In una discussione sull’arte contemporanea qualcuno ha sollevato,
nientemeno che su Facebook, il più frivolo dei salotti
contemporanei, un problema immenso: quello del rifiuto, da parte di
molti, dell’arte moderna. Non era Facebook né lo spazio né la
sede giusta per discuterne. Ma mi è venuto, allora, da stendere
alcune riflessioni. Non solo sul rifiuto del moderno, ma anche sul
rifiuto del moderno perfino da parte di chi ne conosca i meccanismi,
la costruzione, il sistema. Ora, a parte i rifiuti ideologici, come
quelli che dicono che Boulez non è musica o un'installazione non è
arte, c'è da studiare, invece, il rifiuto di chi capisce, ma
rifiuta. E' un problema che tocca tutta l'arte moderna, direi dai
romantici a oggi. Credo che bisognerebbe studiare con più attenzione
le strutture psicologiche del rapporto del pubblico con l’arte:
dell'attesa, del riconoscimento, da parte del pubblico, e della
programmazione di queste attese da parte dell’artista. Ciò,
infatti, che o non si capisce o, se si capisce, non se ne accettano
le ragioni, oppure, d’altra parte, ciò che non ubbidisce alla
nostra attesa di che cosa debba essere un'opera d'arte, ciò in cui
non riconosciamo ciò che ci aspettiamo da un’opera d’arte,
ebbene, questo è automaticamente rifiutato, il rifiuto, anzi, scatta
quasi come un riflesso condizionato. E questa reazione comincia
proprio con il romanticismo. E forse già con il tardo illuminismo,
l'arte della Rivoluzione. Quando Beethoven offrì a Paganini il suo
Concerto per violino, Paganini lo dichiarò non solo ineseguibile, ma
incomprensibile. Eppure Paganini, di dodici anni più giovane, se non
altro anagraficamente, avrebbe dovuto essere un musicista più
moderno di Beethoven o quanto meno disponibile ad afferrarne la
modernità. Weber, poi, ascoltata a Vienna la Nona Sinfonia, esclamò:
Beethoven è diventato pazzo. Ed era il compositore del
rivoluzionario Freischütz! (malamente tradotto in italiano con
Franco Cacciatore; la traduzione corretta sarebbe Libero Tiratore, o
addirittura Cecchino). Peggio fecero Clara Wieck Schumann e Brahms,
impedendo a Schumann la pubblicazione del suo Concerto per violino,
perché, gli dissero, l'avrebbe screditato, pagina inconcludente,
incomprensibile (di nuovo!) e sconclusionata. E' invece un capolavoro
assoluto: c'è già Mahler. Potrei continuare. A ciò si aggiunga che
l'arte moderna richiede una competenza aggiunta, perché non si serve
dei codici in uso, me ne inventa continuamente di nuovi. In realtà
tutta l'arte richiede la conoscenza dei codici sottintesi, solo che
in genere, per l’arte del passato, questi codici sono diffusi e
conosciuti: la decifrazione di un quadro come la Tempesta di
Giorgione non richiede minore lavorio intellettuale della
decifrazione di un'installazione di Cattelan. Ma è un lavorio che
chi guarda la Tempesta crede (a torto) di possederne gli strumenti
per avviarlo, perché figurativamente la rappresentazione è
riconoscibile, un uomo e una donna in un paesaggio. Ma i manichini
impiccati (tre bambini) di Cattelan che ha fatto infuriare i
milanesi? Mancava l'informazione sul loro significato. O meglio:
c'era, ma i milanesi non si sono preoccupati di leggerla e
d'informarsi. L'arte moderna invece pretende l'informazione e, direi
di più, richiede, esige la competenza specifica. Ma a ciò il
pubblico italiano non è educato né incoraggiato né abituato. Meno
di altri, comunque. A Zurigo ho visto coppie di giovani trentenni con
i figli decenni sdraiati per terra a guardare un'installazione sul
