Un post, su
Facebook, di Luca Ciammarughi, che discute la polemica suscitata da
Jordi Savall, intervistato sulla Stampa, riguardo all’improvvisazione
nella musica antica e no, mi ha suggerito alcune riflessioni. Eccole.
Non vogliono chiudere una questione, che non può essere chiusa, ma
solo discussa, ne ardiscono prendere posizione per uno o l’altro
campo della polemica, tradizionalisti contro improvvisatori come
scrive Sandro Cappelletto, o più esattamente il titolo del suo
articolo, sulla Stampa del 29 luglio scorso, pag. 33. Non si tratta
di questo. Nei conservatori francesi s'insegna ancora a improvvisare.
In Italia no. Forse da qui nasce l’equivoco. E la polemica. La
Stampa la definisce un “caso”. L'improvvisazione ha fatto parte
della pratica musicale per secoli, anzi per millenni, direi. Con
l’avvento della monodia accompagnata, la realizzazione di un basso
cifrato, anche in una pagina contrappuntistica, richiedeva e richiede
grande fantasia d'improvvisatore. Ma l’improvvisazione, l'abbiamo
oggi confinata quasi solo alla pratica del jazz e della musica
cosiddetta di consumo. Un pianista, la realizzazione del basso
cifrato, se non la trova già elaborata e scritta da qualcuno sulla
partitura stampata, può trovarsi talora disorientato, spesso messo
alle strette e incapace di suonarla, vale a dire d’inventarla. E
forse anche qualcuno dei clavicembalisti troverebbe qualche
difficoltà. Savall su questo ha ragione. Il problema è, però, di
non demonizzare nessuno. Nemmeno coloro che richiedono un sacrosanto
rispetto della scrittura sei-settecentesca, che chiamiamo
genericamente e non sempre propriamente barocca. Un amico, grande
clavicembalista e grande esperto di musica rinascimentale e barocca,
Sergio Vartolo, mi ha detto una volta che spesso i pianisti suonano
Bach con più fantasia dei clavicembalisti, i quali apparirebbero
spesso – ma non sempre - più timidi e rigidi, meno liberi. Invece
proprio i clavicembalisti dovrebbero sfoggiare una inesauribile
fantasia d'improvvisatori. Questo mi sembra conciliare gli opposti.
Perché scegliere un campo o l'altro, quasi eserciti in guerra?
Emilia Fadini, colei che ha curato una nuova edizione critica delle
Sonate di Scarlatti, mi disse una volta che tra le tante cose che
pensiamo di restaurare filologicamente non restauriamo l'unica che i
musicisti barocchi ritenevano davvero indispensabile: la libertà e
la fluidità dell'interpretazione. Probabilmente se noi, con la
macchina del tempo, potessimo ascoltare oggi Chopin suonare Bach,
inorridiremmo. Eppure quel suo Bach spiega tante cose della sua
musica. I suoi Studi e i suoi Preludi, per esempio. Ma non solo.
Anche le sue Mazurke. E perché no? A parte la raffinata elaborazione
contrappuntistica, con gli anni sempre più fitta, è bachiana la
stilizzazione e complessa nobilitazione di una danza. Bisognerà
ritornare, inoltre, a una corretta interpretazione del termine
"filologia": rigorosamente, è legittimo applicarlo solo
alla ricostruzione di un testo. Il resto è ipotesi, opinione,
libertà. So che mi attirerò molti strali, da una parte e
dall'altra, che sarò frainteso e attaccato. Ma il termine,
strettamente letto, indica solo la ricostruzione di un testo. Poi,
quanto all'interpretazione del testo, dipende dalla cultura, dalla
fantasia, dalla sensibilità del lettore. I grandi filologi classici
ci hanno restituito con una certa probabilità (la certezza in
filologia non esiste, e forse non esiste in nessuna disciplina) i
testi dei poeti e degli antichi scrittori greci e latini. Ma il testo
così ricostruito è lasciato poi all'interpretazione del lettore.
L'ultimo, sublime, canto dell'Iliade, i lunghi, struggenti lamenti
sul cadavere di Ettore, non dicono a tutti i lettori la stessa cosa,
non suscitano né le stesse riflessioni né tanto meno le stesse
emozioni. Ma questo, lungi dall’essere un difetto, è la ricchezza
della poesia.
Fiano Romano, 30
luglio 2017
Nessun commento:
Posta un commento