Riflessioni intorno alle perplessità di un lettore riguardo alla
Conversazione su Dante di Osip Mandel’štam
Che cosa rispondere a un lettore insoddisfatto, anzi frustrato dalla
lettura di Conversazione su Dante di Osip Mandel’štam?
Ecco la sua “recensione” sul
sito IBS:
Libro difficile. Insolito. Molto personale. Che cosa rimane dopo la
lettura? Molta insoddisfazione. Uno stato di quasi frustrazione. In
generale. Forse qualche idea su cui riflettere giustifica la fatica e
il tempo consumato: 1. << Leggere Dante è prima di tutto un
lavoro interminabile, che a misura dei nostri successi ci allontana
dalla meta>> (43) 2. << La Divina commedia non tanto
sottrae tempo al lettore, quanto piuttosto glie ne fa dono [?]>>
(54) 3. << A volte Dante sa descrivere un evento in modo tale
che di esso non rimane assolutamente nulla. Per far ciò egli usa un
procedimento che vorrei chiamare metafora eraclitea [?]>>(75) e
più avanti << A una domanda diretta, senza preamboli, su cosa
sia la metafora dantesca, risponderei che non lo so, perché della
metafora è possibile dare solo una definizione metaforica [?]>>
(116) 4. << È impensabile leggere i canti di Dante senza
volgerli al presente >>.(79-80) Sulla traduzione: non sempre
felice, anzi farraginosa, incomprensibile. (89) E infine ritengo che
dovrebbe essere vietato per legge fare un prodotto come questo. Dico
un prodotto che a una bella - perché semplice - copertina aggiunge
un testo le cui pagine non si possono voltare perché se lo fai ti
rimangono in mano. È semplicemente un'indecenza! E poi, ancora: la
prima di copertina del testo pervenutomi non è la medesima in mostra
sul sito di IBIS e che ho ordinato! Due copertine, di cui una
solamente per 'adescare'?! p.s. il voto è basso soprattutto per il
manufatto.
28/12/2015
14.58.14
Va dato merito a Vincenzo
Esposito di motivare la sua insoddisfazione. Ma sono proprio le
motivazioni a lasciare perplessi. L’attacco è identico alla bella
recensione di Claudio Napoli, Università di Pisa, Settembre I: La
Divina
Commedia
nella Conversazione
su Dante
di Osip Mandel’štam. “La
Conversazione su Dante
è un'opera di difficile lettura. Per meglio dire, è un'opera di
difficile classificazione”. Ecco, Esposito doveva partire da una
ricerca sul web e avrebbe trovato questa recensione, che gli avrebbe
spiegato il suo disorientamento. La critica dantesca non è una
passeggiata, né la “spiega” di un manuale scolastico. Anche una
singola pagina di Auerbach è difficile. Per esempio il bellissimo
saggio sulla “figura”, in cui si discute sull’allegoria, e si
precisa che il termine allegoria è troppo generico, che già Dante
lo suddivide e precisa meglio nella lettera a Can Grande della Scala,
che sarebbe preferibile usare la categoria di figura, usata
nell’esegesi biblica medievale. L’agnello è figura di Cristo, ma
non cessa per questo di essere anche figura di sé stesso. Nella
Commedia tutto è figura di altro, ma è anche, alla lettera, ciò
che si racconta. Le
frasi che Esposito cita dalla conversazione mandelstamiana e che
addita come incomprensibili rientrano in questo duplice binario della
significazione concettuale e poetica. Esposito doveva sapere in
anticipo che Mandel’štam
è poeta, e lo è in maniera molto particolare, partecipa al
movimento degli acmeisti russi, ma ne sviluppa una propria
individuale reinvenzione. Ciò che scrive, anche quando non scrive
poesia, rinvia sempre a un significato altro da quello che è detto.