soffitto di una sala della Galleria d'Arte moderna. Quei bambini
svizzeri a 20, 30 anni sapranno che cos'è un'installazione e
l'apprezzeranno. Niente di simile in Italia. Qualcuno, sempre su
Facebook, ha definito le installazioni della Biennale di Venezia
“fetecchie”. Chiesto a costoro chi fossero, per sparare giudizi
così sbrigativi, si qualificarono uno come critico d’arte non
ricordo di che giornale e l’altra una gallerista. Ogni commento è
superfluo. Non ringrazierò mai abbastanza la mia professoressa di
storia dell'arte al liceo che, mostrandoci le fotografie dell'Hera di
Samo e dell'Auriga di Delfi, disse: l'Hera di Samo è un capolavoro
assoluto, l'Auriga un'opera contraddittoria, indecisa tra la fissità
arcaica e il nuovo realismo classico, il volto, realistico, è di uno
stile che non corrisponde a quello arcaico del corpo. Noi
scandalizzatissimi. Ma come! Quella sembra una colonna, invece che
una dea, e questo invece si capisce che è un uomo. Aveva ragione la
professoressa. Ecco, bisogna cominciare da lì: già dalla percezione
dell'arte antica. Ai miei allievi spiegavo come è costruito un
motetto (si dovrebbe scrivere sempre così, con una sola t, la prima
t, il termine è francese, da mot, parola, motet, latinizzato
motetus) isoritmico dell'Ars Nova francese del XIV secolo, e facevo
notare le analogie con i procedimenti della musica seriale del
secondo Novecento. Ma no! sbottava su qualche allievo. Machaut come
Stockhausen! E perché no? leggi, e studia. ma non badare allo stile.
Analizza la costruzione, la composizione. Ti accorgerai che
l'atteggiamento mentale è lo stesso: l'idea che un'opera d'arte è
costruzione dell'intelligenza, anzi del calcolo mosso
dall'intelligenza. E non il vomito di un impulso immediato.
Altro, e più complesso, discorso andrebbe fatto sulla comunicazione.
Qui non posso che accennarne uno spunto schematico. In una società
sempre più parcellizzata, sempre più devotamente fedele alla
divisione dei compiti, alla separazione delle competenze, e dunque
strutturata (o sovrastrutturata, se il termine non ripugna) secondo
le esigenze di una capillare specializzazione, che meraviglia se
anche l’artista si ritagli il suo spazio di specializzazione
esclusiva, alla lettera, che esclude, invece di includere, il resto
della società? Delle tante idee discutibili e forse perfino
sbagliate di Adorno, una mi pare oggi ancora valida: che proprio per
questo l’artista non debba arrendersi a una costruzione
immediatamente comprensibile, banale, semplice, come gli chiede il
pubblico o, più probabilmente, l’industria culturale, inclusi
nell’industria anche scuole, ministeri, partiti politici. Se vi si
arrende, il rischio è un’alienazione integrale dell’oggetto che
vorrebbe presentarsi come comprensibile, nel senso che non è ciò
che l’intenzione artistica si dovrebbe proporre, vale a dire
un’invenzione altra rispetto al reale, un’opposizione alla
facilità del consumo, al mascherarsi di arte ma essere solo luogo
comune. Non è detto che ciò sia in contrasto con il successo.
Beethoven non era per lo più capito dai critici, ma il pubblico lo
adorava. E la sua musica è tra le più difficili mai concepite.
Eppure d’impatto immediato. Il pubblico, può darsi, vi riconosceva
le proprie speranze frustrate. E c’indovinava. La Rivoluzione era
fallita. C’era la Restaurazione. Adorno non inventa quasi niente.
E’ almeno da Goethe, Lessing e Schiller che il pensiero tedesco
s’interroga sulla funzione, e sul posto, dell’arte nella società.
