ROMATREORCHESTRA.
AULA MAGNA SCUOLA DI LETTERE, FILOSOFIA, LINGUE. CONCERTO DEL PIANISTA GIOVANNI
AULETTA.
Piero
Rattalino ha presentato le musiche. Con molta semplicità, secondo il suo
solito. Ma il concerto offerto al pubblico dell’Università di Roma Tre dal
giovane pianista napoletano Giovanni Auletta andava molto oltre quella
semplicità. Tre compositori russi, Skrjabin, Rachmaninov e Prokofiev, tutti e
tre con pagine del primo Novecento. La Russia arriva ultima, appena nel secolo
XIX, ad arricchire la cultura europea, ma entra con una varietà e una novità di
proposte da far tremare le vene e i polsi. Letteratura e musica, e poi anche la
pittura, europee, dopo l’avvento di scrittori, poeti, musicisti russi di un
livello vertiginoso e di una novità sconvolgente, ne sono profondamente
trasformate. Il romanzo moderno non sarebbe quello che è se non ci fosse stato
Dostoevskij (ma ci sono anche Tolstoj, Čekhov - anche il teatro -, Gogol, Bulgakov).
E la poesia, senza Puškin, Achamatova, Pasternak, Cvetaeva, Blok? Il
melodramma, il balletto senza Čajkovskij? O il teatro musicale moderno senza
Musorgskij e Šostakovič? La musica moderna senza Stravinsky? la pittura senza
Kandinskij? Le pagine affrontate da Auletta appartengono tutte al primo periodo
dei tre compositori. La Rivoluzione è alle porte o è appena cominciata. Dei
tre, il più singolare è forse Skrjabin. Nel senso che fa caso a sé. Le sue
invenzioni armoniche portano alle estreme conseguenze le intuizioni di Chopin. Ma
in maniera personalissima, senza quasi imitarlo, almeno nelle opere mature. Per
il rinnovamento del mondo, che la sua teosofia si auspicava, Skrjabin in realtà
sgretola la compagine armonica tonale, il suo cromatismo si avventura fino ai
confini di un’armonia priva di un vero e proprio riferimento tonale. Ma senza l’ossessione
organizzante di uno Schoenberg. La prima serie di Preludi, op. 11, è all’inizio
di questo sgretolamento. Ma sono disegnati da una fantasia febbrile, esaltata. Aueletta
coglie bene quest’ansia febbrile che li corrode. L’infittirsi del contrappunto
è quasi delirante, ma il tocco non si lascia sviare: ed è proprio la fitta
intelaiatura polifonica a risultare evidente all’ascoltatore. L’armonia è
colore, costruisce timbri, ma non buttata a caso sui tasti del pianoforte,
bensì come risultato evidente dell’incontro polifonico delle voci. Ne salta
fuori una musica di spessore densissimo, che proprio l’intelaiatura polifonica così
fitta rende esasperato, quasi asfissiante. Il canto ne esce esalato, ma anche per così dire
soffocato. Perché immerso nel magma folle di un delirio armonico. Bellissimo!
Peccato che Auletta non abbia eseguito l’intera serie dei preludi. Rachmaninov, che è indubbiamente il
compositore di più richiamo, il più seducente, anche se spesso la sua seduzione
è affidata a sortilegi di non sublime qualità, piuttosto furbeschi, è stato
eseguito per ultimo, nonostante la cronologia avrebbe richiesto il secondo
posto. Ma si capisce. La sua musica
nasce da un piacere pianistico indiscutibile, che solletica la vanità del
pianista e gratifica l’emotività anche la più immediata dell’ascoltatore. Ma
Auletta non si lascia travisare dall’intelligentissimo incantatore. Le Études
Tableaux op. 33 sono pagine magnifiche, scritte con straordinaria pertinenza
pianistica. Ed è proprio questo piacere di suonare, questo godimento del
pianoforte che Auletta ha comunicato al pubblico. A questi livelli, il fascino
dello strumento finisce quasi col travolgere la sapienza della scrittura
musicale. E a questa voluttà strumentale Auletta giustamente si abbandona,
lasciandosi travolgere e travolgendo l’ascoltatore. In mezzo stava la Sonata n.
3 op. 28 di Prokofiev. Una pagina mirabile, di una unità di concezione
difficilmente scalfibile. L’esempio, il modello va ricercato indubbiamente
nella Sonata di Liszt, anch’essa in un solo movimento. Ma Prokofiev vi innesta
di suo un senso motorio inarrestabile, unito a una cantabilità a gola spiegata,
ma non romantica, anzi nuova, moderna, dalla flessuosità armonica
imprevedibile. E qui Auletta ha mostrato un’altra faccia del suo pianismo: il
piacere di rendere evidente e apparentemente facile una struttura armonica e
formale complicata. Forse non tutti l’hanno apprezzato per questo. O forse la
naturale diffidenza per la modernità eccessiva, tipica di parte del pubblico
italiano, non l’ha fatta apprezzare come si doveva. Ma è stata l’interpretazione
più bella della serata. La durezza di certi passi equilibrava magnificamente la
dolcezza di altri. Una lezione di pianismo moderno. E poi due bis: un
meraviglioso Bach, la Sarabanda della Suite in sol maggiore, e la trascrizione pianistica
di una canzone napoletana, che il napoletano Auletta ha regalo suonandola “anema
e core”, ma senza mai perdere il senso dell’equilibrio anche in una pagina apparentemente
marginale come questa. Successo calorosissimo, com’era giusto. A dimostrazione
che i giovani pianisti italiani meriterebbero molta maggiore attenzione da
parte delle istituzioni italiane, di quanta gliene concedano, soprattutto le
paludate e forse un po’ troppo infagottate che vanno sulla bocca di tutti.
Fiano
Romano, 19 ottobre 2015