Sembra quasi conoscere la poetica indiana del dhvanya, secondo la
quale nella poesia il significato sta non in ciò ch’è detto, ma
in ciò che non è detto, un sottotesto o, meglio, un pre-testo, che
il lettore, o l’ascoltatore, devono scrutare al di sotto del senso
esplicito delle parole. Del resto la poesia russa, direttamente o
indirettamente, ha legami consapevoli ma anche inconsapevoli con la
poesia orientale. Colpisce, nel
lettore napoletano,
l’incomprensione di questa frase del poeta russo: “Leggere Dante
è prima di tutto un lavoro interminabile, che a misura dei nostri
successi ci allontana dalla meta”. Mandel’štam
dimostra qui di avere, invece,
profondamente inteso il senso e lo spirito della Commedia, un poema i
cui molteplici sensi non si esauriscono con una spiegazione, ma che
anzi ogni
spiegazione accresce di nuovi sensi il
passo che si legge,
e così all’infinito, in un rapporto continuo, e personalissimo,
bidirezionale, tra poeta e lettore. La prima spiegazione, o il primo
chiarimento di una “figura”, non ne esaurisce, infatti,
il senso, ma apre la via a una serie interminabile di altri sensi. La
lettura, qualunque lettura, della Commedia, è solo uno dei possibili
modi di leggerla: aristotelicamente, tutte le potenziali altre
letture in essa contenute, dovranno attuarsi in successive,
molteplici e mai conclusive letture. In realtà qui il poeta russo
sta parlando, non tanto di Dante, o non solo di Dante, ma della sua
ossessione di una vita: la poesia. Che
a Esposito sfugga questo carattere della lettura di un poeta, lo
dimostra un’altra frase da lui citata come incomprensibile: “A
una domanda diretta, senza preamboli, su cosa sia la metafora
dantesca, risponderei che non lo so, perché della metafora è
possibile dare solo una definizione metaforica”. Tra parentesi
quadre Esposito colloca un punto interrogativo. Ma che cosa c’è
d’incomprensibile in questa corretta definizione della metafora? In
greco moderno la parola metafora indica i mezzi di trasporto. La
lingua parlata, a volte, capisce il linguaggio meglio di qualunque
critica. La metafora è in effetti un trasporto, i latini dicono
traslato, e cioè un senso che rinvia a un altro senso, ma non a
un
altro senso preciso, bensì a
una schiera, a
un
ventaglio di sensi, dei quali nessuno è quello ultimo, ma tutti
rinviano a un senso altro, e per spiegarlo, qui, io sto usando una
metafora, proprio come afferma Mandel’štam, che
“della metafora è possibile dare solo una definizione metaforica”.
Che la spiegazione di una metafora stia
in tutte le metafore successive, innumerabili, contenute nella
metafora iniziale, è
l’assunto principale della “conversazione” (e non saggio) del
poeta russo.
Quando dico “brucio d’amore” non sto certo dicendo che sto
prendendo fuoco, e già questa è un’altra metafora, né che sono
pazzamente innamorato, e “pazzamente” è un’altra metafora, o
che mi consumo dal desiderio, altra metafora ancora, e così via. Che
poi l’espressione sia diventata luogo comune e perfino banale
dimostra solo la forza che possiede una metafora, al punto di
rendersi comprensibile, senza essere specificata, perfino nel
linguaggio quotidiano. Petrarca chiama “luci” gli occhi di Laura.
Noi stessi, nel linguaggio quotidiano, diciamo di qualcuno o di
qualcuna, che i suoi occhi sono “luminosi”. Ma vogliamo con
questo dire solo che diffondono luce, sono pregni di luci (altra
metafora!)? La luce è immagine dai molteplici e profondi
significati. Perfino di salvezza, per un credente: la luce della
salvezza. E tali appaiono a Dante gli occhi di Beatrice. Per
Petrarca, anche lui credente, ma il cui amore non ha nulla di
salvifico in senso religioso, la luce rinvia a un altro tipo di
salvezza, o addirittura a tutti i tipi di salvezza. La conoscenza di
sé stesso, tanto per cominciare. Ovvio che in questa poesia entrano
di prepotenza anche espressioni e figure del linguaggio religioso.
