“Lo
scartellato, per esempio. Stava seduto due tavoli più avanti. Che
meraviglioso oggetto di studio!
“Ogni
volta che andava, a quel gobbetto se lo ritrovava là. Si vede che
frequentava assiduamente il Due Sicilie, né c’era da stupirsene,
data la sua ghiottoneria. Come al solito, aveva davanti a sé due
coppe di sorbetto alte così, di due gusti diversi, mai gli stessi.
Piluccava di qua e di là, di qua e di là. ...
“Indossava
un soprabito turchino, liso, e portava calze rattoppate. In compenso
aveva un bel fazzoletto al collo: memore di una ricchezza ormai
trascorsa? O una tale trascuratezza nel vestire – forse di questo
si trattava, più che di reale indigenza – era il segno di
un’indole inquieta, ribelle, o magari dell’ascetismo tipico di
certi artisti moderni? ...
Gli
altri avventori lo salutavano ed egli rispondeva sempre cordialmente,
con il sorriso di chi conosce tanto a fondo gli uomini da essere
giunto dapprima a disprezzarli per le loro manchevolezze, per
l’inadeguatezza al ruolo di somma responsabilità affidato loro
dall’Eterno, poi, per quella stessa inadeguatezza e quelle stesse
manchevolezze, a compiangerli, e quasi a giustificarli. ( La
carrozza di Priapo, pagg,
196-98)
Il
passo qui sopra è un cameo da un romanzo del 2016, il terzo di
quattro che
Massimilano Felli ha dedicato
alle indagini del commissario Cafasso, un ispettore di polizia
napoletano tra gli ultimi anni del Settecento e i primi decenni
dell’Ottocento, nell’ordine: Il velo davanti agli occhi, Il fuoco
in fondo al mare, La carrozza di Priapo e De Peccatis Nostris, tutti
pubblicati dalla
Stamperia del
Valentino, tra
il 2015 e il 2017. Nel cameo compare lo “scartellato”, Giacomo
Leopardi, goloso di sorbetti, come il commissario Cafasso. Gli
scugnizzi lo beffano per la gobba. E lui per risposta dà i numeri da
giocarsi al lotto. Li gioca anche il commissario, e perde. Sono
quattro romanzi godibilissimi, e restituiscono con vivacità
ammirevole la vita napoletana di quel periodo, e di sempre.
Inesauribile l’invenzione linguistica che ricostruisce appunto
attraverso la lingua, un’epoca, una città. Il
genere non preclude analisi storiche, sociologiche, non trascura il
profondo, l’occulto e – se si vuole – l’inconscio dei
personaggi. L’intrattenimento non esclude la cultura, anzi è reso
più vario, e più interessante, proprio dal sostrato fittissimo di
riferimenti culturali. Che nell’ultimo romanzo, De Peccatis
Nostris, si fa sostanza stessa del racconto. La vicenda si svolge,
infatti,
dopo la fallita Rivoluzione Napoletana del 1799, e l’esergo
crociano, che
campeggia nella prima pagina,
ne chiarisce bene il senso e l’allusione all’oggi:
“Mai come allora in Napoli si vide il monarca mandare alla morte /
… / tutto il fiore intellettuale e morale del paese”. Ed è su
quello spegnimento che il narratore crede di cogliere la prova
generale di un altro e successivo spegnimento, quello che ancora
stiamo vivendo, oggi, in Italia. De Peccatis Nostris è del 2017. Tre
anni dopo, per i tipi di Fazi, escono le Vite apocrife di Francesco
d’Assisi.
Apriamo
una parentesi sul titolo: Vite apocrife. Esistono i Vangeli apocrifi,
Apocalissi apocrife, e perfino apocrifi dell’Antico Testamento.
Esistono i Vangeli gnostici. Il formarsi di un canone ufficiale di
racconti e di testi riguardo la figura di Gesù, e già prima in
ambito ebraico, di libri dell’Antico Testamento riconosciuti
dall’autorità religiosa, è stato un cammino lungo, contrastato.
