mercoledì 25 marzo 2020

Dantedì: due canzoni dei primi anni d'esilio









Oggi è il primo Dantedì. Metto sulla mia bacheca due canzoni dei primi anni dell'esilio. La prima - in cui allegoricamente è allusa la Filosofia - è la terza canzone del Convivio e apre il Quarto Libro, l'ultimo al quale Dante abbia messo le mani. Ma esperienza personale e ripensameto teorico della stessa esperienza in Dante non vanno mai disgiunti. E qui tocca un vertice in cui è difficile distinguere l'emozione, intensissima, dell'esiliato, dalla riflessione sul predominio dell'ingiusizia sulla terra (scriverà il poema proprio per riparare a questo stato d'ingiustizia ch'è per Dante la storia, e figurandosi, come suggerisce Kadaré, il grande scrittore contemporaneo albanese, in un bellissimo saggio su Dante, il regno della Giustizia che si realizza altrove, perché "l'aiuola che ci fa tanto feroci", e cioè la Terra, gli appare ormai come inabitabile o, meglio, vi si sente come un estraneo, un esiliato, appunto. L'intuizione, straordinaria, di Kadaré, è che Dante sia il primo grande poeta moderno che abbia cantato l'inappartenenza, la reclusione, chei chi aspira alla giustizia, sente come proprio inevitabile stato. La seconda, se possibile, è una canzone ancora più amara, più disperata (quanti hanno mai letto la disperazione in questo perpetuamente insoddisfatto anelito di giustizia che muove la poesia di Dante?): vi si descrive la bellezza (leggiadria) di un mondo di principi civili rispettati, in cui non vengano sovvertiti i metri di giudizio delle azioni umane (si pensa al monologo di Amleto - to be or not to be - in cui ci commuovono e ci feriscono considerazioni simili), un mondo in cui non si veda l'ingiusto, il prepotente, il corrotto domanare i giusti, i virtuosi, i benevolenti. Ma una volta sognato - e Dante sogna assai spesso - questo mondo di leggiadria, ecco la pugnalata finale, l'ultimo verso che ci riconduce alla realtà: "Color ch vivon fanno tutti contro". In margine, una nota linguistica: Dante è uno straordinario costruttore della lingua, inventore di vocaboli e costruzioni sintattiche nuove. In questa bellissima canzone, l'angoscia dell'abbandono trova parole che più intense non avrebbe potuto inventare nessun altro poeta: "io canterò così disamorato / contra 'l peccato, / ch'è nato - in noi, di chiamare a ritroso / tal ch'è vile e noioso / con nome di valore, / cioè di leggiadria ...". Canto un mondo sovvertito, un mondo di soprffazioni, perché come ha lasciato me, Amore ha lasciato tutto il mondo, e me, cosi "disamorato" mi abbandona alla disperazione, il mondo lo consegna all'ingiustizia. Non dimentichiamoci che per Dante Amore è Dio: e muove il sole e l'altre stelle. In altre parole ci sta parlando, sta cantando, di un mondo senza Dio. Gli servirà un lungo poema di 100 canti per ritorvarlo e finalmente incontrarlo per sempre, perdersi in Lui. Questa canzone non ha "congedo". Il discorso non si chiude ma resta aperto.




Domenico di Michelino, Dante, Firenze e i tre Regni, Duomo di Firenze



LXXXII

Le dolci rime d’amor ch’i’ solia
cercar ne’ miei pensieri,
convien ch’io lasci; non perch’io non speri
ad esse ritornare,
ma perché li atti disdegnosi e feri
che ne la donna mia
sono appariti m’han chiusa la via
de l’usato parlare.
E poi che tempo mi par d’aspettare,
diporrò giù lo mio soave stile,
ch’i’ ho tenuto nel trattar d’amore;
e dirò del valore,
per lo qual veramente omo è gentile,
con rima aspr’e sottile;
riprovando ’l giudicio falso e vile
di quei che voglion che di gentilezza
sia principio ricchezza.
E, cominciando, chiamo quel signore
ch’a la mia donna ne li occhi dimora,
per ch’ella di se stessa s’innamora.

Tale imperò che gentilezza volse,
secondo ’l suo parere,
che fosse antica possession d’avere
con reggimenti belli;
e altri fu di più lieve savere,
che tal detto rivolse,
e l’ultima particula ne tolse,
ché non l’avea fors’elli!
Di retro da costui van tutti quelli
che fan gentile per ischiatta altrui
che lungiamente in gran ricchezza è stata;
ed è tanto durata
la così falsa oppinion tra nui,
che l’uom chiama colui
omo gentil che può dicere; ’Io fui
nepote, o figlio, di cotal valente’,
benché sia da niente.
Ma vilissimo sembra, a chi ’l ver guata,
cui è scorto ’l cammino e poscia l’erra,
e tocca a tal, ch’è morto e va per terra!

