Annie Ernaux, Passion
simple, Paris, Gallimard, 1991, ristampa 2017, pagg. 77
“Si è artisti solo al prezzo di
sentire ciò che tutti i non artisti chiamano “forma” come contenuto, come “la cosa stessa”. Con ciò ci si ritrova certo in un
mondo capovolto: perché ormai il
contenuto diventa qualcosa di meramente formale – compresa la nostra vita”.
Nietzsche, Frammenti Postumi
Novembre 1887 – Marzo 1888, 11, 3, Nizza 14 novembre 1887. Traduzione di Sossio Giametta, Milano, Adelphi,
1970.
« Tout en
sachant qu’à l’invers de la vie je n’ai rien à espérer de l’écriture, où il ne
survient que ce qu’on y met. Continuer, c’est aussi repousser l’angoisse de
donner ceci à lire aux autres. Tant que j’étais dans la nécessité d’écrire, je
ne me souciais pas de cette éventualité. Maintenant que je suis allée au bout
de cette nécessité, e regarde les pages écrites avec étonnement et une sorte de
honte, jamais ressentie – au contraire – en vivant ma passion, pas davantage en
la relatant ».
Siamo alla conclusione del breve, folle, racconto di una
passione o, meglio, di un’attrazione irresistibile. Impudicamente esibita, più che al lettore,
all’atto stesso di scrivere, concessa, non già come una confessione, ma come un
denudamento fino all’ultimo strato della pelle, e scoperchiati carne e nervi, al sortilegio della scrittura. La sfida, non è
al vissuto - la scrittura segue giorno per giorno, ora per ora, l’andamento
della passione - la sfida è alla
scrittura del vissuto. Si sono dette molte cose, in Italia, di Annie Ernaux, su
Facebook si è perfino letto che è una scrittrice mediocre, poco interessante, anzi
addittura banale. Al solito, il lettore taliano misura il contenuto, si
confronta con la psicologia, dà poco rilievo a come è condotta la narrazione, e
presta ancora minore attenzione al sistema di scrittura. Invece è proprio la
scrittura a denunciare quanto di folle, di delirante, di annichilente possa
annidarsi in una passione che concentri tutto il suo fuoco sul corpo – di chi
aspetta e di chi arriva. Ma non perché la scrittrice racconti chi sa quali
innominabili e inverecondi amplessi – o era questo che si aspettava il represso
lettore italiano, dimenticando che la scrittrice è francese? – bensì scavando
nelle sillabe – è il caso di dirlo, per una prosa così scarna, febbrile,
visionaria – l’irrealtà stessa della realtà che ingoia la narrante.
“Quelquefois, je
me disait qu’il passait peut.être toute une journée sans penser une seconde à
moi. Je le voyais se lever, prendre son café, parler, rire, comme si je n’existais
pas. Ce décalage avec ma propre obsession me remplissait d’étonnement. Comment
était –ce possible. Mais lui même aurait été stupéfait d’apprendre qu’il ne
quittait pas ma tête du matin au soir ».
Si può dire meglio la distanza, la separazione di due
amanti, anche quando l’uno brucia per l’altro?
Ma qualche pagina prima c’è una confessione rivelatrice:
“Souvent, j’avais l’impression
de vivre cette passion comme j’aurais écrit un livre : la même nécessité
de réussir chaque scène, le même souci de tous les détails. Et jusqu’à la
pensée que cela me serait égal de mourir après être allée au bout de cette
passion – sans donner un sens précis à ‘au bout de’ – commeje pourrais mourir
après avoir fini d’écrire ceci dans quelques mois ».
Non c’è molto altro da dire. Sono solo sessantasei pagine.
Ma attraversate da un vertigine non si sa se più folgorante per l’impudicizia
della confessione o per l’ancora più impudica esibizione di una maestria di
scrittura che mozza il fiato. Ma poi, di che meravigliarsi? Annie Ernaux respira
la cultura letteraria che ha innervato i versi di Racine e di Baudelaire, la
prosa – sublime – di Pascal e di Proust, e ha costruito la geometria inimitabile in cui
la misura delle parole coincide con la misura della vita. Ma attenti! Non
perché nei versi, nella prosa, venga riprodotta la vita – i francesi non l’hanno
mai fatto, nemmeno quando inventavano il naturalismo, nemmeno quando Flaubert s’immedesimava
nell’infelice Emma Bovary. La
coincidenza sta invece in una uguale – disperata, folle, irreversibile –
estraneità tanto alla vita quanto alla lingua che la pronuncia, come se proprio
nel momento in cui la scrittura sembra afferrare la realtà, finisca invece per dire
altro. E bisogna confessarlo, in questo i francesi restano inimitabili. Fin
dall’inizio della letteratura volgare, fin dai trovatori e dai trovieri.
Tristan morut par
son amur,
la belle Iseult
de tendrur.
Thomas, Roman de
Tristan.
Fiano Romano, 26 agosto 2016