Proprio dall’esempio del Petrarca, che a sua volta si confronta sia
con lo Stil Novo sia con gli amatissimi poeti provenzali, nasce anzi
la trasformazione dell’innamoramento e poi dell’amore, come
processo di un culto iniziatico. E’ stato facile denigrare il
petrarchismo per il proliferare di poeti mediocri (ma ce ne sono
anche di altissimi!) che hanno fatto uso e abuso delle metafore
petrarchesche. Ma
basterebbero i sonetti di Shakespeare o le poesie di Donne e su su le
corrosive metafore di Baudelaire o di Rimbaud o gli enigmi di
Mallarmé a riconoscere nel modello petrarchesco l’abissale
metafora di quasi tutta la poesia europea. Non vi sfuggono nemmeno i
contemporanei, Eliot meno di altri. O il nostro Montale. Meriggiare
pallido e assorto riecheggia, perfino nel ritmo, un famoso, e
bellissimo, sonetto del Petrarca: Solo e pensoso, i più deserti
campi. Scriveva, poco prima, qualche rigo sopra la frase citata
riguardo
alla metafora,
Esposito, citanfo
la Conversazione:
“A volte Dante sa descrivere un evento in modo tale che di esso non
rimane assolutamente nulla. Per far ciò egli usa un procedimento che
vorrei chiamare metafora eraclitea”. Di nuovo un punto
interrogativo tra parentesi quadre. Che
cosa c’è d’incomprensibile? Eraclìto è il filosofo del perenne
fluire delle vicende e delle cose, in apparente contrasto con la
permanenza dell’Essere parmenidea. Ma sono invece le due facce di
uno stesso problema: la realtà che ci appare mutevole e sempre in
movimento ha forse radici in una sostanza, o evento, immutabile. I
filosofi cosiddetti presocratici cercavano il principio unico che
tiene insieme la molteplicità del mondo e forse dei mondi (Newton
e Einstein non cercano niente di diverso).
Ma lo cercavano non già in un principio astratto, bensì nella
concretezza della materia. Per esempio, l’acqua, per Talete. O i
quattro elementi originari, acqua,
terra, aria, fuoco,
per Empedocle. O gli atomi, particelle indivisibili, per Democrito. E
per loro è materia anche il linguaggio. Se ne ricorderà Lucrezio.
Ma anche Aristotele, che fa tesoro delle loro ricerche
naturalistiche. Mandel’štam si ferma al significato di flusso, di
corrente. Ma proprio perché in questo fluire vede l’inesauribile
moltiplicarsi dei sensi. E di nuovo, parlando di Dante, sta parlando
della poesia. E,
senza aver letto Auerbach (il saggio Figura fu pubblicato più tardi)
dice quasi le stesse cose. Ma non dimentichiamo che Roman Jakobson
era russo e che il Formalismo del Circolo di Praga, da lui fondato,
ha dunque radici russe. Da questa costola nascerà lo Strutturalismo,
che, però, in parte, ne sterilizza la carica eversiva, la
fecondità critica allusiva.
Possiamo
fermarci qui. Le altre frasi citate come stralunate e
incomprensibili, si chiariscono facilmente, esercitando, appunto, le
nostre capacità di leggere le metafore, e lo scoglio che il lettore
incontra a comprenderle è l’ostacolo che sempre incontra chi si
nega a penetrare il molteplice della poesia. Il lettore napoletano
non si scoraggi, è in buona compagnia. Galilei, fervente ammiratore
dell’Ariosto, non amava il Tasso, gli riusciva, appunto,
incomprensibile. L’equilibrato, armonioso mondo ariostesco gli
pareva abbandonato per un modo confuso, inafferrabile,
in-significante. In realtà proprio il Tasso avrebbe dovuto fargli
capire quanto d’incommensurabile, incomprensibile, sfuggente,
molteplice si celi anche dietro la chiarezza dell’Ariosto.
Quanto
d’ineffabile dietro le immagini trasparenti di Raffaello. Galilei
critica anche il linguaggio del Tasso. Sofronia è condotta nuda al
patibolo e si vergogna. Tasso scrive: “Raccorse gli occhi”.