Chi diffinisce: ’Omo è legno animato’,
prima dice non vero,
e, dopo ’l falso, parla non intero;
ma più forse non vede.
Similmente fu chi tenne impero
in diffinire errato,
ché prima puose ’l falso e, d’altro lato,
con difetto procede;
ché le divizie, sì come si crede,
non posson gentilezza dar né tòrre,
però che vili son da lor natura:
poi chi pinge figura,
se non può esser lei, non la può porre,
né la diritta torre
fa piegar rivo che da lungi corre.
Che siano vili appare ed imperfette,
ché, quantunque collette,
non posson quietar, ma dan più cura;
onde l’animo ch’è dritto e verace
per lor discorrimento non si sface.

Né voglion che vil uom gentil divegna,
né di vil padre scenda
nazion che per gentil già mai s’intenda;
questo è da lor confesso:
onde lor ragion par che sé offenda
in tanto quanto assegna
che tempo a gentilezza si convegna,
diffinendo con esso.
Ancor, segue di ciò che innanzi ho messo,
che siam tutti gentili o ver villani,
o che non fosse ad uom cominciamento;
ma ciò io non consento,
ned ellino altressì, se son cristiani!
Per che a ’ntelletti sani
è manifesto i lor diri esser vani,
e io così per falsi li riprovo,
e da lor mi rimovo;
e dicer voglio omai, sì com’io sento,
che cosa è gentilezza, e da che vene,
e dirò i segni che ’l gentile uom tene.

Dico ch’ogni vertù principalmente
vien da una radice:
vertute, dico, che fa l’uom felice
in sua operazione.
Questo è, secondo che l’Etica dice,
un abito eligente
lo qual dimora in mezzo solamente,
e tai parole pone.
Dico che nobiltate in sua ragione
importa sempre ben del suo subietto,
come viltate importa sempre male;
e vertute cotale
dà sempre altrui di sé buono intelletto;
per che in medesmo detto
convegnono ambedue, ch’en d’uno effetto.
Onde convien da l’altra vegna l’una,
o d’un terzo ciascuna;
ma se l’una val ciò che l’altra vale,
e ancor più, da lei verrà più tosto.
E ciò ch’io dett’ho qui sia per supposto.

E’ gentilezza dovunqu’è vertute,
ma non vertute ov’ella;
sì com’è ’l cielo dovunqu’è la stella,
ma ciò non e converso.
E noi in donna e in età novella
vedem questa salute,
in quanto vergognose son tenute,
ch’è da vertù diverso.
Dunque verrà, come dal nero il perso,
ciascheduna vertute da costei,
o vero il gener lor, ch’io misi avanti.
Però nessun si vanti
dicendo: ’Per ischiatta io son con lei’,
ch’elli son quasi dei
quei c’han tal grazia fuor di tutti rei;
ché solo Iddio a l’anima la dona
che vede in sua persona
perfettamente star: sì ch’ad alquanti
che seme di felicità sia costa,
messo da Dio ne l’anima ben posta.

L'anima cui adorna esta bontate
non la si tiene ascosa,
chè dal principio ch'al corpo si sposa
la mostra infin la morte.
Ubidente, soave e vergognosa
è ne la prima etate,
e sua persona adorna di bieltate
con le sue parti accorte;
in giovinezza, temperata e forte,
piena d'amore e di cortese lode,
e solo in lealtà far si diletta;
è ne la sua senetta
prudente e giusta, e larghezza se n'ode,
e 'n se medesma gode
d'udire e ragionar de l'altrui prode;
poi ne la quarta parte de la vita
a Dio si rimarita,
contemplando la fine che l'aspetta,
e benedice li tempi passati.
Vedete omai quanti son l'ingannati!

Contra-li-erranti mia, tu te n'andrai;
e quando tu sarai
in parte dove sia la donna nostra,
non le tenere il tuo mestier coverto
tu le puoi dir per certo:
«Io vo parlando de l'amica vostra».




LXXXIII

Poscia ch’Amor del tutto m’ha lasciato,
non per mio grato,
ché stato non avea tanto gioioso,
ma però che pietoso
fu tanto del meo core,
che non sofferse d’ascoltar suo pianto;
i’ canterò così disamorato
contra ’l peccato,
ch’è nato in noi, di chiamare a ritroso
tal ch’è vile e noioso
con nome di valore,
cioè di leggiadria, ch’è bella tanto
che fa degno di manto
imperial colui dov’ella regna:
ell’è verace insegna
la qual dimostra u’ la vertù dimora;
per ch’io son certo, se ben la difendo
nel dir com’io la ’ntendo,
ch’Amor di sé mi farà grazia ancora.

