martedì 9 settembre 2014

Un racconto pitagorico

Un breve racconto "pitagorico". Che è anche un omaggio a un grande amico scoparso: Francesco Pennisi. Aspetto i vostri commenti.


DINO VILLATICO 

LA MUSICA DELLA DISTANZA 

A Francesco Pennisi, in memoriam. 

Il porto di Samo era in fermento. Come ogni giorno, all’ora del tramonto si animava della vita molteplice e tumultuosa di un’importante città commerciale. Tornavano le barche dei pescatori e, una volta approdate,  il pesce veniva scaricato in grandi ceste di vimini. Seduto a una bottega di vino Pythagoras guardava il movimento dei marinai che scendevano dalle navi da carico, dei facchini che portavano nelle capaci stive le cassette di merce da spedire. La vista di quei pesci agonizzanti lo intristiva. Ancora più lo tormentava l’odore pungente della carne d’agnello che abbrustoliva sui carboni, davanti alle taverne. I marinai, passando, compravano uno spiedino e una focaccia. E mangiavano. Si alzò, e si diresse verso la punta estrema del molo, dove i due moli del porto si spalancavano al mare aperto e dove un grande scoglio bianco e roseo si tuffava nell’acqua, le onde vi si rifrangevano e schiumando cullavano l’orecchio con uno sciabordio dal ritmo costante, quasi un invito a condividerne la musica con un bagno ristoratore. Si sedette sul ciglio dello scoglio e guardò lontano dove s’immaginava la costa della Lidia e il porto di Mileto. Cambise era stato certamente inghiottito dal deserto. E con lui tutta l’armata della spedizione egiziana. Lui, il matematico conteso da egiziani e persiani, aveva invece avuto fortuna. Era scampato allo stesso tremendo destino per poco, appena una settimana d’ancitipo nella partenza dal porto di Menfi. In Egitto si era sentito preso tra due morse: Psammetico si credeva giustamente tradito da Polycrates, tiranno di Samo e amico di Pythagoras, passato dalla notte al giorno nel campo persiano, visti gli esiti della spedizione, e Cambise diffidava, anche lui a ragione, delle promesse di fedeltà proferite da un greco, che poteva così facilmente e così leggermente cambiare alleanze. Probabilmente la spedizione era stata sorpresa, al ritorno, nel deserto da una tempesta di sabbia. Ma Dario, a Babilonia, era stato generoso con lui. L’avrebbe voluto trattenere. A osservare il corso delle stelle dai giardini del Palazzo. Ma lui aveva voluto ritornare alla natia Samo, da dove in seguito – ma questo non lo disse a Dario - sarebbe tornato in Italia, a Crotone. Gli venne in mente il commiato da Anassimandro, più di venti anni prima. E quell’affermazione di Senofane che il vecchio filosofo ripeteva ossessivamente, come se più che gli altri volesse convincere se stesso: se mosche, rane, cavalli, scimmie avessero dei, se li raffigurerebbero come mosche, rane, cavalli, e scimmie. “Ricordalo, figliolo”, sospirava, fissando un punto lontano: “non dimenticarlo mai. Il sangue degli dei, nel caso,” soggiungeva poi, guardandolo fisso negli occhi: “non sarebbe diverso dal sangue di qualunque animale. Non ci sarebbe sicuramente nessuna differenza tra un uomo e un dio, come non ce n’è tra un uomo e un animale. E anche il dio sarebbe mortale”. E qui sciorinava le sue teorie teologiche. Iside aveva mummificato un cadavere, e Asclepio aveva rimesso insieme i pezzi di un bel giovane un po’ effeminato dialaniato dai Titani. Ma solo la semplicità di chi presta fede alle favole poteva supporre che Osiride o Dioniso fossero dei e fossero immortali. Poco importa se il popolino avrebbe voluto lapidarlo per queste bestemmie. Poco lontano si ergeva la città di Efeso. Al tempio di Artemide accorrevano fedeli e viaggiatori da tutta l’Asia, dalle isole dell’Egeo e dalla Grecia, arrivavano dalla Tracia e dalla Macedonia, dalla Sicilia e dalla Magna Grecia, dalla Scizia e dell’Egitto. Avrebbero costoro invocato invano fecondità dalla dea generosa? Le mammelle di capra che le pendevano sul petto non stavano lì a dimostrare l’attitudine benevola della dea? “Sempre che sia una dea”, rispondeva Anassimandro: “e non un fantasma delle nostre paure”. Chi sa che cosa ne pensavano della dea cacciatrice gazzelle e cerbiatti, lepri e fagiani, cinghiali e leoni.