Quando è stato possibile, quando una qualche autorità religiosa ha
assunto anche il potere politico, o
ha ottenuto l’appoggio di un potere politico, i
testi non conformi alla tradizione voluta, accettata, decretata
veritiera, sono andati distrutti. Altri sono sopravvissuti e spesso
su di essi si sono costruiti movimenti, sette, in contrasto con
l’autorità principale. Da
qui l’interesse della Chiesa, dei rabbini, a farli scomparire.
Perfino i padri della Chiesa sono risultati sospetti, se greci, ai
latini, se latini ai greci. E qualcuno, come Origene, destò sospetti
in entrambi i campi, se non altro per il fatto che si servisse nei
suoi scritti anche di testi gnostici. Non c’è dunque da
meravigliarsi se anche su una figura così complessa, come quella di
Francesco d’Assisi, che
per di più sorse in un periodo tormentatissimo per la Chiesa, sia
per il fiorire di eresie importanti come quella dei Catari nel sud
della Francia, sia per la lotta insieme teorica e politica con
l’Impero, la Monarchia di Dante, circa un secolo dopo cercherà
appunto di chiudere la contesa, separando nettamente i poteri, niente
di sorprendente dunque se anche intorno alla figura di Francesco
sorsero molti racconti e popolari e dotti che confluirono in una
variegata letteratura agiografica. Quando anche all’interno del
movimento francescano sorsero contrasti, l’autorità che alla fine
prese il sopravvento volle, e con rigore. Tacitare tutte le voci
dissidenti. Questo è il panorama storico, teologico, filosofico, ma
soprattutto ideologico, di idelogie contrastanti, in cui s’inserisce
il romanzo di Massimiliano Felli.
La
Napoli
della
Rivoluzione
è abbandonata. E con
Napoli, anche l’epoca
che fu il preludio della nostra modernità, ma insieme anche il
presentimento del declino della modernità, la preveggenza – a
Napoli possibile come in nessun’altra città – del post-moderno,
della confusione dei linguaggi. Qui, invece, nell’Umbria
del XII e XIII secolo, indietreggiamo
all’autunno, se non al tramonto, del Medio Evo, e all’aprirsi,
tragico, di quel contrasto, anzi di quel conflitto, tra capitale e
felicità umana, di cui ancora, nel
XXI secolo,
non vediamo né la soluzione né la fine. E che il conflitto si
faccia più aspro, e perfino più feroce, proprio all’interno della
stessa famiglia, non è tanto l’accertamento d’un dato storico,
direi
anzi quasi archeologico, fondante, delle
origini del capitalismo italiano, quanto lo stigma di un peccato
originale della società italiana non ancora perdonato in
epoca del postmoderno,
figuriamoci poi redento.
Il
padre di Francesco è un mercante, e il nome stesso del figlio –
che
significa “francese”
– testimonia la vastità dei suoi campi d’azione, la dimensione
europea del mercato di cui insieme Pietro
di Bernardone
fa parte ed è promotore. E’
da questo campo d’azione che il figlio Francesco
si distacca,
ed anzi vi si oppone: al possesso del
padre e di tutti gli altri possessori, non esclusa la Chiesa,
il
figlio
contrappone l’assoluta indigenza, la povertà, alla
quale l’umo, per nascita e per natura, deve attenersi.
Felli coglie molto
bene,
come aveva già fatto Dante, il nodo stesso del messaggio e
dell’azione di Francesco: l’obbligo di una povertà assoluta, il
rifiuto di qualunque possesso materiale, non
già come generico appello a una modestia cristiana, bensì come
esigenza ontologica dell’essere uomo.
Molti commentatori hanno rimproverato, e rimproverano ancora, a
Dante, di avere inteso solo parzialmente il messaggio francescano, di
averlo circoscritto all’obbligo della povertà, tralasciando e
trascurando gli altri aspetti della teologia e
dell’umanesimo
francescani.