Immagine bellissima, questo ritrarsi degli occhi dalla nudità
visibile per nascondersi nell’intimità del pudore. Ma Galilei non
la capisce, ed esplode: “E che? Le eran caduti?” Prende la
lettera, senza capirne
il senso metaforico. Ma se non afferri la metafora, perché leggi la
poesia? Anzi, perché ti occupi di letteratura? Perfino gli scrittori
che programmaticamente dicono di attenersi al reale non possono
sfuggire all’ambiguità letteraria. Chi è Madame
Bovary? C’est moi, dichiara Flaubert. Ah, sì? Allora non è solo
la povera donnetta di provincia che ambisce a un’esistenza diversa,
più nobile, più acclamata? Eh, caro Galilei, caro Esposito, la
poesia è sempre altro da quello che apparentemente dice. E lo è
anche la critica della poesia, quando si confronta con testi
dell’ampiezza e della complessità della Commedia. Ma fosse stato
un sonetto di Shakespeare le cose non sarebbero state diverse. Per
non parlare del suo teatro. Chi è Amleto, chi Lear, chi Macbeth? E
che vuol dire Amleto quando confessa all’amico Orazio che il suo
cuore è malato (ill)? O Macbeth quando dice di sentirsi scorpioni
nel cervello? O Lear, quando proclama che la natura è ingrata?
Per
correggersi subito: la tempesta che lo assale e lo fustiga, non è
sua figlia, non può essere accusata d’ingratitudine. Chi non è
disponibile all’avventura di penetrare dentro mondi molteplici,
interminabili, innumerabili, si tenga lontano dalla poesia e dalla
letteratura. Non è il mondo della logica. Non è nemmeno il mondo
dell’irrazionale, come qualcuno suggerisce, per salvare capra e
cavoli. Si ha un’idea molto ristretta della Razionalità se la si
delimita nella Logica. La Logica è solo una parte, anzi uno
strumento, della Ragione. Aristotele, infatti, la chiama appunto
strumento, organon. Ma la Ragione ha sguardo più vasto (metafora!).
E sarebbe impossibile senza il linguaggio. La razionalità della
poesia sta proprio qui, nel fatto che è linguaggio. Non che usa il
linguaggio, anche la scienza lo usa, ma che è essa stessa
linguaggio, solo linguaggio. Lucrezio lo capisce benissimo e lo canta
divinamente. Metafora anche l’attacco del poema che invoca la
Natura sotto la figura dell’alma Venus, Venere nutrice,
generatrice. Chi lo direbbe? Il poeta della scienza che fonda la
scienza della poesia. Non è un gioco di parole. E’ proprio così,
nel momento che con il canto nasce il linguaggio, poesia e scienza
sono indissolubilmente congiunte. Per questo scrive un poema e non un
trattato. Anche
qui, Aristotele aveva visto giusto: senza linguaggio non c’è
conoscenza. E anche la poesia è conoscenza dell’universale. Al
linguaggio Aristotele dedica trattati fondamentali, dalle Categorie,
al De Interpretazione, alla Retorica, alla Poetica. E nell’Etica a
Nicomaco specifica che i metodi della conoscenza, della ricerca della
conoscenza, non sono gli stessi in tutte le scienze, ma devono
adeguarsi all’oggetto della ricerca, la ricerca delle leggi del
comportamento umano non è condotta con lo stesso metodo con cui la
matematica calcola le proporzioni del reale, anche se sempre si
tratta di linguaggio. Ma sono andato troppo lontano. La neurobiologia
moderna ha scoperto che le zone del cervello che presiedono
all’emozione e all’elaborazione logica sono contigue e che se una
delle due si guasta anche l’altra non funziona. Tutti gli accaniti
sostenitori di una separazione tra razionale e irrazionale, tra
emozione e riflessione, tra spirito e materia, sono serviti. Spinoza
lo aveva intuito più di tre secoli fa. La scienza moderna gli dà
ragione. Fanatici accoliti di tutte le religioni, fatevene, appunto,
una ragione. Lettori
di poesia: non indietreggiate davanti all’incomprensibile. E’
probabile che proprio entrando dentro quel labirinto (metafora!) ciò
che vi appare incomprensibile diventi comprensibile e da quel punto
ciò che avete appena compreso vi apra la strada per nuovi ancora
incomprensibili territori. Non perdetevi d’animo. Ogni lettura
scopre cose che alla lettura precedente erano sfuggite.
Fiano
Romano, 31 luglio 2017
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