Sono che per gittar via loro avere
credon potere
capere là dove li boni stanno
che dopo morte fanno
riparo ne le mente
a quei contanti c’hanno canoscenza.
Ma lor messione a’ bon non pò piacere,
perché tenere
savere fora, e fuggiriano il danno,
che si aggiugne a lo ’nganno
di loro e de la gente
c’hanno falso iudicio in lor sentenza.
Qual non dirà fallenza
divorar cibo ed a lussuria intendere?
ornarsi, come vendere
si dovesse al mercato di non saggi?
ché ’l saggio non pregia om per vestimenta,
ch’altrui sono ornamenta,
ma pregia il senno e li genti coraggi.

E altri son che, per esser ridenti,
d’intendimenti
correnti voglion esser iudicati
da quei che so’ ingannati
veggendo rider cosa
che lo ’ntelletto cieco non la vede.
E’ parlan con vocaboli eccellenti;
vanno spiacenti,
contenti che da lunga sian mirati;
non sono innamorati
mai di donna amorosa;
ne’ parlamenti lor tengono scede;
non moveriano il piede
per donneare a guisa di leggiadro,
ma come al furto il ladro,
così vanno a pigliar villan diletto;
e non però che ’n donne è sì dispento
leggiadro portamento,
che paiono animai sanza intelletto.

Ancor che ciel con cielo in punto sia,
che leggiadria
disvia cotanto, e più che quant’io conto,
io, che le sono conto
merzé d’una gentile
che la mostrava in tutti gli atti sui,
non tacerò di lei, ché villania
far mi parria
sì ria, ch’a’ suoi nemici sarei giunto:
per che da questo punto
con rima più sottile
tratterò il ver di lei, ma non so cui.
Eo giuro per colui
ch’Amor si chiama ed è pien di salute,
che sanza ovrar vertute
nessun pote acquistar verace loda:
dunque se questa mia matera è bona,
come ciascun ragiona,
sarà vertù o con vertù s’annoda.

Non è pura vertù la disviata,
poi ch’è blasmata,
negata là ’v’è più vertù richesta,
cioè in gente onesta
di vita spiritale
o in abito che di scienza tiene.
Dunque, s’ell’è in cavalier lodata,
sarà mischiata,
causata di più cose; perché questa
conven che di sé vesta
l’un bene e l’altro male,
ma vertù pura in ciascuna sta bene.
Sollazzo è che convene
con esso Amore e l’opera perfetta:
da questo terzo retta
è vera leggiadria e in esser dura,
sì come il sole al cui esser s’adduce
lo calore e la luce
con la perfetta sua bella figura.

Al gran pianeto è tutta simigliante
che, dal levante
avante infino a tanto che s’asconde,
co li bei raggi infonde
vita e vertù qua giuso
ne la matera sì com’è disposta:
e questa, disdegnosa di cotante
persone, quante
sembiante portan d’omo, e non responde
il lor frutto a le fronde
per lo mal c’hanno in uso,
simili beni al cor gentile accosta;
ché ’n donar vita è tosta
co’ bei sembianti e co’ begli atti novi
ch’ognora par che trovi,
e vertù per essemplo a chi lei piglia.
Oh falsi cavalier, malvagi e rei,
nemici di costei,
ch’al prenze de le stelle s’assimiglia!

Dona e riceve l’om cui questa vole,
mai non sen dole;
né ’l sole per donar luce a le stelle,
né per prender da elle
nel suo effetto aiuto;
ma l’uno e l’altro in ciò diletto tragge.
Già non s’induce a ira per parole,
ma quelle sole
ricole che son bone, e sue novelle
sono leggiadre e belle;
per sé caro è tenuto
e disiato da persone sagge,
ché de l’altre selvagge
cotanto laude quanto biasmo prezza;
per nessuna grandezza
monta in orgoglio, ma quando gl’incontra
che sua franchezza li conven mostrare,
quivi si fa laudare.
Color che vivon fanno tutti contra.