Che
poi non sempre si capisce quali siano. Ma
non è così. Intanto, Dante mette
in scena
nel canto di Francesco (Paradiso,
XI) una sorta
di
vera e propria sacra rappresentazione, i cui protagonisti sono
Francesco e Madonna Povertà. Non
è, però,
un caso che a inscenarla sia un Dottore della Chiesa, San Tommaso,
che oltre tutto, per molti versi, è anche il riferimento teologico
della Commedia (a
dire il vero i riferimenti sono molti, Tommaso non è l’unico,
anche se il principale, vi ha gran parte anche la teologia di Duns
Scoto, soprattutto per quanto riguarda il ruolo della Voluntas – il
Velle della visione finale di Dio – canto XXXIII, e San Bonaventura
di Bagnoregio, come vedremo, in quanto personaggio del romanzo di
Felli).
Come a dire che nell’esaltazione delle stato di natura, della nuda
povertà dell’uomo – e quello
scandaloso denudamento pubblico,
attuato
in una piazza
pubblica,
davanti al padre e davanti a Vescovo, da Francesco,
quello
spogliarsi d’ogni
indumento per
restare, davanti a tutti, spettacolo della nudità adamitica
originaria,
ne è l’epifania insieme
umana
e
teologica,
simile a quella che
si rivelò ai pastori
di Gesù
nudo nella culla di Betlemme:
l’Imitatio
Christi si fa perfetta, proprio perché inscena un atto di nascita,
una lauda, o una sacra rappresentazione, della nudità originaria
dell’uomo, e Dante, come s’è visto, lo coglierà
perfettamente
– in
quest’assoluta nudità del corpo, in
questa
integrale indigenza, come
indigenza, dipendenza, inermità originaria, ontologica dell’uomo,
si mostra la fratellanza della creatura uomo a tutte le altre
creature del creato. Compresa la fratellanza della morte: “Laudato
si’ mi’ Signore per sora nostra morte corporale, da la quale
nullu homo vivente pò scappare”. Perché tutto il reale è buono.
Il male non
appartiene al reale, ma proviene dall’uomo, può
introdurlo nel
mondo
solo l’azione umana: anche
in ciò Francesco mostra una perfetta sintonia con il pensiero di
Dante (e di Tommaso), quando nel Purgatorio spiega le origini del
male: “lo
naturale è sempre sanza errore”
(XVII, 94).
L’uomo
che
si adegua a questa nudità integrale di tutte le creature è
l’uomo che meglio imita Cristo, l’uomo ch’è solo nuda natura e
non possiede niente.
Il peccato più grave diventa allora quello
di
appropriarsi di una parte del reale e farne il proprio esclusivo
possesso: escludendone,
appunto, gli altri. La contesa delle cose possedute diventa così la
causa delle contese umane.
Non
ci si meravigli della somiglianza di
questo principio francescano con
la critica della proprietà privata che
si legge
nel Capitale, e prima ancora nei Manoscritti economici filosofici del
‘44, di Marx. Nel ‘200 la predicazione di Francesco appariva,
infatti,
ugualmente rivoluzionaria quanto
quella di Marx nel secolo XIX e in seguito.
Tanto rivoluzionaria
che l’Ordine fondato da Francesco presto,
ancora
vivo il Santo,
si divise tra chi voleva restare fedele alla lettera della
prescrizione di povertà e chi voleva invece
intenderla come messaggio morale, allegorico, di distacco dai beni
terreni per
dedicarsi alla vita spirituale: per la serenità di questo distacco,
i beni, ma
posseduti non dai singoli frati, bensì
dall’Ordine, diventano così necessari.
Vinsero i secondi, i
conventi si arricchiscono d’immense proprietà terriere
e logicamente le
autorità dell’Ordine
vollero far scomparire qualsiasi testimonianza che potesse invece
mostrare quanto Francesco intendesse alla lettera l’ingiunzione di
povertà.
Massimiliano Felli
Il
romanzo di
Massimiliano Felli
s’incentra perciò sulla figura di un segretario di San
Bonaventura, fra’ Deodato, amanuense che ha copiato in varie
biblioteche d’Europa le vite del Santo. San Bonaventura ha scritto
un vita di San Francesco che vuole sia considerata l’unica
ufficiale. l’unica
ammessa, approvata e
conosciuta dalla Cristianità.
Chiede perciò al suo segretario di recuperare, nelle biblioteche dei
vari monasteri, tutte le altre vite, che raccontano episodi a suo
dire non veri della vita del Santo di Assisi. Di raccogliere e
distruggerle insieme alle altre che egli ha già copiato.
