiare, a
divorare l’altro. Si uccide sempre ciò che si ama. Come se si fosse incapaci di
amare senza possedere, senz’assimilare l’oggetto del proprio amore. L’amore, a
volte, se scatenato dal desiderio, assomiglia di più a un crimine che alla
volontà di procurare all’altro il massimo bene. Il furore di un amante non è
meno egoista della solitudine del misantropo.
Si
alzò. E cominciò a passeggiare lungo il molo del porto. L’agitazione di poco
prima s’era calmata, ma il molo s’era riempito ora di una folla festosa: gli
allegri schiamazzi assordavano il cielo. Sui tavoli delle taverne brillavano le
fiamme delle lucerne. Si udiva un vociare chiassoso e confuso. Dalle griglie
saliva il fumo dei pesci arrostiti. Affrettò il passo, turandosi il naso. La
visione della morte lo inorridiva. E ancora più lo sfruttamento della morte.
Che ne sapeva il vecchio che ora frugava avido con le dita dentro la testa di
un cefalo, estraendone la polpa saporita, quali pensieri avessero attraversato
il cervello del cefalo prima di finire nella rete del pescatore? Ma che fatto
era quella singola morte? Non ogni morte è uguale. Come nemmeno la nascita.
Ogni cosa ha un’origine oppure è essa stessa un’origine. L’indeterminato, che
non è ancora l’Uno, gli diceva Anassimandro, non ha origine, assomiglia al Caos
da cui Orfeo fa nascere l’Uovo d’Argento, fecondato dal Cielo nel grembo della
Notte, l’uccello dalle piume nere come la pece che volteggia da sempre sul
vuoto primordiale. La creatura che viene alla luce, quando l’uovo si schiude, è
l’Uno, Eros, che divide gli elementi e li connette, li accorda, li mescola, li
armonizza. Ma questo è fantasia. Fiaba di nonna ubriaca. L’Indeterminato è
cionostante un oggetto limitato, è increato e immortale, una sorta di principio
universale delle cose, ma non è infinito come non sono infinite le cose che si
producono dal suo corpo. Da esso nascono, infatti, tutte le cose, che necessariamente
hanno una fine, e la loro fine è il termine di ogni processo di distruzione.
Perché dato che le cose hanno un’origine, vanno incontro anche alla propria
distruzione, eseguono così una sentenza di condanna, l’una sull’altra, condanna
per il crimine di esistere, di separarsi dall’unità originaria, in conformità
con la disposizione del tempo. Vivere è sempre separarsi da qualcosa. Sarebbe
tornato a casa, avrebbe bollito la sua razione quotidiana di ortiche e cicoria.
Anche mangiare piante decretava, certo, una condanna a morte. Ma almeno non
vedeva la sofferenza del condannato. A passi lenti si dirigeva verso la sua
casa, ai margini della città, in fondo a un viale fiancheggiato da platani. Ma
si sentì trattenere per un braccio. Si voltò. Era il più giovane dei suoi
allievi, Demetrio, lo guardava sorridendo, disse: “Ma te ne vai così, maestro?”
“Che cosa vuoi che faccia per te?” “Per noi tutti”, replicò l’allievo: “Vedi?
Sono tutti là sul molo che aspettano”.
Un
gruppo di sette o otto ragazzi, in piedi davanti alle taverne, lo guardava e
faceva cenni di saluto. Pythagoras sorrise, ricambiò il saluto. “Ma che cosa
volete, ora, da me?” domandò. “Le Muse ti hanno fatto dono del canto”, disse
Demetrio: “vieni in mezzo a noi e cantaci qualcosa”. “Ma non ho con me la mia
lyra”. “Archidamo ha la sua con sé: stava giusto provando a ricordare sulle
corde le melodie che ieri gli hai fatto ascoltare, pizzicando le tue”. I
ragazzi avevano già preparato uno sgabello sul quale Pythagoras si lasciò
trascinare e subito tutti gli furono allegramente intorno. “Cantaci la melodia
di ieri”, chiese Archidamo consegnandogli la lyra. “L’invocazione all’Uno?” Pythagoras
cominciò a pizzicare le corde. “Di là da questo braccio di mare c’è la città di
Mileto”, disse, continuando a pizzicare le corde: “L’armonia lidia è la più
adatta per quest’invocazione di armonia tra le cose”. Smise di provare lo
strumento. E cominciò a cantare.
Zeus,
che da sempre il destino consapevole osservi
del
groviglio che annoda i mortali in un unico cappio
di
sofferenze e di gioia, primo termine fisso
d’ogni
consiglio, destinazione eterna del gioco
in
cui vita nasce, rinasce cedendosi a morte,
ultimo
segno d’ogni umana visibile cosa,
traccia
sonora e segreta dell’invisibile mondo,
ecco,
ti canto me stesso e ti chiedo placida quiete,
quella
che mite tu rendi a chi osserva numero e legge,
nell’ordinato
mistero che l’universo feconda:
canto
quaggiù se proporzione canta di corde,
musica
quale lassù rotazione intona di stelle?
Cantami,
dio, dell’uno, del due, del cinque, del dieci,
l’indistruttibile
ciclo che ci alimenta e sostiene.