sabato 14 marzo 2020

Un vecchio ancora ragazzo








Ferrara è la città di Ludovico Ariosto, di Torquato Tasso, di Giovanni Battista Guarini. Di pittori come Cosmè Tura, Francesco del Cossa, Ercole de’ Roberti, Dosso Dossi e Giovanni Boldini. Nel novecento D’Annunzio la cantò come città del silenzio. Ma fu anche la città di Bassani, Vancini e Antonioni. Bassani testimoniò la lunga partecipazione ebraica alla vita della città. Vancini, nella Lunga notte del ‘43, ne celebrò lo spirito antifascista. Antonioni trasferisce nella solitudine dei suoi personaggi la solitudine del paesaggio ferrarese, quella che D’Annunziao, appunto, raffigura come paesaggio del silenzio. De Chirico la trasfigura in emblema metafisico. Una interminabile storia. E interminata. Sciolta nel delta padano la mai avvenuta fondazione romana è un fantasma anche l’eredità bizantina. Nonostante la vicina capitale dell’esarcato, Ravenna. Ed è la città di Roberto Pazzi. Vuol dire qualcosa? Il legame di uno scrittore, e per di più anche poeta, con il luogo in cui vive (Pazzi è nato in luoghi danteschi, ad Ameglia), è insieme segreto e inafferrabile, anche qualora il poeta, come fece per esempio Pascoli – che però è romagnolo, non troppo lontano da qui, ma lontano, diverso - lo esplicitasse, lo descrivesse e addirittura lo nominasse. Il mare natio, di cui pure ha paura, la vastità della pianura sulle rive calme del fiume, sono probabilmente i luoghi della mente che spingono la fantasia di Pazzi a scorrazzare per paesaggi immaginari, anche quando s’abbarbicano a zolle definite, a luoghi della storia. E’ una delle qualità che più colpiscono il lettore, questa del viaggio della fantasia verso paesaggi – anche umorali – lontani, pur partendo dalla geografia precisa di una campagna, di una casa, di un borgo.

Oggi è tutta mia
questa città del silenzio,
alta, sui banchi di neve alle finestre,
Ferrara è la mia camera da letto.

Ma Pazzi è nato ad Ameglia, in Liguria, e della Val di Magra Dante scrive:

Tragge Marte vapor di Val di Magra
ch’è di torbidi nuvoli involuto …
(Inferno, XXIV, 145-6)

E le foschie liguri della natia Ameglia s’innestano così nelle nebbie padane. Tra i bagni estivi:

tutti volevano baciare,
mai nessuno scrivere
la lettera e sott’acqua
ci si lasciava toccare
con uno strano sentimento.

Oppure:

Settembre era un mese di peccati
non ammessi dal segno della vergine …

Paesaggio, luoghi, visioni sono solo simboli di qualcos’altro. I nomi contano quasi più delle cose denominate:

Metteva nome Stanley a fiumi
che nessuno conosceva …

E i nomi sono anche quelli che ci circoscrivono nel tempo e in uno spazio definiti:

Mi confonde la storia
molti morti nel sonno
mi somigliano ed io ne abito
le lettere dei nomi
come il tre sta nel ventisette.

E allora, con il passare degli anni, il tempo in questo “vecchio ancora ragazzo”, finisce con assomigliare a una rassegna di scomparsi, amici, amanti, sconosciuti, che ci lasciano in bocca l’amaro – o forse il rimorso – di esser loro sopravvissuti. Due nomi colpiscono: conosciuti da tutti, ma proprio perciò più dolorosamente vissuti come un proprio scacco, più che per una propria colpa, per la difformità morale di un paese al quale volenti o nolenti si appartiene.

Sereni

Ora la mia mano mi ricorda
la tua.
Se qualche regno patisce violenza
è quello dove tu sei passato,
caduta l’ansia di curare
che tutti, proprio tutti,
fossimo passati.
Perché c’è un punto del mondo
che tu sapevi non reggere il peso
dell’odio, un ponte percorribile
solo da certo peso delle parole
ma che nessuno della marcia
doveva temere.

L’evocazione è certo quella di una bellissima poesia di Vittorio Sereni, Appuntamento a ora insolita, da Gli strumenti umani:

Caro – mi dileggia apertamente – caro,
con quella faccia di vacanza. E pensi
alla città socialista?”
Ha vinto. E già mi sciolgo: “Non
arriverò a vederla” le rispondo.
(Non saremo
più insieme, dovrei dire).

Chi abbia conosciuto Sereni, o abbia comunque letto con intima penetrazione i suoi versi, sa che la sua dolcezza mascherava un’interna sconfitta, un doloroso rimpianto e che la sua poesia altro non è che il canto di un’illusione perduta, ma non perché da giovane s’illudesse, e la guerra, la prigionia in Algeria, ne avessero spento il fuoco, ma perché l’ansia di rinnovamento non solo di sé stesso, ma di un popolo che usciva demolito da una simile sconfitta, prometteva esiti diversi.




