David Trueba, Tierra
de Campos, Barcelona, Anagrama, 2017, pp. 404. € 20,90. Esiste
anche in formato digitale epub, e in pdf.
“Hacerse adulto
puede que signifique aceptar el caos o al menos aprender a convivir
con él”, pag. 393. Farsi adulti può darsi che significhi
accettare il caos o quanto meno imparare a convivere con esso. Chi
sa, sta forse qui il succo di tutto il romanzo. Che comincia con un
fatto incomprensibile: un carro funebre davanti a una casa in cui non
c’è nessun morto. Il narratore, Dani Mosca, al secolo Daniel
Campos, cantautore di un certo successo, piano piano, svegliato di
soprassalto dai figli, prende coscienza della situazione. Ai figli,
dai nomi strani, Maya e Ryo (poi si capirà che figli di una moglie
giapponese, Kei, violoncellista, dalla quale si è separato), papà
papà c’è un carro funebre davanti casa, chi è morto? Dopo vari
capitoli, tutti, come nel resto del romanzo, dai titoli strani, frasi
di dialogo, di riflessioni, di spezzoni del capitolo stesso, in cui
si racconta l’infanzia – la cugina a cui chiede di fargli vedere
le tette, il cugino con cui confronta le misure del proprio cazzo e
del suo, e la loro capacità di schizzo, la scuola cattolica di preti
ignoranti, oltre che cinici, ipocriti e ancora franchisti, di
compagni anarchici, con cui poi mette insieme una banda musicale, e
le sortite, le prime scopate, l’istitutrice di nuoto, Oliva, di cui
s’innamora e diventa amante per anni, dopo tutto questo, ai figli
glielo spiega che ci fa quel carro funebre davanti casa, e per
spiegarglielo, altri capitoli raccontano di come all’aeroporto di
Barajas, la ragazza del check in gli dice che non ci sono posti sul
volo per Mallorca, proprio nessuno? Nessuno, e Dani scoppia a
piangere. La ragazza s’impressiona, si commuove, chiede se si sente
bene, che cosa è successo? E’ morto mio padre. Allora la ragazza
si affanna a cercare tre posti, per Dani e per i figli. E intanto
chiede: da molto? Da un mese. E il narratore riflette che non aveva
pianto quando il padre era morto, ma piange adesso che non può
portare i figli a Mallorca, che a casa la madre con l’Alzheimer non
lo riconosce più, gli fa domande senza senso. Tuttavia alla fine i
posti si trovano, e parte per Mallorca con i figli. Ma siamo ancora a
meno di un terzo del romanzo. L’amore con Oliva, l’istitutrice di
nuoto. E la fine dell’amore. Le canzoni, il successo, l’irruzione
di Gus, già nel collegio, spudoratamente gay, e guida del gruppo. La
morte di Gus per overdose, liquidata come suicidio dalla polizia, per
nascondere il festino di gente importante. Il viaggio in Giappone,
l’avventura con Kei, la sua vita a Tokyo per cinque anni e poi il
ritorno a Madrid. Impossibile riassumere la trama. O si dovrebbe
riraccontare tutto il romanzo punto per punto, rigo per rigo. Il
racconto procede avanti e indietro negli anni. I dialoghi inseriti
nella prosa come parte della narrazione, indispensabile momento della
sua sintassi, senza segni d’interpunzione, senza virgolette né
trattini. Ecco, il vero miracolo di questo romanzo è la sua prosa,
fluida come un racconto parlato, come uscisse via via dalla bocca del
narratore. Eppure, invece, controllatissima, misuratissima, discorso
diretto e indiretto s’intrecciano, passano l’uno nell’altro
continuamente, senz’interruzione. Lessico quotidiano e lessico
colto anch’essi s’intrecciano come la sintassi ora spezzata,
breve, colloquiale, esclusiva d’ogni coordinazione che non sia
paratattica, ora invece complessa, riflessiva, inclusiva delle forme
più complicate di subordinazione. Un maestro, che non teme
