lunedì 19 ottobre 2015

Giovanni Auletta suona Skrjabin, Rachmaninov e Prokofiev

ROMATREORCHESTRA. AULA MAGNA SCUOLA DI LETTERE, FILOSOFIA, LINGUE. CONCERTO DEL PIANISTA GIOVANNI AULETTA. 

Piero Rattalino ha presentato le musiche. Con molta semplicità, secondo il suo solito. Ma il concerto offerto al pubblico dell’Università di Roma Tre dal giovane pianista napoletano Giovanni Auletta andava molto oltre quella semplicità. Tre compositori russi, Skrjabin, Rachmaninov e Prokofiev, tutti e tre con pagine del primo Novecento. La Russia arriva ultima, appena nel secolo XIX, ad arricchire la cultura europea, ma entra con una varietà e una novità di proposte da far tremare le vene e i polsi. Letteratura e musica, e poi anche la pittura, europee, dopo l’avvento di scrittori, poeti, musicisti russi di un livello vertiginoso e di una novità sconvolgente, ne sono profondamente trasformate. Il romanzo moderno non sarebbe quello che è se non ci fosse stato Dostoevskij (ma ci sono anche Tolstoj, Čekhov - anche il teatro -, Gogol, Bulgakov). E la poesia, senza Puškin, Achamatova, Pasternak, Cvetaeva, Blok? Il melodramma, il balletto senza Čajkovskij? O il teatro musicale moderno senza Musorgskij e Šostakovič? La musica moderna senza Stravinsky? la pittura senza Kandinskij? Le pagine affrontate da Auletta appartengono tutte al primo periodo dei tre compositori. La Rivoluzione è alle porte o è appena cominciata. Dei tre, il più singolare è forse Skrjabin. Nel senso che fa caso a sé. Le sue invenzioni armoniche portano alle estreme conseguenze le intuizioni di Chopin. Ma in maniera personalissima, senza quasi imitarlo, almeno nelle opere mature. Per il rinnovamento del mondo, che la sua teosofia si auspicava, Skrjabin in realtà sgretola la compagine armonica tonale, il suo cromatismo si avventura fino ai confini di un’armonia priva di un vero e proprio riferimento tonale. Ma senza l’ossessione organizzante di uno Schoenberg. La prima serie di Preludi, op. 11, è all’inizio di questo sgretolamento. Ma sono disegnati da una fantasia febbrile, esaltata. Aueletta coglie bene quest’ansia febbrile che li corrode. L’infittirsi del contrappunto è quasi delirante, ma il tocco non si lascia sviare: ed è proprio la fitta intelaiatura polifonica a risultare evidente all’ascoltatore. L’armonia è colore, costruisce timbri, ma non buttata a caso sui tasti del pianoforte, bensì come risultato evidente dell’incontro polifonico delle voci. Ne salta fuori una musica di spessore densissimo, che proprio l’intelaiatura polifonica così fitta rende esasperato, quasi asfissiante.  Il canto ne esce esalato, ma anche per così dire soffocato. Perché immerso nel magma folle di un delirio armonico. Bellissimo! Peccato che Auletta non abbia eseguito l’intera serie dei preludi.  Rachmaninov, che è indubbiamente il compositore di più richiamo, il più seducente, anche se spesso la sua seduzione è affidata a sortilegi di non sublime qualità, piuttosto furbeschi, è stato eseguito per ultimo, nonostante la cronologia avrebbe richiesto il secondo posto. Ma si capisce.  La sua musica nasce da un piacere pianistico indiscutibile, che solletica la vanità del pianista e gratifica l’emotività anche la più immediata dell’ascoltatore. Ma Auletta non si lascia travisare dall’intelligentissimo incantatore. Le Études Tableaux op. 33 sono pagine magnifiche, scritte con straordinaria pertinenza pianistica. Ed è proprio questo piacere di suonare, questo godimento del pianoforte che Auletta ha comunicato al pubblico. A questi livelli, il fascino dello strumento finisce quasi col travolgere la sapienza della scrittura musicale. E a questa voluttà strumentale Auletta giustamente si abbandona, lasciandosi travolgere e travolgendo l’ascoltatore. In mezzo stava la Sonata n. 3 op. 28 di Prokofiev. Una pagina mirabile, di una unità di concezione difficilmente scalfibile. L’esempio, il modello va ricercato indubbiamente nella Sonata di Liszt, anch’essa in un solo movimento. Ma Prokofiev vi innesta di suo un senso motorio inarrestabile, unito a una cantabilità a gola spiegata, ma non romantica, anzi nuova, moderna, dalla flessuosità armonica imprevedibile. E qui Auletta ha mostrato un’altra faccia del suo pianismo: il piacere di rendere evidente e apparentemente facile una struttura armonica e formale complicata. Forse non tutti l’hanno apprezzato per questo. O forse la naturale diffidenza per la modernità eccessiva, tipica di parte del pubblico italiano, non l’ha fatta apprezzare come si doveva. Ma è stata l’interpretazione più bella della serata. La durezza di certi passi equilibrava magnificamente la dolcezza di altri. Una lezione di pianismo moderno. E poi due bis: un meraviglioso Bach, la Sarabanda della Suite in sol maggiore, e la trascrizione pianistica di una canzone napoletana, che il napoletano Auletta ha regalo suonandola “anema e core”, ma senza mai perdere il senso dell’equilibrio anche in una pagina apparentemente marginale come questa. Successo calorosissimo, com’era giusto. A dimostrazione che i giovani pianisti italiani meriterebbero molta maggiore attenzione da parte delle istituzioni italiane, di quanta gliene concedano, soprattutto le paludate e forse un po’ troppo infagottate che vanno sulla bocca di tutti.


Fiano Romano, 19 ottobre 2015 

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