L’altra figura è Federico Aldrovandi. E anche questa ci assale come un rimprovero, come un’accusa per ciò che non abbiamo fatto, che non siamo riusciti a fare o non abbiamo voluto farlo. Anzi, nel dolore per l’ingiustizia di quella morte s’innesta anche l’orrore per una bellezza tradita, ferita, soppressa.

Inutile è sempre la bellezza,
questo è il suo incanto
perché non si consuma mai.
Ma senza la forza di illuderla
di occhi nuovi come i tuoi,
pare solo
un rimprovero
a chi resta.

Allora il luogo, anzi la casa in cui si vive, più che una residenza si fa spazio di una fuga, fosse pure la fuga per un esilio.

Sto tra le parole e il nulla,
lavoro ad abitare la mia mente
ma la casa è ancora da finire …

Vivo fuori scena,
il tempo è tutto mio,
posso sciuparlo, regalarlo,
scommettere sulla residua leggerezza,
portarlo con l’eleganza
di eroi colti poco prima della fine
a dir cose lievi e impertinenti,
con la sprezzatura
di guerrieri d’una guerra perduta.

Tutto ciò farebbe pensare a una vita che ha perso il suo centro, il perno intorno al quale annodarsi – il mondo fuori sesto di Amleto – non fosse che a dare senso a questo cumulo d’insensatezza ch’è non solo la propria vita, ma anche quella degli altri, di un popolo, della storia – e Pazzi non è a caso narratore mirabile di storie possibili, forse non accadute, o addirittura impossibile che accadono, anche quando i suoi personaggi sono persone reali, gli avvenimenti eventi realmente accaduti – non fosse che a dare senso all’insensato sia la parola, il linguaggio. Aristotele sostiene che non conosceremmo il mondo se non avessimo il linguaggio, e le neuroscienze sembrano confermare l’ipotesi aristotelica che la specie umana sia l’unica specie a parlare. Berwick e Chomsky vi hanno dedicato un saggio: Perché solo noi? (Bollati Boringhieri, 2016). Cavalli Sforza si sintonizza sulla stessa lunghezza d’onda. En passant, i versi di Roberto Pazzi hanno rime interne, assonanze, un ritmo che evoca metri regolari, endecasillabo, settenario, ottonario, nel flusso dei versi liberi. In quest’ultima strofa, da Vivere a Ferrara, l’attacco: scEnA / leggerEzzA // sprezzatUrA / perdUtA, e tutt’e quattro le parole finiscono per A. La poesia non è le cose che dice, non è il pensiero che enuncia. Ma la cosa, il pensiero che si fanno visibili perché sono detti, e detti in quel modo e non in un altro. Non è qualità molto diffusa nella poesia italiana di oggi, più attenta a comunicare significati che a prestare attenzione al significante, cioè alle parole, al ritmo, alla musica delle parole. “Dolce e chiara è la notte e senza vento” è quasi un bollettino meteorologico. Ma provate a cambiare l’ordine delle parole e la poesia andrà distrutta perché verrà meno la sua musica. Fin da quando frequentavo le elementari e mi obbligavano a fare le versioni in prosa delle poesie mi ribellavo a un esercizio che mi pareva assurdo, perché già allora mi sembrava che stiracchiate in prosa le poesie dicessero un’altra cosa o addirittura non dicessero più niente. Pazzi una sua musica ce l’ha, e in tanti anni, anche se sempre riconoscibile, è cambiata. Oggi è meno evidentemente effusiva, ma ha acquistato una scorrevolezza quasi di conversazione, un tono confidenziale, un po’ come passare dalla cabaletta giovanile al gioco da camera maturo, con una sua musica segreta. Questa raccolta è un’antologia dalle altre raccolte, dalla prima del 1966 all’ultima del 2013, e delle poesie non ancora pubblicate dal 2013 al 2019. Quasi dunque un diario poetico del poeta. E queste mie righe non sono che appunti vaganti su una lettera che andrebbe continuata, ripetuta, riflettuta. Ho sorvolato su un tema che ritorna, in queste poesie come nella narrativa di Pazzi (si pensi a un romanzo come Lazzaro). Dio, la religione, la trascendenza, un oltre che chi sa se c’è, ma che anche se non c’è, lo sentiamo incombere, porci domande. Non è religioso solo chi crede in un messaggio rivelato. Perché altrimenti anche le popolazioni animistiche non avrebbero religione. E’ religioso già chiederci che senso abbia il nostro esserci e se un senso ce l’abbia. Anzi spesso, chi si fa domande è più vicino a un atteggiamento religioso di chi si affida ciecamente all’autorità di una chiesa.