In Italia lo colse perfettamente Leopardi, rielaborando la teoria di
Schiller sulla poesia ingenua, tipica degli antichi, e in particolare
dei Greci , e la poesia sentimentale, cioè filosofica, l’unica
oggi possibile, la poesia della riflessione. Lasciamo stare se la
storicizzazione fosse corretta; Eschilo è tra i poeti più
filosofici che si possano immaginare. Proprio per questo, oggi,
l’artista deve modificare gli strumenti del suo mestiere, della sua
specializzazione, il poeta la lingua, il pittore il colore, lo
scultore i volumi, l’architetto – ai confini dell’utopia – la
sistemazione dello spazio. L’opposto, con una parola introdotta da
Marx, ma la sua analisi non fa una grinza, è la reificazione.
Proprio ciò che l’arte, da sempre, ha evitato. A cominciare dalla
rappresentazione dei totem, in Africa. Il discorso è certo assai più
complesso. Ma queste ne sono le linee generali. La difficoltà che
offrono al pubblico, oggi, le opere d’arte, non sono evitabili:
devono essere difficili, per non essere merce di scambio come una
patata, un cellulare, un profumo. Il che non significa certo che ogni
opera difficile sia automaticamente arte. Ma solo che l’arte, oggi,
non può che essere difficile. Ma a volte mi assale un dubbio. Siamo
davvero sicuri che una tragedia meravigliosa, avvincente, come
l’Elena di Euripide, emozionante quasi fosse un film di avventure,
e questa donna, la sua protagonista, mai stata a Troia, che si
dispera per la cattiva fama procuratale dal fantasma che ci è andato
al suo posto, e che al marito ritrovato, Menelao, che ingenuamente le
chiede se dunque dieci anni di sofferenza, di stragi, sotto le mura
della città assediata, siano stati solo una guerra combattuta per un
fantasma, se questa donna, Elena, anche lei infelice per dieci anni,
e ora ritrovata, che gli risponde: e per che cos’altro voi uomini
fate le guerre, se non per un fantasma? ecco, ripeto, siamo davvero
sicuri che l’invenzione di questa donna stupenda, la più bella del
mondo, amabile come nessuna altra, intelligente come nessuna e nessun
altro, siamo sicuri che questo bellissimo personaggio teatrale sia
poi un’invenzione così semplice e così immediatamente
comprensibile? Basterebbero gli aerei, musicalissimi cori della
tragedia, apparentemente senza legame con l’azione, a smentirlo. E
perché parlano d’altro?
Fiano Romano, 4 agosto 2017
Questo bellissimo percorso analitico-storico-filosofico, com'è giusto che sia, non dà risposte certe, ma stimola altre riflessioni che potrebbero proseguire all'infinito. François Fédier, nel suo saggio "L'Art" (Christian Marinotti Edizioni s.r.l. Milano, 2001) dopo aver raccontato un aneddoto di cui fu protagonista Eugène Delacroix, il quale, invitato al Louvre per ascoltare un discorso sull'arte, o sui progressi dell'arte del critico e filosofo Ravaisson, indignato e infastidito, abbandonò la sala prima del termine dell'orazione, commentando: "Da lì sono andato a piedi a trovare Rivet, con un tempo magnifico e con il grande piacere di muovere le gambe in libertà, dopo la reclusione di poco prima". E' la parola "reclusione" che spinge Fédier ad una riflessione:
RispondiElimina"In sintesi, Delacroix obietta al filosofo di appiccicare una teoria sul fenomeno dell'arte e di valutare l'arte secondo questa teoria, invece di apprendere dall'arte stessa ciò che serve a capirla. Nel testo, la parola più carica di senso per quanto concerne il nostro lavoro è la parola "reclusione", che si trova proprio alla fine. Se vogliamo che la nostra riflessione ci guidi verso il fenomeno dell'arte per se stessa, è decisivo per noi non avere, neppure per un istante, la volontà di recludere l'arte, di catturarla, di afferrarla, e anche di concepirla."
In effetti, la libertà è condizione essenziale all'arte che, proprio perché libera, non è mai obsoleta, nemmeno quando sembra non inserita nel tempo in cui vive.
Ma sembra invece che proprio della libertà abbiano paura gli italiani: salvo a rivendicare un personale arbitrio che scambiano per libertà.
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