domenica 16 luglio 2017

Una breve riflessione sulla poesia, a proposito di Quasi leggera morte

Qualche riflessione su Quasi leggera morte. Ottave, di Osip Mandel’štam. A cura di Serena Vitale, Milano, Adelphi, 2017


Sto leggendo l’ultima fatica di quella straordinaria lettrice di poesia che è Serena Vitale: Osip Mandel’štam, “Quasi leggera morte. Ottave”. Premetto che non conosco la lingua russa. E’ un mio grande rammarico. Se esiste la reincarnazione, in un’altra vita voglio impararla: se non altro per leggere alcuni dei più grandi poeti dell’Occidente, a cominciare da Puškin. Ma: e Blok, e Majakovskij, e Achmatova, e Cvetaeva e Pasternak? Guerra e pace l’ho letto che avevo 16 anni e non mi è mai più uscito dalla mente e dal cuore. L’Idiota, uno o due anni dopo. Lo stesso. Lessi Memorie dal sottosuolo mentre avevo cominciato la lettura di Kafka. Sono punti di riferimento1 alla Boulez: vale a dire pilastri della mia consapevolezza. Ma devo arrendermi allo scoglio della lingua (per fortuna, non per Kafka). Per uno che ama la poesia come me, e che sente l’intimo legame tra lingua e poesia, non è uno scoglio da poco. E’ anzi un ostacolo insormontabile. Tanto più che la poesia russa, come quella di altre lingue slave, e come la poesia tedesca e inglese, ha conservato la percezione della quantità, la stessa che ammiriamo nella poesia classica greca e latina. Mandel’štam scrive trimetri, tetrametri, pentametri giambici. Una sorta d’incunabolo della metrica indoeuropea. La ritroviamo in Sofocle come in Shakespeare come in Goethe. Ma con Sofocle, Shakespeare e Goethe mi trovo in una terra conosciuta. Nella terra di Puškin e di Mandel’štam, sunt leones. Eppure ne respiro una certa familiarità fin dall’adolescenza, quando in famiglia è entrata la moglie croata di mio zio. Frasi elementari croate so ancora pronunciarle. Ma soprattutto mi è familiare (alla lettera!) il suono della lingua, il suo consonantismo, la percezione della durata delle vocali, quello che oggi fa impazzire tanti italiani che leggono l’accento delle lingue slave che usano l’alfabeto latino come se fossero accenti tonici e sono invece indicatori della durata delle vocali. Gli italiani dicono Ianàcek e dovrebbero invece dire Iànaacek, per il compositore ceco Janáček. Per non parlare di Dvořák, che quasi tutti dicono Dvorgiàk ed è, invece, più o meno, Dvórgiaak. Da mia zia ho imparato il valore semivocalico della r e della l. Morte in croato e in russo si dice smrt. L’accento tonico cade sulla r. Trieste in croato è Trst. Anche qui l’accento tonico cade sulla r. Mi è servito poi quando ho cominciato a studiare il sanscrito. Ma torniamo al bellissimo volumetto curato dalla Vitale. Ci tornerò su quando ne avrò completato la lettura, fittissima, intensa, che richiede una costante attenzione. Ecco qua la prima ottava, nella traduzione della Vitale:

Amo l’apparizione del tessuto
quando una, due, più volte
manca il fiato e infine arriva
il sospiro che risana.

E tracciando verdi forme,
quasi archi di vele in regata
gioca lo spazio assonnato,
bambino ignaro della culla.