Perché uccidere per vivere? pensò Pythagoras. Il lezzo della carne abbrustolita si allontanava. Gli uomini si ammazzano per una fettuccia di terra, e ammazzano per il possesso di un bue, di una donna, per affogare le carni della vittima nel vino prima d’ ingozzarsene. Meritavano di rinascere rospi, serpenti, zanzare, sciacalli. Vero che anche le bestie uccidono. Ma per necessità, per fame. A volte, tuttavia, pensando alla vita degli animali selvaggi, nemmeno la natura gli appariva troppo benigna, gli sembrava anzi una grande beccheria, dove si attuavano le più efferate carneficine, un mattatoio sterminato che non risparmia nessuno. Gli accadeva di commuoversi per lo sgozzamento di un maiale come se si stesse scannando un bambino. Gli strilli erano esattamente gli stessi. Alle sue spalle tramontava il sole, dietro la montagna. Il mare davanti a lui s’era tinto di rosso. Il Cane[1] ancora non appariva nel cielo. Ma non ne aveva bisogno per il viaggio, la direzione verso la quale sarebbe partito l’indomani era esattamente l’opposta: avrebbe sciolto le vele contro il soffio di Noto, e poi sarebbe corso incontro a Zefiro, verso le nuove terre dei Calabri, una volta voltata l’isola di Citera, nel cui mare lo sperma di Ourano fecondando i flutti scuri come il vino aveva generato Afrodite. Sentiva spalancarsi un grande lago nel cervello: l’anima è là. E dalle limpide notti di Menfi trascorreva ai caldi e afosi tramonti di Babilonia. Chi l’avrebbe detto, quando a 20 anni incontrò per la prima volta Talete? Le notti estive dell’Anatolia erano più chiare delle brumose notti di Samo. Lo avevano sfidato, e lui aveva trovato la dimostrazione del teorema: bastava costruire  altre tre copie del triangolo e ruotarle via via di 90, 180, 270 gradi e infine combinarli, incastrarli, ecco ottenuto il quadrato. La superficie d’acqua che si stendeva dal porto di Samo alle coste della Lidia poteva raffigurare l’ipotenusa di un immaginario triangolo,  i cui lati minori sprofondavano nell’Egeo o s’alzavano al cielo per sfiorare le Pleiadi. Ma da qui all’Alfa di Boote, la luminosa stella di Arturo, quale ipotenusa misurerà la distanza del mio desiderio di spazi? Nelle notti di Babilonia il cielo m’appariva come un immenso libro da decifrare. Era scritto tutto lassù, perfino il mio occhio che leggeva nel cielo le tracce dei miei passi sulla terra. Forse ha ragione Talete quando dice che la vita comincia dal mare. Ma prima del mare? E se il mare è l’uno da cui tutto proviene, la terra sarà due? e chi l’ha fatta sorgere? chi le ha dato forma? Non ci sarà forse, dietro, o prima, del mare e della terra, un’altra realtà più generale e più concreta, che è il vero principio delle cose? O vaneggiava a cercare un principio prima del primo principio, un accadimento prima dell’inizio del tempo? Dall’uno il due, uno e due fanno tre, e fa cinque, raddoppiato dieci: l’intero universo. Ma prima dell’uno non c’è niente. La domanda nasce perché veniamo dopo, e siamo dunque abituati a calcolare una successione di eventi. Prima del primo evento non esistono eventi. Il quadrato di un segmento è lo spazio in cui il Caos si fa Ordine. Che la pianta, la più umile delle piante, come il più nobile degli animali, il cavallo, l’uomo, abbiano bisogno di congiungersi con un’altra pianta, un altro animale, per generare una nuova vita, non è senza significato. Ma per fermare il ciclo delle rinascite bisognerà spogliarsi della propria individualità, dell’orgoglio di credersi unici, lasciare senza rimpianto la propria storia individuale per riaffondare nel flusso degli elementi. Bisogna smetterla d’illudersi stoltamente di essere speciali. Nell’immenso vuoto dell’universo la sfera terrestre è il punto in cui convergono gli afflati delle stelle, ma ciò non significa che sia l’astro più illustre. Nel corpo dell’animale si duplica ogni principio di movimento, che sia guardare, toccare, camminare: due occhi, due, quattro arti. Ecco come la nascita del due dall’uno s’imprime anche nella figura dell’animale. Ma il bisogno fondamentale resta quello di masticare: anche l’amore, se tra un uomo e una donna, resta un impulso a mangiare, a divorare l’altro. Si uccide sempre ciò che si ama. Come se si fosse incapaci di amare senza possedere, senz’assimilare l’oggetto del proprio amore. L’amore, a volte, se scatenato dal desiderio, assomiglia di più a un crimine che alla volontà di procurare all’altro il massimo bene. Il furore di un amante non è meno egoista della solitudine del misantropo.