San
Bonaventura è un po’ il motore di tutta la vicenda del romanzo. Ed
è figura centrale anche della Commedia di Dante. Come nel canto XI
del Paradiso il domenicano San Tommaso tesse l’elogio di San
Francesco,
fondatore
dell’Ordine dei Frati Minori, i Francescani, nel canto successivo
il francescano San Bonaventurta tesse quello di San Domenico, il
fondatore dell’Ordine dei Frati Predicatori, i Domenicani. Ma San
Bonaventura è anche l’autore di un Itinerarium mentis ad Deum,
viaggio della mente a Dio, che è il sottotesto dell’intera
Commedia. Ma anche del romanzo di Felli. In cui appunto sono messi a
confronto la via rigorosa, integrale, di Leone, compresa la fragilità
della carne, verso la salvezza, e quella, moderata, di Bonaventura,
che viene a patti con il potere politico terreno, e fonda anzi un
potere terreno anche dell’Ordine dei Minori, dei Francescani.
Deodato,
il
suo segretario, l’amanuense che ha letto e copiato le diverse vite,
anche quelle giudicate da Bonaventura inaccettabili, e
condannate come
apocrife.
non se la sente di
ubbidire.
E qualcosa di quei racconti proibiti
riemerge nel suo racconto. Il romanzo non ha un vero
e proprio
filo cronologico, anche
se procede ordinatamente dalla missione distruttrice di Dedato alla
sua morte, ma
narra, parallelamente, sia
le
vicende di Francesco sia
quelle
di Deodato, che
si svolgono
più di mezzo secolo dopo. Deodato
non si pronuncia sulla veridicità dei racconti. La
sua mente è turbata da dubbi, sia nei confronti delle vite apocrife,
sia nei confronti della verità ufficiale proclamata da Bonaventura,
e non sa decidersi. L’
“Avvertenza”, premessa al romanzo, è indispensabile, per
capire il senso stesso del romanzo1:
“Benché basato su fonti storiche, il presente romanzo è da
considerarsi un’opera d’invenzione narrativa. Come talvolta sono
le fonti storiche stesse”. Il veleno sta nella seconda frase.
Ma
non entro nei particolari della narrazione, per non privare il
lettore del piacere di scoprirli. Vivacissima
tutta la prima parte che racconta la vita di Francesco prima della
prigionia e della conversione,
le sue scorribande e i suoi piaceri di giovin signore.
Si dubita, poi,
delle stimmate, si dubita della castità di Francesco e di Chiara. Ma
perché veramente Francesco non ricevette le stimmate e veramente gli
incontri con Chiara non furono mistici ma carnali? In realtà questa
è la versione di chi racconta, Deodato o le sue fonti. Non del
romanziere. E lo stesso Deodato non le dà per fatti certi, perché
lui non ne fu testimone, e quando potrebbe avere una prova, anche
indiretta – la chiave che dà accesso a un ingresso segreto nel
convento di San Damiano dove in una cella vive Chiara, Deodato si
rifiuta di adoperarla, potrebbe essere la chiave giusta oppure no, ma
non vuole scoprirlo.
“La
storia che i testimoni t’hanno raccontato, a loro volta ignorandone
le cause prime e il fine ultimo, non gravarla d’interpretazioni”.
Dice Deodato al suo giovane segretario, anche lui un amanuense: “di
mistificazioni. A che giova? Enumera i nudi eventi, copiali in
bell’ordine così come accaddero, o meglio, come credi in coscienza
che siano accaduti. Sine
glossa.
Rammentalo.
Né esegesi, né postille; sospendi il giudizio. Finalmente
abbandonato all’umano stupore, arreso all’inestricabilità delle
cose di Dio e del mondo, tu sarai un poco più prossimo ad intuire il
vero: sine
ulla glossa”.