confronti. Le pagine sulla madre sfidano quelle di Proust. Ma,
naturalmente, appaiono più disinvolte, più casuali, meno
compiaciute della loro sottigliezza, e tuttavia ugualmente amare,
intrise di un dolore ugualmente inguaribile. Ma poi c’è il
rapporto continuo, persistente con il padre. Un rapporto ossessivo,
ma colmo di amore, si direbbe un figlio innamorato di suo padre e suo
padre del figlio. Il confronto, la sorpresa, ad ogni nuovo
accadimento, di somigliargli. E pensare che si credeva invece
l’opposto, che litigavano sempre, che non andavano mai d’accordo
in niente, nemmeno nell’arredamento della casa, non parliamo della
scelta di vita: scrivi canzoni? E si vive con questo? Ma quando te lo
trovi un lavoro serio? E ad ogni scoperta di un’affinità
insospettata, invece si chiede: si eredita, questo? La continuità
degli affetti, padre, madre vera e madre adottiva, lui figlio di uno
stupro perpetrato dal padre, ma la madre adottiva tenera come una
madre vera, amici, amanti, si perpetua nel tempo, anche quando il
rapporto s’interrompe, perché si muore, perché si perde la
ragione, perché finisce un amore, o semplicemente perché la vita
cammina, e ciò che si vive, una volta vissuto, resta indietro, non
si riacciuffa. Porto mio padre nel cimitero del paese in cui è nato,
spiega finalmente Dani ai suoi figli. Glielo devo. Non amava Madrid.
Era rimasto un contadino di Castilgia, l’ebreo cacciato dai
Cattolici, tutti i Campos (cognome di molti ebrei rimasti in Spagna,
e assimilatisi ai cristiani), sì, di tutti Campos che non se ne
erano voluti andare via. Il gioco di parole in italiano è
intraducibile: campo significa campo come in italiano, ma è anche
appunto un cognome ebraico e il nome di unterritorio della Castiglia.
L’ebreo Campos, cristianizzato. aveva potuto perfino combattere con
Franco, per Franco, e sentirsi così più spagnolo degli spagnoli. Ma
poi gli altri morti, non erano anch’essi spagnoli? E aveva smesso
di combattere per Franco, di credere in Franco. Gli ebrei rimasti si
chiamavano Campos, come le terre di Castiglia a nord di Madrid. E
quella terra era il suo nome, il suo sangue. Il romanzo racconta il
percorso da Madrid a Campos sul carro funebre con la bara del padre,
a guidarlo un emigrante colombiano, la festa del villaggio per il
ritorno del figio celebre, e gli incontri con i comapgni d’infanzia,
i cugini, le cugine, ormai anch’essi adulti, invecchiati,
disillusi. Festosi solo di questa festa insperata, la festa per il
seppellimento del padre di un figlio celebre, natientrambi nel
villaggio, da cui erano invano scappati via, qui sono le tue radici,
gli dice il sindaco con cui da ragazzo si misuravano il cazzo, perché
rispondergli: non ho radici? E poi il racconto, brevissimo, del
ritorno a Madrid con i figli e con Animal, il batterista del gruppo,
sul furgoncino delle tournée di cantautore. La figlia ha raccolto un
gattino e se lo porta con sé. Questo viaggio di andata e rotorno
dura 404 pagine. E durante il viaggio si ripercorre tutta la vita del
cantautore. Si pensa a Quevedo, allo stesso Cervantes: a tutta una
tradizione spagnola in cui si raccontano gli emarginati, i solitari,
i sognatori. Si pensa ai film di Almodóvar,
e prima ancora di Buñuel.
Si impara a essere figli
quando si è diventati padri, dice Dani a un certo punto. E’
l’altro senso del libro, può darsi, una volta imparato a convivere
con il caos, si è pronti per essere figli, per diventare padri. Lo
dico senza pudore: è uno dei libri più belli che mi è capitato di
leggere negli ultimi anni.
Fiano
Romano, 8 agosto 2016
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