Si alzò. E cominciò a passeggiare lungo il molo del porto. L’agitazione di poco prima s’era calmata, ma il molo s’era riempito ora di una folla festosa: gli allegri schiamazzi assordavano il cielo. Sui tavoli delle taverne brillavano le fiamme delle lucerne. Si udiva un vociare chiassoso e confuso. Dalle griglie saliva il fumo dei pesci arrostiti. Affrettò il passo, turandosi il naso. La visione della morte lo inorridiva. E ancora più lo sfruttamento della morte. Che ne sapeva il vecchio che ora frugava avido con le dita dentro la testa di un cefalo, estraendone la polpa saporita, quali pensieri avessero attraversato il cervello del cefalo prima di finire nella rete del pescatore? Ma che fatto era quella singola morte? Non ogni morte è uguale. Come nemmeno la nascita. Ogni cosa ha un’origine oppure è essa stessa un’origine. L’indeterminato, che non è ancora l’Uno, gli diceva Anassimandro, non ha origine, assomiglia al Caos da cui Orfeo fa nascere l’Uovo d’Argento, fecondato dal Cielo nel grembo della Notte, l’uccello dalle piume nere come la pece che volteggia da sempre sul vuoto primordiale. La creatura che viene alla luce, quando l’uovo si schiude, è l’Uno, Eros, che divide gli elementi e li connette, li accorda, li mescola, li armonizza. Ma questo è fantasia. Fiaba di nonna ubriaca. L’Indeterminato è cionostante un oggetto limitato, è increato e immortale, una sorta di principio universale delle cose, ma non è infinito come non sono infinite le cose che si producono dal suo corpo. Da esso nascono, infatti, tutte le cose, che necessariamente hanno una fine, e la loro fine è il termine di ogni processo di distruzione. Perché dato che le cose hanno un’origine, vanno incontro anche alla propria distruzione, eseguono così una sentenza di condanna, l’una sull’altra, condanna per il crimine di esistere, di separarsi dall’unità originaria, in conformità con la disposizione del tempo. Vivere è sempre separarsi da qualcosa. Sarebbe tornato a casa, avrebbe bollito la sua razione quotidiana di ortiche e cicoria. Anche mangiare piante decretava, certo, una condanna a morte. Ma almeno non vedeva la sofferenza del condannato. A passi lenti si dirigeva verso la sua casa, ai margini della città, in fondo a un viale fiancheggiato da platani. Ma si sentì trattenere per un braccio. Si voltò. Era il più giovane dei suoi allievi, Demetrio, lo guardava sorridendo, disse: “Ma te ne vai così, maestro?” “Che cosa vuoi che faccia per te?” “Per noi tutti”, replicò l’allievo: “Vedi? Sono tutti là sul molo che aspettano”.