Faticoso quaderno
dove una alla volta
s’annotano le immagini
mentre all’occhio di Dio
tutto è già scritto!

Oppure:

Dio, oggi non ho nessuna voglia
di sentirti scorrere nel sangue,
e mi sforzo di non sentire
come pulsi nelle orecchie,
vecchio sangue del mio Dio che s’attempa,
e si fa sempre più stanco e lento
finché un giorno cadremo insieme.

Se nell’afflato della disfatta civile si affacciavano le figure di Sereni e di Aldrovandi, qui si affacciano San Giovanni della Croce e Santa Tersa d’Avila. Il Dio dei mistici non è un Dio affermativo, ingombrante, presente, ma il Dio dell’assenza, del silenzio, la Notte Oscura, il “muoio perché non muoio”. E’ questa ossessiva assenza che s’infiltra nei versi di Pazzi. Un’assenza che si vorrebbe toccare, sentirla presente. Che s’interroga, per non udire risposte. Non è poi tanto diversa dall’assenza dei corpi che si abbracciano nell’amplesso amoroso. Qualcosa sfugge, si ha anzi il sospetto che a sfuggire sia tutto, anche il corpo che ci s’illude di possedere o da cui si vorrebbe essere posseduti. L’Amor che move il sole e l’altre stelle di sé fa sentire solo il suo muoversi, il folgorarci per poi immediatamente svanire. Pazzi solleva con delicatezza il velo per sbirciarne le fattezze, temendo sempre, come Psiche, che una goccia del proprio fervore gli bruci la pelle e lo faccia fuggire.

E questa voglia antica
che mai si spegne
col passare degli anni,
come farò come farò domani?
Chi di un vecchio ancora ragazzo
perdonerà l’antica brama?

Roberto Pazzi, Un giorno senza sera. Antologia personale di poesia 1966-2019, Milano, La Nave di Teseo, 2020, pagg. 302, € 18,00.

martedì 10 marzo 2020

Alexander Lonquich e Robert Schumann








Alexander Loquich, Schumann-Burgmüller
Colibri Ensemble
Odradek ODRCD355
1 cd

Alexander Lonquich, nato nel 1960, vinse nel 1976 il concorso pianistico di Terni “Alessandro Casagrande”. Aveva dunque 16 anni. Interpretò, tra altre pagine, nel concerto che diede dopo la premiazione, la sonata di Alban Berg. Era una premonizione. Perché Berg è inspiegabile senza Schumann, anzi tutta la musica tedesca – e una parte di quella italiana, per esempio Martucci – sviluppano, evolvono idee già presenti nella musica di Schumann. Perfino quella che sembrò un fallimento, la Genoveva – ma che Harnoncourt giudicava, chi sa se esagerando, l’opera più bella dell’Ottocento – nel suo rigore liederistico – in parte come Schubert – è una proposta di rapporto tra parola e intonazione della parola che possiamo riconoscere in molte altre opere composte dopo, butto qualche titolo a caso: Samson et Dalila, Esclarmonde, Wozzeck, e in fondo lo stesso, e unico, Pelléas et Mélisande. Modello ancora più prosciugato, le Scene dal Faust o il Pellegrinaggio della rosa.

Ascoltai, anni fa, una conversazione di Lonquich sui Kreisleriana all’Università la Sapienza, era stato invitato da Antonio Rostagno, di cui avevo appena letto il prezioso saggio sulla pagina schumanniana. La familiarità di Lonquich non solo con la musica di Schumann, ma con la cultura, l’animo, da cui nasce la musica di Schumann, mi apparve ancora più profonda di come avessi potuto intuire dall’ascolto delle sue interpretazioni schumanniane. L’ostacolo maggiore che un interprete può vedersi innalzare davanti a sé affrontando la musica di Schumann – e non solo il pianista, o il violoncellista, il violinista, ma anche il cantante, il direttore d’orchestra – è la grande mutevolezza della scrittura che si trova a dover decifrare (alla lettera, la musica di Schumann ha molto a che vedere con la decodificazione di codici segreti): si potrebbe pensare a una costruzione basata sull’improvvisazione, che muta continuamente i canoni formali e i caratteri espressivi, ma sarebbe un pensiero limitante, perché l’improvvisazione schumanniana non ha nulla di ciò che possiamo trovare in un Mozart, in un Beethoven, e ancor più in uno Chopin – il suo adorato Chopin – e in un Liszt, ma unisce ciò che apparentemente non sembra combinabile, è cioè una sorta di ossimoro musicale, un calcolo capillare della nota unito alla spontaneità dell’improvvisazione, accosta passi di umore contrastante, il cui contrasto però è previsto nell’organizzazione della forma. Insomma, banalizzando, istinto quasi selvaggio e razionalità estrema, al limite del razionalismo, dell’intellettualismo, convivono nella stessa pagina.