In fondo I fioretti di San Francesco sono anch’essi, a loro modo,
vite apocrife. E’ apocrifo ogni racconto che non sia la vita
vissuta, fosse anche il racconto di chi quella vita l’ha vissuta. O
mica immagineremo che la Vita di Benvenuto Cellini; oppure
Poesia
e Verità,
l’autobiografia di Goethe; o
la Vita scritta da esso, l’autobiografia di Vittorio Alfieri,
raccontino davvero le loro vite, e non siano invece anche
questi scritti, che si presentano come autobiografici,
nient’altro che il romanzo delle loro vite. Non ultimo fascino di
quest’avvincente romanzo è, però,
soprattutto
la sua lingua. Massimiliano Felli ci aveva abituati alla lingua
vivacissima dei quattro romanzi napoletani. Qui cambia registro. Ma
non
si butta a inventarsi un’improbabile lingua del Duecento. Non è
D’Annunzio che riscrive la Vita di Cola di Rienzo. Adopera la
lingua di oggi. Ma la farcisce di citazioni, di termini, che la
precipitano nel crogiolo linguistico ed esistenziale di ottocento
anni fa. Soprattutto fa un largo uso della lingua latina di allora.
Senza tradurla. E fa bene. Che il lettori si sforzino di captare la
familiarità di quegli uomini con la lingua latina. Era la loro
lingua quotidiana, più del volgare. Era comunque la lingua dei
documenti, delle regole, dei convegni, dei conclavi, dei processi per
eresia, delle università. Ed
è il latino che ha contratto i dittonghi, scrive puelle, non
puellae. Eccone un esempio, bellissimo:
Eius
– Sancti Francisci – temporibus, celo sua dona pluente,
Edidit
Asisium florem sydusque novellum,
Claram,
qua floret, qua claret mundus, et ordo
Virgineus
quondam premortuus orbe revixit;
Cuius
odore novo, cuius splendore beato
Preredolet
patria, provincia tota coruscat.
Fertilis
Asisii tellus generosaque vitis,Duplice sub fructu gaudens … (pag.
219)
A
ognuno,
dopo la lettura, decifrare il messaggio contemporaneo sotteso al
racconto. Si fa un gran parlare, oggi, del destino delle società
capitalistiche, dell’esito che avranno gli scontri tra gli egoismi
locali e un universalismo più di parole che di fatti. Abbiamo
un Papa che si chiama Francesco, e forse non a caso, un papa che per
alcuni, per una parte del mondo cristiano, è motivo di scandalo.
Rileggersi in termini attuali la più essenziale cronaca duecentesca
potrebbe aprirci gli occhi a eventi che non vediamo. Facciamo un gran
tumulto, noi cristiani dell’Occidente, per il “sultano” turco
che vuole riconvertire in moschea la cattedrale di Santa Sofia, a
Costantinopoli, oggi Istanbul, ma dimentichiamo che noi cristiani
d’Occidente abbiamo convertito in cattedrale cristiana la moschea
di Cordoba, abbiamo anzi fatto di più, l’abbiamo deturpata,
costruendoci dentro, per la sua immensità, addirittura un’altra
cattedrale, una cattedrale gotica, che vi sta dentro come un corpo
estraneo, un meteorite piombato dallo spazio. Perfino l’Imperatore
Carlo V ne inorridì e lo definì un crimine”. Ma di crimini è
punteggiata tutta la storia umana. In ogni epoca. L’addomesticamento
del messaggio francescano fu anch’esso, forse, un crimine. Se non
altro, fu, forse, un’occasione mancata, un privilegio perduto.
Riconoscerci per quel niente che siamo. Ma non ci riuscirà,
m’immagino, nemmeno l’invasiva minaccia di un virus, a convincere
l’umanità di non essere niente. Il suo orgoglio smisurato è più
forte di qualsiasi evidenza la realtà si ostini a buttarle addosso.
E continuiamo dunque a non voler guardar fuori, a fissarci
l’ombelico. Lo “scartellato”, da cui siamo partiti, l’aveva
scritto chiaramente: “Due verità che gli uomini generalmente non
crederanno mai: l’una di non saper nulla, l’altra di non essere
nulla. Aggiungi la terza, che ha molta dipendenza dalla seconda: di
non aver nulla a sperare dopo la morte”. Leopardi, Zibaldone, 16
settembre 1832
Massimiliano
Felli, vite apocrife di francesco d’assisi, Roma, Fazi Editore,
2020, pagg. 371, € 17,00