Il primo impatto farebbe esclamare: ma è incomprensibile! All’incomprensibilità, tra l’altro, contribuisce l’ignoranza della lingua. Poi leggi, nel commento, che nella tradizione russa si trova spesso la metafora del tessuto come materia della poesia. I versi dunque parlano della poesia: anzi, della nascita della poesia. Poi entra in gioco il senso di una costruzione, della visione di una regata, e sono i versi che sfilano, s’impennano, come vele, nascono quasi autonomi dalla penna del poeta, come se non ne avesse consapevolezza, e tuttavia proprio nella costruzione del verso sta la sua consapevolezza. Tutti coloro che inneggiano alla poesia immediatamente comprensibile, all’intuizione illuminante, alla crociana “espressione del sentimento”, sono qui serviti. “Se un’opera in versi si rivela riassumibile, lì la poesia non ha mai messo piede ...” dichiara Mandel’štam. Mi sono sentito felice a leggere quest’affermazione, espressa da un grande poeta. Perché riassume in una frase ciò che credo di avere capito fin da bambino, fin da quando mia madre mi fece leggere La quiete dopo la tempesta, e capii subito che la tempesta non è solo la tempesta. La poesia nasce dal corto circuito di pensiero ed emozione, l’uno senza l’altra non produce poesia, non canta. Quando nel primo canto del Paradiso, mentre il personaggio Dante e la sua guida Beatrice salgono al cielo della luna, il poeta Dante (che non è il personaggio!) mette in bocca a Beatrice un inno all’armonia dell’Universo, per spiegare il senso di quel volo che apparentemente infrange la legge della gravità (Dante non la conosceva come tale, ma sapeva che i corpi scendono, cadono, il fuoco invece sale). Non cito a caso Dante. E’ un saggio su Dante il testo teorico più significativo di Mandel’štam. Dante personaggio aveva chiesto alla sua guida come mai il suo corpo vincesse la forza di gravità – nella lingua scientifica di Dante: come mai invece di cadere il suo corpo saliva. Beatrice sente il bisogno d’inquadrare la spiegazione in un ordine universale delle cose. Dante non lo conosceva. Ma si pensa a Lucrezio. Lo spirito è quello: la poesia come febbre della conoscenza. E Beatrice attacca:

Le cose tutte quante
hanno ordine tra loro e questo è forma
che l’Universo a Dio fa simigliante.
Qui veggion l’alte creature l’orma
dell’etterno valore, il qual è fine
al quale è fatta la toccata norma.
Nell’ordine ch’io dico sono accline
tutte nature, per diverse sorti,
più al principio loro e men vicine;
onde si muovono a diversi porti
per lo gran mar dell’essere, e ciascuna
con istinto a lei dato che la porti.

Se il lettore non sa che “forma” è il termine tecnico con cui Aristotele, e quindi San Tommaso, definiscono la struttura delle cose, come capirà questo lettore la sublime poesia di questo passo? Ecco: anche la poesia richiede erudizione, conoscenza, studio, applicazione, ostinata insistenza di comprensione. Chi non vuole affrontare lo sforzo, se ne tenga lontano. L’idea che un’opera debba riuscire immediatamente, intuitivamente comprensibile è l’idea di chi vuole semplificare la realtà, nasconderne la complessità, perché costerebbe fatica affrontarla. Invece anche la poesia è fatica, richiede fatica. Al poeta e al lettore. Chiudo con un bellissimo aforisma di Robert Schumann, che cito spesso, ma che coglie perfettamente l’abisso tra chi conosce la complessità della poesia e chi vorrebbe immediatamente gustarla, come un bicchiere di Coca Cola, un gelato, un giocattolo usa e getta. “Mi piace, non mi piace, dice la gente. Come se non ci fosse niente di più importante da fare al mondo che piacere alla gente”. Ha ragione Schumann. Attenti! Ascoltate, infatti, Rimbaud: la poesia non apre necessariamente un paradiso, può invece essere più spesso un viaggio all’inferno:

ché non è impresa da pigliare a gabbo
discriver fondo a tutto l’Universo,
né da lingua che chiami mamma o babbo.

Ancora Dante. Lo chiama in causa anche Serena Vitale, che pone a intestazione del prezioso volumetto le seguenti terzine del Paradiso:

Nel suo profondo vidi che s’interna
legato con amore in un volume
ciò che per l’universo si squaderna;
sustanze e accidenti e lor costume,
quasi conflati insieme, per tal modo
che ciò ch’i’ dicoè un semplice lume.

Mi commenti questi versi chi non sa niente della Metafisica di Aristotele e della riflessione teologica di San Tommaso! C’è anzi, perfino un pizzico di Duns Scoto!

Di nuovo mi soccorre Dante:

Fatti non foste a viver come bruti
ma per seguir virtute e conoscenza.

Versi che Primo Levi cita in Se questo è un uomo a illuminare l’orrore di Auschwitz. Non servono commenti.

Fiano Romano, 16 luglio 2017

1Titolo di una raccolta di saggi.

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