Lo psicologo, per non dire lo psichiatra – uno di essi, Uwe Henrik Peters (nome, labirinti semiologici, anche di una casa editrice musicale), ha scritto due saggi sulla pazzia di Schumann, negandola, Robert Schumann – 13 Tage bis Endenich, Köln, 2009 e Gefangen im Irrenhaus – Robert Schumann, Köln 2011, il primo tradotto anche in italiano da Spirali con il titolo Robert Schumann e i tredici giorni prima del manicomio, traduzione di Francesco Saba Sardi - ma anche solo lo studioso del comportamento umano, potrebbe insinuare un disturbo psicotico. E’ tuttavia molto rischioso azzardare ipotesi cliniche, in questi casi. Ogni artista – come sa benissimo l’antico redattore del Problema XXX arrivatoci con l’attribuzione ad Aristotele – è tale proprio perché disponibile a immaginare, e perfino a vivere, situazioni diverse, anche contrastanti, a figurarsi nelle persone più eterogenee, e intuirne, viverne i pensieri, i drammi, i sentimenti. La letteratura, da sempre, vive di questo. E allora che cosa hanno di anomalo Florestano, Eusebio, Maestro Raro, gli eteronimi di Schumann, rispetto a quelli del contemporaneo Kirkegaard o del novecentesco Pessoa? Ecco, questi eteronimi dobbiamo immaginarli convivere anche nella musica di Schumann. Non a caso i suoi scrittori preferiti erano Hoffmann (e dalle suggestioni di un suo racconto nascono i Kreisleriana) e Jean-Paul.

Ecco dunque che la pubblicazione di un’incisione schumanniana di Lonquich non poteva non attirarmi. Per di più, in quest’incisione, il Concerto in la minore per pianoforte di Schumann è accostato alla Seconda Sinfonia, incompiuta, di Norbert Burgmüller, coetaneo di Schumann, morto a 26 anni, annegando nella piscina di un bagno termale, per un improvviso attacco epilettico, sembra. Schumann ne restò sconvolto, come, qualche anno prima, per la morte di Schubert. Orchestrò lo scherzo della sinfonia, compiuto, ma lasciò stare l’abbozzo del finale, appena 58 battute. E’ una strana, inquietante partitura. Il tema dell’attacco prefigura di Schumann, come osserva nelle note all’incisione lo stesso Lonquich, l’adagio del Concerto per violino e il l’ultima sua composizione, quel tema che dice ispiratogli da uno spirito, forse Schubert, e sul quale costruisce inquiete e cupe variazioni. Brahms riprenderà quel tema, anche lui, per una serie, non meno inquieta, di variazioni. Ma ciò che maggiormente colpisce, e affascina, di questa sinfonia è l’atmosfera sfuggente, l’imprecisione dei profili tematici, una vaghezza insieme sognante e visionaria. E’ vero che il tema affidato all’oboe, nell’Andante, può evocare un tema affine a quello dell’Andante con moto dell’ultima sinfonia di Schubert, ma Burgmüller non poteva conoscerla. 

Norbert Burgmüller
 

Che cosa può avere attratto Schumann di questa musica, tanto da spingerlo a strumentarne lo scherzo? Probabilmente proprio questa quasi sognante indeterminatezza dei profili tematici e la leggerezza tutta contrappuntistica della strumentazione. Oltre, naturalmente, al fascino che doveva suscitare anche la figura del giovane musicista. Poteva in qualche modo ricordargli Schubert e più ancora l’altro sventurato musicista morto giovanissimo, Louis Schunke, con il quale Schumann aveva addirittura a Lipsia condiviso la stessa camera per un anno, e dalla cui amicizia era nata l’idea del Davidsbund. Lonquich in questo mondo fantastico d’immagini sonore fluttuanti, mobili e trascoloranti le une nelle altre ci entra con delicatezza, e ce ne restituisce il fascino. Strano che di un compositore così notevole non facciano cenno né Dahlhaus né Rosen nei libri dedicati all’Ottocento e al Romanticismo.