Un gruppo di sette o otto ragazzi, in piedi davanti alle taverne, lo guardava e faceva cenni di saluto. Pythagoras sorrise, ricambiò il saluto. “Ma che cosa volete, ora, da me?” domandò. “Le Muse ti hanno fatto dono del canto”, disse Demetrio: “vieni in mezzo a noi e cantaci qualcosa”. “Ma non ho con me la mia lyra”. “Archidamo ha la sua con sé: stava giusto provando a ricordare sulle corde le melodie che ieri gli hai fatto ascoltare, pizzicando le tue”. I ragazzi avevano già preparato uno sgabello sul quale Pythagoras si lasciò trascinare e subito tutti gli furono allegramente intorno. “Cantaci la melodia di ieri”, chiese Archidamo consegnandogli la lyra. “L’invocazione all’Uno?” Pythagoras cominciò a pizzicare le corde. “Di là da questo braccio di mare c’è la città di Mileto”, disse, continuando a pizzicare le corde: “L’armonia lidia è la più adatta per quest’invocazione di armonia tra le cose”. Smise di provare lo strumento. E cominciò a cantare.

 

Zeus, che da sempre il destino consapevole osservi

del groviglio che annoda i mortali in un unico cappio

di sofferenze e di gioia, primo termine fisso

d’ogni consiglio, destinazione eterna del gioco

in cui vita nasce, rinasce cedendosi a morte,

ultimo segno d’ogni umana visibile cosa,

traccia sonora e segreta dell’invisibile mondo,

ecco, ti canto me stesso e ti chiedo placida quiete,

quella che mite tu rendi a chi osserva numero e legge,

nell’ordinato mistero che l’universo feconda:

canto quaggiù se proporzione canta di corde,

musica quale lassù rotazione intona di stelle?

Cantami, dio, dell’uno, del due, del cinque, del dieci,

l’indistruttibile ciclo che ci alimenta e sostiene. [2]

 

Quando il canto fu finito, Pythagoras si accorse che intorno a lui non c’erano più solo i ragazzi che lo avevano invitato a cantare, ma si era formato un grande cerchio di folla plaudente. Vecchi pescatori con le mani rugose, giovani marinai, e perfino donne con i bambini in braccio. Se tanto poteva sugli animi della gente semplice agire la melodia di un uomo, che cosa avrebbero detto e fatto quegli stessi uomini, che ora lo avevano ascoltato commossi, se avessero potuto udire le melodie che i suoi calcoli indovinavano nel moto degli astri?

“Sono stanco”, disse: “domani, lo sapete, parto per l’Italia. Ho bisogno di riposare”. “Avrai tutto il viaggio per dormire, maestro. Resta con noi, e brindiamo alla benevolenza di Dioniso. Glicera ha preparato una frittata di verdure per te”.

Quando si stese sul letto era già quasi l’alba. E tra poco sarebbe dovuto partire. Ma non aveva sonno. Una folla di pensieri gli arrovellava la mente, schiamazzando, non diversamente dalla folla degli allievi e dei cittadini di Samo che avevano cantato e bevuto con lui tutta la notte. Nell’inno cantato poco prima aveva dato per scontato che tra le proporzioni della divisione di una corda che producono i diversi intervalli musicali e le proporzioni celesti dei movimenti degli astri potesse esistere una corrispondenza. Ma l’ipotesi non era dimostrata, nessuna esperienza di una musica cosmica suffragava la suggestione della teoria. Esisteva un limite tra l’oggetto e la sua misura, che sembrava travalicare l’esperienza. Cinque mele, cinque noci, cinque pecore, cinque navi, cinque uomini, cinque donne sono gruppi diversi. Ma tutti hanno in comune il fatto di essere composti di cinque componenti. Quale la natura di questo numero? e quale il suo rapporto con gli elementi ai quali si aggregava? Sul corso di simili pensieri il suo cervello volava lontano. Che differenza tra Pythagoras, Demetrio, Archidamo, Glicera e il termine generico con cui vengono indicati, uomo, ragazzo, donna? Il numero, il nome, potevano sdoppiarsi, svilupparsi, l’uno farsi due, l’uomo diventare un vecchio, la donna una vecchia, il ragazzo un uomo virile. Ma Pythagoras non poteva che essere Pythagoras. E non stava già qui la radice dello sdoppiamento, del due, che lui fosse Pythagoras, ma anche un uomo? Tutta la realtà poteva dunque essere detta dai nomi, dai numeri? o solo i numeri avevano questo privilegio, di indicare il termine ultimo a cui possa essere ridotto un elemento, sia esso uomo, animale, albero o pietra?