Quando
il canto fu finito, Pythagoras si accorse che intorno a lui non c’erano più
solo i ragazzi che lo avevano invitato a cantare, ma si era formato un grande
cerchio di folla plaudente. Vecchi pescatori con le mani rugose, giovani marinai,
e perfino donne con i bambini in braccio. Se tanto poteva sugli animi della
gente semplice agire la melodia di un uomo, che cosa avrebbero detto e fatto
quegli stessi uomini, che ora lo avevano ascoltato commossi, se avessero potuto
udire le melodie che i suoi calcoli indovinavano nel moto degli astri?
“Sono
stanco”, disse: “domani, lo sapete, parto per l’Italia. Ho bisogno di
riposare”. “Avrai tutto il viaggio per dormire, maestro. Resta con noi, e
brindiamo alla benevolenza di Dioniso. Glicera ha preparato una frittata di
verdure per te”.
Quando
si stese sul letto era già quasi l’alba. E tra poco sarebbe dovuto partire. Ma
non aveva sonno. Una folla di pensieri gli arrovellava la mente, schiamazzando,
non diversamente dalla folla degli allievi e dei cittadini di Samo che avevano
cantato e bevuto con lui tutta la notte. Nell’inno cantato poco prima aveva
dato per scontato che tra le proporzioni della divisione di una corda che
producono i diversi intervalli musicali e le proporzioni celesti dei movimenti
degli astri potesse esistere una corrispondenza. Ma l’ipotesi non era
dimostrata, nessuna esperienza di una musica cosmica suffragava la suggestione
della teoria. Esisteva un limite tra l’oggetto e la sua misura, che sembrava
travalicare l’esperienza. Cinque mele, cinque noci, cinque pecore, cinque navi,
cinque uomini, cinque donne sono gruppi diversi. Ma tutti hanno in comune il
fatto di essere composti di cinque componenti. Quale la natura di questo
numero? e quale il suo rapporto con gli elementi ai quali si aggregava? Sul
corso di simili pensieri il suo cervello volava lontano. Che differenza tra Pythagoras,
Demetrio, Archidamo, Glicera e il termine generico con cui vengono indicati,
uomo, ragazzo, donna? Il numero, il nome, potevano sdoppiarsi, svilupparsi,
l’uno farsi due, l’uomo diventare un vecchio, la donna una vecchia, il ragazzo
un uomo virile. Ma Pythagoras non poteva che essere Pythagoras. E non stava già
qui la radice dello sdoppiamento, del due, che lui fosse Pythagoras, ma anche
un uomo? Tutta la realtà poteva dunque essere detta dai nomi, dai numeri? o
solo i numeri avevano questo privilegio, di indicare il termine ultimo a cui
possa essere ridotto un elemento, sia esso uomo, animale, albero o pietra?
Un
gallo cantò da un orto vicino. Si alzò, si vestì. Mise nella bisaccia i pochi
indumenti e i pochi oggetti che avrebbe portato con sé nel lungo viaggio: l’inseparabile
lyra, una tavoletta, uno stilo, un papiro, un calamo egiziano. Il cuore gli
batteva forte come quando a vent’anni gli venne incontro Talete. Ripensò alla
notte trascorsa e, riudendo in mente il canto dell’Uno, fu assalito da una
commozione irrefrenabile: che parte aveva quella musica nel suo cervello? e
come poteva il suo cervello inventarla o trovarla, cantarla, ricordarla? o
qualcosa prima di lui sopravviveva nel suo cervello e gli sarebbe sopravvissuto
dopo la morte? Con questa domanda
percorse gli spazi celesti che lo dividevano dal cielo di Mileto, di Menfi e di
Babilonia e lo avrebbero presto diviso, a Crotone, dal cielo di Samo. La
dolcezza della melodia che aveva appena intonato quella notte gli si contrasse
allora in una più struggente sensazione: un brivido che gli fendeva le vertebre
dal capo al coccige. Percepiva, in maniera misteriosa, dentro il suo corpo, la
ferita di un distacco insanabile. Che tuttavia non gli faceva male. S’insinuava,
anzi, dolcemente negli occhi con visioni di cieli stellati e sulle labbra con
il suono di melodie lontanissime. Nostalgia di un esiliato? o desiderio di un
amante? O prima, o dopo, la dolcezza del canto non era lì. Esisteva già prima
che nascesse, sarebbe continuata a esistere dopo la sua morte. Ricordo o
desiderio che fosse, gli venne il sospetto che la musica, come il numero, non
sia una realtà di qui, di adesso, ma il sogno di un prima o di un dopo che
intravediamo come le nostre ombre proiettate dalle fiamme che crepitano ai
nostri piedi sui muri di una caverna. Non bisognava farlo sapere a tutti, ma
solo a chi fosse pronto ad accettarne la terribile realtà. La verità non è cibo
per tutti, i più ne sono disgustati. Che vivessero dunque tra le loro fugaci e
fallaci illusioni. Quanto a lui, e alla sua cerchia, non avrebbe mai più
abbandonato il sogno di quella melodia, per quanto distante fossero il luogo da
dove veniva e il mondo sconosciuto dove andava. Ma nessun altro luogo aveva,
ormai, per lui la concretezza solida, indistruttibile, di quella
incommensurabile e dolcissima distanza.
Roma,
15 marzo 2010