Ma veniamo al concerto di Schumann. Nonostante esso sia stato composto in momenti diversi e non sia stato concepito inizialmente come concerto, è in realtà di una omogeneità, di una compattezza ammirevoli. Si è giustamente osservato che il primo tempo, nato come brano autonomo, una sorta di fantasia per pianoforte e orchestra, sia fondamentalmente monotematico. Ma il fatto è che la fantasia musicale di Schumann è tutta tendenzialmente monotematica, elaborazione di una cellula originaria, spesso minima - le sfingi del Carnaval, solo tre note - e che la grande varietà di piani espressivi nasce da un’arte consumatissima e raffinatissima della variazione, in ciò erede della lezione beethoveniana. Ma c’è in più il senso parlante, comunicativo, che vuole avere questa musica. Un po’, cultura del tempo, si pensi ai Lieder ohne Worthe, canti senza parole, di Mendelssohn, ma molto, anche, afflato significante che Schumann intende conferire alla musica. La predilezione per i brevi motivi cantabili, per l’impasto cameristico dei timbri, per il labirinto contrappuntistico delle voci – perfino delle voci scritte che non si suonano – nasce qui. E’ il lato più visionario della musica di Schumann. Difficile non pensare a Mahler e perfino a Šostakovič. Ma soprattutto a Berg.

E torniamo da dove siamo partiti. Si ascoltino le battute 156 – 181 del primo tempo, Allegro affettuoso (già schumanniana l’indicazione agogica), il dialogo tra pianoforte e clarinetto, variate poi nelle battute 319 e seguenti, e più avanti, le battute 267 – 293, il delicatissimo fraseggiare del pianoforte solo e poi sulle quintine del pianoforte l’impasto morbido degli archi, sonata, quartetto, quintetto? No, concerto per pianoforte e orchestra, ma l’orchestra è un gruppo da camera. La mirabile cadenza, battute 402-457. da sé un fantasioso, commovente improvviso, riprende le fila del discorso tematico fin qui proposto (probabile che da qui Schumann abbia poi tratto l’idea di conformare al primo tempo gli altri due tempi del concerto), Lonquich la conduce con senso assoluto d’intimità, è una melodia che si sussurra a sé stessi in segreto, senza nessun’altri che l’ascolti se non chi la suona, abolite le stanghette divisorie delle battute, il fraseggiare scorre fluido senza interruzione, come un tentare i tasti, saggiarli, per sentire che cosa ne sortisca, finché il trillo riconduce al tema, all’orchestra, alla conclusione.

L’Intermezzo nasce da una figura del tema del primo tempo, che si presenta alla seconda battuta del tema. Il dialogo con il clarinetto del primo tempo è qui, poco dopo, rievocato da un dialogo con il violoncello. Come a rassicurarci che quell’afflato così tenero, così coinvolgente, dura ancora, non è mai cessato. E non cessa nemmeno nell’Allegro vivace finale, perché anche il suo tema d’attacco riprende il tema del primo tempo, ma nella figura che si era ascoltata nell’Intermezzo. E così alla fine ci si accorge che non è solo il primo tempo ad essere costruito monotematicamente, ma l’intero concerto. Il che non genera nessuna monotonia o uniformità, perché, appunto, consumatissima è l’arte della variazione, ma imprime a tutta l’opera una coerenza, un’unità costruttiva che si risolve nella comunicazione di un respiro musicale ininterrotto, continuo, che s’avventura in alti e bassi, in fughe verso altezze vertiginose e precipizi nell’intimità più gelosa, e si ha come risultato forse il più bel concerto per pianoforte e orchestra di tutto il romanticismo.

Con in più questo rischio, questa vena visionaria, che lo lancia nelle profondità ancora insondate del futuro. E’ questa intimità, unita a questa consapevolezza di un mondo ossessivamente omogeneo, che Loquich ci restituisce. Come? Con una lettura lucidissima del contrappunto sia pianistico sia del pianoforte che si combina con l’orchestra, attraverso un’estrema varietà del tocco e una non minore varietà di respiri strumentali in orchestra, e soprattutto conquistando una libertà di scansione delle frasi che fa parere naturale, dolce, fluido anche l’artificio, anche il virtuosismo pianistico e l’espressione degli strumenti dell’orchestra. Tutto, insomma, sotto il segno della delicatezza e della leggerezza. Il che non vuol dire che i passi energici, di piglio volitivo, siano trascurati, ma sono inseriti in questa mirabile scorrevolezza di tutto l’andamento musicale. Ma sia i momenti delicati sia quelli più energici sono accomunati dal segno di un’espressione per così dire parlante della musica: che è quanto di più schumanniano si possa immaginare.

Il Colibrì Ensemble è un docile, duttile strumento che asseconda con entusiasmo la lettura così intima che di questa musica ci offre Alexander Lonquich.