Un gallo cantò da un orto vicino. Si alzò, si vestì. Mise nella bisaccia i pochi indumenti e i pochi oggetti che avrebbe portato con sé nel lungo viaggio: l’inseparabile lyra, una tavoletta, uno stilo, un papiro, un calamo egiziano. Il cuore gli batteva forte come quando a vent’anni gli venne incontro Talete. Ripensò alla notte trascorsa e, riudendo in mente il canto dell’Uno, fu assalito da una commozione irrefrenabile: che parte aveva quella musica nel suo cervello? e come poteva il suo cervello inventarla o trovarla, cantarla, ricordarla? o qualcosa prima di lui sopravviveva nel suo cervello e gli sarebbe sopravvissuto dopo la  morte? Con questa domanda percorse gli spazi celesti che lo dividevano dal cielo di Mileto, di Menfi e di Babilonia e lo avrebbero presto diviso, a Crotone, dal cielo di Samo. La dolcezza della melodia che aveva appena intonato quella notte gli si contrasse allora in una più struggente sensazione: un brivido che gli fendeva le vertebre dal capo al coccige. Percepiva, in maniera misteriosa, dentro il suo corpo, la ferita di un distacco insanabile. Che tuttavia non gli faceva male. S’insinuava, anzi, dolcemente negli occhi con visioni di cieli stellati e sulle labbra con il suono di melodie lontanissime. Nostalgia di un esiliato? o desiderio di un amante? O prima, o dopo, la dolcezza del canto non era lì. Esisteva già prima che nascesse, sarebbe continuata a esistere dopo la sua morte. Ricordo o desiderio che fosse, gli venne il sospetto che la musica, come il numero, non sia una realtà di qui, di adesso, ma il sogno di un prima o di un dopo che intravediamo come le nostre ombre proiettate dalle fiamme che crepitano ai nostri piedi sui muri di una caverna. Non bisognava farlo sapere a tutti, ma solo a chi fosse pronto ad accettarne la terribile realtà. La verità non è cibo per tutti, i più ne sono disgustati. Che vivessero dunque tra le loro fugaci e fallaci illusioni. Quanto a lui, e alla sua cerchia, non avrebbe mai più abbandonato il sogno di quella melodia, per quanto distante fossero il luogo da dove veniva e il mondo sconosciuto dove andava. Ma nessun altro luogo aveva, ormai, per lui la concretezza solida, indistruttibile, di quella incommensurabile e dolcissima distanza.

 

Roma, 15 marzo 2010



[1] La costellazione dell’Orsa.
[2] Tentativo di rendere nella metrica accentuativa dell’italiano la prosodia quantitativa dell’esametro classico: si considerano lunghe le sillabe toniche e brevi le sillabe atone.

3 commenti:

  1. Ma il tempio di Artemide, ad Efeso, era così importante?

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  2. Certo che era importante! Artemide era insieme la dea del mondo selvaggio dei boschi e la Nutritrice del Cosmo. Per questo veniva rappresentata con molteplici mammelle sul petto. Che non erano le sue - dea vergine - ma delle pecore sacrificate al suo culto.

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  3. Certo che era importante! Artemide era insieme la dea del mondo selvaggio dei boschi e la Nutritrice del Cosmo. Per questo veniva rappresentata con molteplici mammelle sul petto. Che non erano le sue - dea vergine - ma delle pecore sacrificate al suo culto.

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