domenica 30 luglio 2017

L'improvvisazione nella pratica musicale

Un post, su Facebook, di Luca Ciammarughi, che discute la polemica suscitata da Jordi Savall, intervistato sulla Stampa, riguardo all’improvvisazione nella musica antica e no, mi ha suggerito alcune riflessioni. Eccole. Non vogliono chiudere una questione, che non può essere chiusa, ma solo discussa, ne ardiscono prendere posizione per uno o l’altro campo della polemica, tradizionalisti contro improvvisatori come scrive Sandro Cappelletto, o più esattamente il titolo del suo articolo, sulla Stampa del 29 luglio scorso, pag. 33. Non si tratta di questo. Nei conservatori francesi s'insegna ancora a improvvisare. In Italia no. Forse da qui nasce l’equivoco. E la polemica. La Stampa la definisce un “caso”. L'improvvisazione ha fatto parte della pratica musicale per secoli, anzi per millenni, direi. Con l’avvento della monodia accompagnata, la realizzazione di un basso cifrato, anche in una pagina contrappuntistica, richiedeva e richiede grande fantasia d'improvvisatore. Ma l’improvvisazione, l'abbiamo oggi confinata quasi solo alla pratica del jazz e della musica cosiddetta di consumo. Un pianista, la realizzazione del basso cifrato, se non la trova già elaborata e scritta da qualcuno sulla partitura stampata, può trovarsi talora disorientato, spesso messo alle strette e incapace di suonarla, vale a dire d’inventarla. E forse anche qualcuno dei clavicembalisti troverebbe qualche difficoltà. Savall su questo ha ragione. Il problema è, però, di non demonizzare nessuno. Nemmeno coloro che richiedono un sacrosanto rispetto della scrittura sei-settecentesca, che chiamiamo genericamente e non sempre propriamente barocca. Un amico, grande clavicembalista e grande esperto di musica rinascimentale e barocca, Sergio Vartolo, mi ha detto una volta che spesso i pianisti suonano Bach con più fantasia dei clavicembalisti, i quali apparirebbero spesso – ma non sempre - più timidi e rigidi, meno liberi. Invece proprio i clavicembalisti dovrebbero sfoggiare una inesauribile fantasia d'improvvisatori. Questo mi sembra conciliare gli opposti. Perché scegliere un campo o l'altro, quasi eserciti in guerra? Emilia Fadini, colei che ha curato una nuova edizione critica delle Sonate di Scarlatti, mi disse una volta che tra le tante cose che pensiamo di restaurare filologicamente non restauriamo l'unica che i musicisti barocchi ritenevano davvero indispensabile: la libertà e la fluidità dell'interpretazione. Probabilmente se noi, con la macchina del tempo, potessimo ascoltare oggi Chopin suonare Bach, inorridiremmo. Eppure quel suo Bach spiega tante cose della sua musica. I suoi Studi e i suoi Preludi, per esempio. Ma non solo. Anche le sue Mazurke. E perché no? A parte la raffinata elaborazione contrappuntistica, con gli anni sempre più fitta, è bachiana la stilizzazione e complessa nobilitazione di una danza. Bisognerà ritornare, inoltre, a una corretta interpretazione del termine "filologia": rigorosamente, è legittimo applicarlo solo alla ricostruzione di un testo. Il resto è ipotesi, opinione, libertà. So che mi attirerò molti strali, da una parte e dall'altra, che sarò frainteso e attaccato. Ma il termine, strettamente letto, indica solo la ricostruzione di un testo. Poi, quanto all'interpretazione del testo, dipende dalla cultura, dalla fantasia, dalla sensibilità del lettore. I grandi filologi classici ci hanno restituito con una certa probabilità (la certezza in filologia non esiste, e forse non esiste in nessuna disciplina) i testi dei poeti e degli antichi scrittori greci e latini. Ma il testo così ricostruito è lasciato poi all'interpretazione del lettore. L'ultimo, sublime, canto dell'Iliade, i lunghi, struggenti lamenti sul cadavere di Ettore, non dicono a tutti i lettori la stessa cosa, non suscitano né le stesse riflessioni né tanto meno le stesse emozioni. Ma questo, lungi dall’essere un difetto, è la ricchezza della poesia.

Fiano Romano, 30 luglio 2017

Nessun commento:

Posta un commento